martedì 23 ottobre 2018

BEKET

(di Davide Manuli, 2008)

Il Beket di Davide Manuli è una sorta di U.F.O. nel panorama cinematografico italiano dell'ultimo decennio. Indubbiamente la definizione di "oggetto non identificato" calza a pennello all'opera del regista milanese, qui in trasferta in terra sarda. Per il "volante" se ne può discutere: se nelle intenzioni del regista c'era quella di volare alto non è dato sapere, però i riferimenti poco canonici (fin dall'ortografia del titolo) all'opera di Samuel Beckett, "Aspettando Godot", già poco canonica di suo, qualche pretesa di spessore la lasciano intendere. Beket è un insieme di frammenti insensati ai quali, volendo, lo spettatore può tentare di dare un senso tutto suo, un'interpretazione che potrebbe riguardare il concetto di "attesa", come potrebbe riferirsi all'insensatezza delle nostre esistenze, alla ricerca di qualcosa di più alto di noi, o semplicemente all'attesa di quel Godot che alla fine nessuno sa chi o cosa cazzo sia, e che tutt'al più si può intuire non arriverà mai, e comunque non oggi, come conferma un ragazzino ai due protagonisti del film e a quelli dell'opera teatrale di Beckett.

Lo scenario è straniante, arido, ampio, solingo, stonante. Il bianco e nero d'effetto, maturo, graziato dalla fotografia di Tarek Ben Abdallah, rende il paesaggio sardo quasi lunare, alieno tanto affascinante quanto spopolato. All'interno di esso si muovono figure inaccessibili, irrazionali, di poca azione e di qualche parola, sicuramente di poche connessioni coerenti, amanti della ripetizione e di quello che diventa a tutti gli effetti, sia come omaggio che come cifra stilistica propria, un teatro dell'assurdo.


Un pugile (Simone Maludrottu) tira di boxe su una base techno dance. In un deserto abbacinante un uomo cammina solo, una radiolina nella sua mano emette scariche, voci incomprensibili. L'uomo cammina, cammina, cammina, si siede su una pietra. È francese, è Jajà (Jérôme Duranteau), incontra un surreale mariachi (Freak Antoni degli Skiantos) che discetta d'amore e di belli e buoni, brutti e cattivi e avanzi di galera, puttane, mammasantissima e magnaccia, tossicomani e burloni, banditi e massoni, santi, navigatori e poeti, froci, lesbiche e lavoratori, brava gente, contadini e militari... e militari. Entra in scena Freak (Luciano Curreli), si cambia le scarpe. Sarà compagno di viaggio di Jajà, insieme corrono verso una fermata d'autobus, un bus che nulla ha da invidiare per stramberia al Nottetempo di Harry Potter o al Gattobus di Totoro, soprattutto se calato nel contesto spettrale di una terra disabitata. Da qui in avanti confronti e dialoghi nonsense tra i due, alcuni spassosi per quanto fuori fase, accompagnano un viaggio spezzato da ritmi elettro dance e incontri allucinati, come quelli con l'Agente 06, un tipo dalla parlata strana che gira con una vecchia Fiat Panda interpretato da Fabrizio Gifuni. Concede un cameo il comico Paolo Rossi, l'Agente 08, uno l'avvenente Letizia Filippi... insomma, gli incontri non mancano, l'unico che non si vede è proprio questo Godot.

Non c'è meta, c'è viaggio, i ruoli si invertono (ma ruoli di che cosa?), non c'è significato. C'è significato? "Tutto vecchio. Nient'altro mai. Sempre tentato. Sempre fallito. Non importa. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio".

Una scheggia impazzita quella di Manuli. Non catalogabile, insensata, bene interpretata, veloce, rispettosa, probabilmente inutile, comunque affascinante. Difficile da giudicare, giudicare non è importante. Guardare lo è, vivere lo è (forse). Dove va Beket? Chi lo sa, intanto Freak e Jajà mi han riportato alla mente Totò e Ninetto, contesti diversi, però così è, mica tutto deve avere un senso.

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