(di Nicholas Ray, 1976)
Film sperimentale e ultima opera del regista Nicholas Ray (1), direttore di pellicole quali Gioventù bruciata (1955), La donna del bandito (1948), Johnny Guitar (1954), Dietro lo specchio (1956) e altri celebri titoli della Hollywood del secolo scorso. Tra i temi ricorrenti in alcune delle opere più conosciute di Nicholas Ray spiccano quelli legati alla ribellione giovanile, alla difficoltà dei ragazzi nell'accettare una società non costruita da loro e contraria a molti dei principi caldeggiati proprio da quella "gioventù bruciata", e ancora l'inadeguatezza, l'esclusione, il sentirsi altro dal modello comune spinto dalle generazioni precedenti e dalle autorità. Questi sentimenti, queste prese di coscienza, precedenti alle proteste che presero piede per poi crescere sempre più nella seconda meta dei Sessanta negli Stati Uniti, in We can't go home again incontrano la Storia, quella delle contestazioni, delle proteste contro la guerra in Vietnam, quelle per i diritti civili, quelle contro il razzismo, tornando oggi più attuali che mai, almeno in ambito cinematografico, in stagioni che ci hanno riportato agli eventi de Il processo ai Chicago 7, all'omicidio di Fred Hampton con Judas and the black messiah, alla questione razziale con One night in Miami... affiancati da tutta una serie di altri film a tema. In questo ritorno alla Storia la visione di We can't go home again trova, anche oggi, uno dei suoi motivi d'interesse, forse il più significante, l'altro è fuor di dubbio il lavoro di sperimentazione sulle immagini, oggi acquisito, che Nicholas Ray porta avanti in veste di insegnante insieme ad alcuni studenti del corso di cinema con i quali il regista si confronta, ai quali si apre, dai quali apprende e con i quali si scontra. Ma di cosa stiamo parlando e come nasce il progetto We can't go home again?Seppur muovendosi nello stretto e avendo rischiato prematuri arresti di carriera a causa di malcelate simpatie per le idee comuniste che in quegli anni erano negli States benviste come una grossa e puzzolente merda di vacca appiccicata alla suola delle scarpe, Nicholas Ray riesce in un modo o nell'altro, a fasi alterne, a barcamenarsi, a vivere, a guadagnare e a essere anche molto apprezzato all'interno dell'industria del cinema hollywoodiano, questo almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. Negli anni 60, in seguito a grosse difficoltà di gestione in produzioni colossali come quelle per Il re dei re e 55 giorni a Pechino, unitesi a diversi problemi di dipendenze sviluppate dal regista che in seguito verrà anche colpito dalla malattia (perderà la vista da un occhio, morirà poi di cancro ai polmoni), Nicholas Ray viene allontanato da Hollywood, il decennio dei 60 sarà un calvario alla ricerca di nuovi progetti e opportunità di produzione, spesso ricercate in Europa, che purtroppo naufragheranno una dopo l'altra. Dal 1963, anno in cui dopo mille difficoltà esce 55 giorni a Pechino, e il 1976 che vede approdare la versione definitiva di questo We can't go home again, il regista riuscirà a girare un solo cortometraggio. È in questo clima difficile, di chiusura e rifiuto per il cinema del passato e la sua industria, che Ray inizia a costruire questo film insieme agli studenti dell'Harpur College dove il regista è chiamato a tenere un corso di cinema; senza ruoli prefissati, nessun attore professionista, senza trama né sceneggiatura chiusa, con il contributo "attoriale" dello stesso Ray, il progetto inizia a prendere una forma, assolutamente non definita e per l'epoca innovativa.
We can't go home again tocca in maniera disordinata vari temi, alternati tra finzione ed evento storico, alcune immagini filmate nel corso degli anni dallo stesso Ray, a partire da quelle alla manifestazione di Chicago che portò al processo dei sette e dove Ray fu malmenato dalla polizia, si alternano al girato dei suoi studenti. Dentro ci finiscono i movimenti di protesta e le ideologie giovanili di una generazione che si sta confrontando ancora con la liberazione sessuale, si parla di droghe, prostituzione, suicidio, della contrapposizione tra ideali e forze dell'ordine repressive, di politica con la cocente delusione della vittoria di Nixon alle elezioni presidenziali. Il film ha una struttura quantomai libera, tecnicamente fa largo uso dello split screen arrivando a montare insieme fino a cinque riquadri, uno fisso di fondo e quattro in movimento simultaneo, si sperimenta molto sul colore e sulla distorsione delle immagini. Ciò che colpisce sono i paralleli tra le immagini storiche e il sentire ideologico dei protagonisti che creano spesso dei cortocircuiti emotivi di cui almeno uno molto forte e riuscito, quello della sequenza in cui uno dei ragazzi, disilluso dagli eventi, in uno slancio emotivo si taglia quella barba che era anche simbolo di un modo di essere, di un'idea ormai sconfitta. Per Ray probabilmente, al di là degli argomenti toccati, questo film era un'occasione di distacco da quell'industria in cui non si ritrovava più, un modo per andare avanti in maniera libera e abbracciare la voglia dei più giovani di rompere con la tradizione (quel "non ci importa niente di Hollywood" detto da uno degli studenti), purtroppo anche per We can't go home again le difficoltà non mancarono di farsi sentire: un primo montaggio provvisorio si vide a Cannes nel '73, l'editing finale non vide la luce fino al 1976 per mancanza di fondi, Ray morì tre anni più tardi non ancora completamente soddisfatto del risultato finale. Una versione più o meno definitiva uscì nel 2011 al Festival di Venezia supervisionata dalla moglie di Ray.
Film di non facile fruizione, un documento più che un vero film, opera libera, frammentaria, caotica, girata con l'ausilio dei supporti più svariati, discontinua, indicativa di un'epoca e di una fase di carriera di un regista importante e prossimo alla sua dipartita. Più interessante che non "bello" o "appassionante" intesi nel senso più comune dei due termini, uomo avvisato...
1 Ci sarà poi ancora un film, Lampi sull'acqua - Nick's Movie, realizzato durante i suoi ultimi momenti di vita e girato in gran parte da Wim Wenders.
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