(Jiao you di Tsai Ming-liang, 2013)
Film parecchio ostico Stray dogs (cani randagi) anche per chi è aduso a modelli di cinema alternativo al mainstream occidentale, ai tempi dilatati, alle narrazioni che non fanno del loro fondamento il mero concatenarsi di eventi, di scene madri e sviluppo logico di una trama ben definita. Anche per questi spettatori Stray dogs è una visione indubbiamente difficile che con tutta probabilità andrebbe approcciata dopo una conoscenza del percorso artistico di Tsai Ming-liang (per apprezzarne i segni di stile) di cui questo film è la penultima opera di una filmografia che conta poco più di una decina di lungometraggi. Stray dogs è il resoconto di una condizione, di esistenze oltre la crisi e l'umana indifferenza, è il post apocalittico senza la bomba, è il randagismo traslato dal cane all'uomo e permesso da una società abbruttita dove l'essere umano è l'ultima cosa a contare e ad avere importanza, proiezione avanti di un presente certo e di un futuro possibile su scala molto più ampia di quella attuale, sempre che il pianeta, mosso a pietà o arrabbiato, non decida di darci uno stop decisamente prima. Stray dogs è il racconto di tutto questo per quadri in (lievissimo) movimento.Un padre, due figli, una bambina piccola e un maschietto di poco più grande, una donna, forse la madre, forse semplicemente un figura materna (o più d'una), in realtà si alternano tre attrici nel ruolo ma non è chiaro se interpretino lo stesso personaggio. Non c'è nulla di chiarificato in Stray Dogs, i dialoghi sono ridotti all'osso, le azioni si ripetono cicliche, non c'è sviluppo, non c'è trama, c'è solo il miserabile del quotidiano, la disperazione e poco altro. Il padre (Lee Kang-sheng) di giorno lavora per una società di affitti immobiliari, è una sorta di cartellone pubblicitario umano, tiene in mano per tutto il giorno un'inserzione pubblicitaria in un incrocio trafficatissimo di Taipei, sotto la pioggia battente, al freddo, fustigato dal vento, circondato da automobilisti indifferenti. I bambini passano le giornate dentro i negozi, si lavano nei bagni pubblici, non hanno dimora, dormono in luoghi abbandonati adattati alla bell'e meglio per avere una parvenza di casa. Gesti, ricorrenze, la cupa disperazione degli adulti, la vivacità dei bambini anche in queste condizioni inaccettabili. Non c'è una storia ma c'è un messaggio, certo, magari non sappiamo quale fosse quello nella testa di Tsai Ming-liang mentre girava Stray dogs, ma quello che arriva allo spettatore è che come razza (umana) un po' di schifo lo facciamo.
La camera del regista, uno di quelli che ha rivitalizzato la New Wave Taiwanese negli anni 90, è quasi sempre fissa, sono pochissimi i movimenti di macchina, sono i personaggi a muoversi all'interno di quadri che sono punti fermi e inevitabili ritorni, allo spettatore vengono richieste attenzione e pazienza: pochissime parole, tempi lunghi che trovano l'apoteosi nella scena finale, una sequenza per lo più statica di una decina di minuti, fatta di sguardi, piccole variazioni di espressioni a comunicare lo sfacelo interiore che possiamo solo assorbire dall'osservazione. A differenza dell'altro film asiatico che metteva in scena esistenze disperate (An elephant sitting still) di cui abbiamo parlato qualche giorno fa, questo Stray Dogs risulta più freddo, parimenti incisivo ma meno incline a scavare nell'animo dello spettatore, risultato derivante proprio da un approccio decisamente ostico e che poco agevola la visione con il risultato che alla fine del film questi personaggi si sentono meno vicini pur comprendendone le condizioni di vita miserabili che non dovrebbero mai essere accettate per nessuno. Purtroppo, proprio come succede durante la visione, sembra ormai che non si faccia altro che stare fermi a guardare, a guardare e a guardare tutto ciò che viene triturato e scartato dal nostro sistema.
Lo ammetto... ho fatto una fatica assurda a finirlo, tanto che ho dovuto farlo a "rate".
RispondiEliminaPerò è innegabile che il massaggio resto. Solo che, avrei gradito pure un po' meno, anche...
Ti capisco, ho fatto fatica anche io, parecchia, molta di più che con An elephant sitting still, altro film disperato che dura quattro ore, ma quello mi è piaciuto molto e non ho faticato per nulla (però ho dovuto spezzarlo in due proprio per questioni di tempo, non trovavo le quattro ore consecutive).
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