(di David Fincher, 2020)
Immersione nel cinema della grande Hollywood degli anni 30 e 40, Fincher, regista di razza, su sceneggiatura del padre, mostra come trasformare un biopic in qualcosa di più grande, legato non solo agli eventi dell'epoca e non solo al suo protagonista, eclissando rapidamente altre biografie recenti osannate un po' ovunque e che si affidano a strade banalotte e già battute (si, qualche giorno fa ho visto Rocketman) senza destare grande coinvolgimento nello spettatore (almeno in questo). Ma torniamo a Mank. Il tema è spinoso: a chi attribuire il merito della stesura originale di Quarto potere, film che a momenti alterni viene eletto dalle classifiche di settore come il più importante (il migliore?) nella storia della Settima Arte (titolo che ultimamente è conteso da La donna che visse due volte di Hitchcock)? A Herman J. Mankiewicz, sceneggiatore esperto e caustico di provenienza teatrale o al genio emergente di Orson Welles al suo esordio cinematografico? Come si evince dal titolo i Fincher, padre (ormai defunto) e figlio, ci danno la loro risposta che probabilmente, come spesso accade, ci racconta una verità parziale, mentre le voci più accreditate parlano di una effettiva compartecipazione dei due all'esito finale, Mankiewicz domina sulla prima stesura e sulla creazione del soggetto, Welles lavora di fino per arrivare alla versione definitiva che a tutti gli effetti rivoluzionerà il modo di raccontare storie al cinema, ancor oggi quando ci stupiamo di fronte a soluzioni postmoderne tornare a Quarto potere potrebbe essere un buon modo per rimettere in prospettiva slanci oltremodo entusiastici.Proprio come in Quarto potere non c'è unità di tempo. Nel presente, inizio degli anni 40, dopo aver subito un incidente d'auto che lo costringerà a letto per un po' di tempo, a Herman J. Mankiewicz detto Mank (Gary Oldman) viene affidata la stesura di quello che dovrà diventare il primo film dell'enfant prodige Orson Welles (Tom Burke) che in virtù dei suoi precoci successi ha un contratto con la RKO che gli concede carta bianca su tutto ciò che desidera realizzare. Sessanta giorni per scrivere una sceneggiatura, disintossicarsi dall'abuso di alcool, sopportare le pressioni dell'intermediario John Houseman (Sam Troughton) e scrivere, scrivere, scrivere con l'aiuto di un'infermiera che tenterà di rimetterlo in sesto e della segretaria Rita (Lily Collins) incaricata di mettere su carta le idee di un Mank infermo. L'ispirazione arriva da storie dell'ultimo decennio di vita vissuta nella gloriosa Hollywood dei grandi studios: la Paramount, la MGM, l'RKO, la Warner e da tutti i personaggi che orbitano intorno al mondo del Cinema e in generale appartenenti all'America che conta, su tutti l'attenzione di Mank si concentrerà sul magnate dell'editoria William Rundolph Hearst (Charles Dance) e sulla sua fiamma, l'attrice Marion Davies (Amanda Seyfried) per la quale Mank proverà un'amore platonico per diversi anni. Ne uscirà un ritratto niente affatto lusinghiero infarcito dell'arguzia sferzante di un Mank incontenibile che sull'onda di delusioni politiche e umane, provocate dalla stessa cricca a cui Hearst appartiene, tratteggia un ritratto al vetriolo del magnate e della corte di personaggi che gli gira intorno: sarà il suo lavoro migliore, l'unico premiato con un Oscar in tutta la carriera dello sceneggiatore.
Fincher imbastisce un film corale, sovrastato dalla presenza ingombrante di Mank, personaggio affascinante e interpretato da un Oldman con buone probabilità di portarsi a casa un Oscar, per godere appieno del quale è consigliabile almeno la conoscenza dell'argomento principe, la visione di Quarto potere è quindi utile (non solo per via di Mank) ma tutto sommato la calata nel mondo della Grande Hollywood rimane piacevole per tutti. In un bianco e nero d'epoca, con contrasti mai troppo netti, si inseriscono nella narrazione le vere personalità di quegli anni, oltre a quelle già citate sopra, da ricordare almeno il fratello minore di Mank, quel Joseph L. Mankiewicz qui oscurato dall'ombra del protagonista ma che la storia del cinema consegnerà a maggior gloria (quattro Oscar, due per la regia, due come sceneggiatore, in curriculum Eva contro Eva, Cleopatra, Lettera a tre mogli, Giulio Cesare, La contessa scalza, etc...) e il produttore Louis B. Mayer, capo della Metro Goldwyn Mayer e interpretato anche lui ottimamente da Arliss Howard. Sullo sfondo i postumi della Grande Depressione, le elezioni del '34 in California e la paura che la minaccia rossa arrivi a compromettere lo stile di vita statunitense (paura prevalentemente di ricchi e benestanti), in questo contesto la simpatia di Mank per il socialismo sembra essere stata promossa da Fincher ben oltre la verità, curioso che nuovamente un altro grande film di un nome di richiamo veda la luce grazie a Netflix, ormai potenza economica che da molta critica viene vista come l'artefice di un livellamento della proposta se non proprio verso il basso almeno verso una medietà non esaltante. Non è questo il caso, Mank è un ottimo film che meriterebbe di essere visto, poi studiato nei vari fatti e protagonisti presentati, poi rivisto, opera ambiziosa la quale Fincher rende merito con una regia sapiente e una ricostruzione che dalle musiche (splendide di Trent Reznor e Atticus Ross) ai costumi ci riporta in un'epoca indimenticabile per ogni amante della Settima Arte.
Film decisamente affascinante che ti riporta in un'epoca davvero magica per la settima arte.
RispondiEliminaVero, un bel salto nella Hollywood degli anni d'oro.
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