lunedì 21 marzo 2011

E POI SIAMO ARRIVATI ALLA FINE

(Then we came to the end, di Joshua Ferris, 2006)

E poi siamo arrivati alla fine è il libro giusto al momento giusto. Almeno lo è stato per me. E’ un libro che parla di lavoro ma non solo, racconta un periodo di crisi economica, di congiunture negative, di esuberi e di tante altre cose (purtroppo) così attuali di questi tempi e così vicini anche al mio personale universo lavorativo (di nuovo purtroppo).

Deprimente direte voi. No, affatto. Divertente piuttosto, decisamente amaro in alcuni passaggi, triste in altri ma prevalentemente divertente.

Il libro si apre con una frase di Ralph Waldo Emerson, filosofo statunitense, che riassume bene alcuni contenuti del racconto stesso. Ed eccola qui:

Non è la disgrazia peggiore del mondo, non essere un elemento a sé – non vedersi riconosciuta la propria individualità – non produrre quel particolare frutto che ogni uomo è destinato a creare, ma essere considerato nell'insieme, nei cento o nei mille del gruppo, della categoria alla quale apparteniamo...

Chicago. In una zona elegante della città, vicino al lago, trova posto una grande agenzia pubblicitaria. Vi lavora un gruppo eterogeneo di persone, uomini e donne con le loro vite, le loro disgrazie, le loro passioni e il loro diverso approccio al lavoro ma soprattutto alla vita sul posto di lavoro. Sono principalmente colleghi, pochi di loro sono veramente amici ma condividono gli stessi spazi, gli stessi obiettivi e di recente la stessa mancanza di sicurezza. Passano insieme molte delle loro ore da svariati anni. Sono creativi di mestiere se non per indole, alcuni sono originali per carattere, alcuni più capaci altri meno.

Tutte queste persone, Lynn Mason, Tom Mota, Joe Pope, Carl Garbedian, Jim Jackers, Genevieve Latko-Devine, Karen Woo, Hank Neary, Benny Shassburger, Marcia Dwyer, Frank Brizzolera, Janine Gorjanc, Amber Ludwig e tutti gli altri, sono lo specchio di un comune gruppo di lavoro, non necessariamente di pubblicitari.

Le dinamiche di gruppo, i rapporti tra le persone, i piccoli gesti quotidiani sono facilmente rapportabili alla realtà di ognuno di noi (in molti casi ho ritrovato situazioni familiari anche alla cricca sgangherata con la quale lavoro). Le giornate interminabili, l’attesa per la pausa pranzo, gli incontri presso la postazione del collega che ha da raccontare l’ultima storia, l’ultimo pettegolezzo, l’improvvisa solidarietà di fronte alla difficoltà di chi prima d’ora aveva suscitato per lo più antipatia. Tutti elementi che per come sono narrati e rapportati alla nostra realtà, spesso strappano un sorriso.

Joshua Ferris ci narra le vicende dei protagonisti dal punto di vista di uno di loro, usa la prima persona plurale senza mai associare la voce narrante al nome di uno dei protagonisti. Chi è che ci racconta questa storia? Forse c’è un piccolo indizio nell'ultima pagina, forse no. Io non l’ho capito, ma anche questo elemento rende la narrazione ancor più intrigante.

Alcuni personaggi impareremo a conoscerli solo dopo il loro licenziamento, altri li seguiremo nelle loro giornate lavorative, assisteremo al lavoro di questi creativi creativi che creano creatività (analizzate la frase e desumetene il processo mentale che ne sta alla base) e all’affaire della sedia di Tom Mota, seguiremo le scommesse su chi sarà il prossimo vip a morire, affronteremo i timori di possibili rancorosi ritorni, vivremo la storia del Totem e quella del McDonald, tanta quotidianità e tanta carne al fuoco. Qualcuno verrà esuberato, qualcuno rimarrà.

Oltre alle riflessioni sulla attuale situazione economica e sul difficile momento che attraversano i lavoratori, un sapore amaro proviene anche da altri pensieri. Quanto conta in fondo ognuno di noi? Cosa ci definisce? Il lavoro? E ancora, se io venissi licenziato domani, quante delle circa trecento persone con cui lavoro si ricorderanno di me dopo un lasso di tempo di, diciamo, cinque anni? Molte? Poche? E’ importante?

Ho idea che questo post risulti un po’ sconnesso, non so se sono riuscito a trasmettere le giuste sensazioni. Leggetelo questo libro di Ferris, ne vale la pena. Dedico questo post ai miei ormai ex colleghi che sono stati esuberati dal recente cambio di proprietà e a Fulvia che mi ha regalato questo libro e che ora è in distacco presso un’altra azienda (speriamo temporaneamente).

PS: Il termine esuberato non penso esista nel dizionario italiano, la mia cricca però lo usa e quasi con orgoglio qui lo riporto.

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