domenica 28 settembre 2025

SOTTO LE FOGLIE

(Quand vient l’automne di François Ozon, 2024)

È un film di sottile intelligenza il Sotto le foglie di François Ozon. L’ultimo film del regista parigino gioca con il pubblico al quale chiede di porre attenzione a tutte le situazioni e a tutti i dialoghi per non essere ingannato e per colmare i vuoti lasciati ad arte dallo stesso regista nel corso della narrazione. Sotto le foglie può essere ascritto al genere del thriller, un thriller però mai troppo giocato sulla tensione, sul disvelamento dei fatti, sulla ricerca e sulla scoperta di un colpevole. Quello di Ozon è un film sulla legge e sulla verità: sulla legge dell’uomo in contrapposizione alla legge morale, alla legge dell’animo, sulla verità dei fatti e sulle verità che ci raccontiamo e che raccontiamo agli altri (alla polizia per esempio) per preservare e proteggere felicità, serenità, desideri. Sotto le foglie è anche un film di legami familiari con una rappresentazione degli affetti non convenzionale e lasciata, per alcuni snodi chiave, nel dubbio più totale, motivo più che sufficiente per considerare quest’opera di Ozon pienamente riuscita nella volontà di indagare situazioni e ambienti senza mai fornire risposte chiare, nemmeno quelle legate al dramma centrale di questo giallo totalmente atipico, un giallo “di provincia” dove anche le forze dell’ordine sembrano avere ritmi e sensibilità diverse da quelle che il genere solitamente impone.


Borgogna. L’anziana Michelle Giraud (Hélène Vincent) vive da sola nella sua grande casa di campagna. Michelle frequenta la chiesa del paese, cura il suo orto, fa lunghe passeggiate con la sua amica Marie-Claude (Josiane Balasko) con la quale va spesso a raccogliere funghi; ogni tanto la accompagna a trovare in carcere suo figlio Vincent (Pierre Lottin). La donna vive nell’attesa delle visite dell’amato nipote Lucas (Garlan Erlos), un adolescente molto legato alla nonna la quale ha invece un rapporto molto difficile con sua figlia Valérie (Ludivine Sagnier), la madre di Lucas. Valérie sembra essere una donna molto materiale che pretende dalla madre costante aiuto economico, nonostante Michelle le abbia già lasciato la casa di Parigi nella quale Valérie risiede con il figlio. Durante una visita di figlia e nipote nella casa di campagna, Valérie si sente male dopo aver mangiato dei funghi raccolti nei boschi proprio dalla madre. Essendo l’unica a essere finita in ospedale, la donna si convince di essere stata avvelenata di proposito dalla madre e la minaccia di non farle più vedere suo nipote Lucas. Nel frattempo Vincent esce dal carcere e viene da Michelle aiutato a rimettersi in piedi: un lavoro ben retribuito nell’orto, un piccolo prestito per iniziare una nuova attività; così Vincent si propone di dare una mano a Michelle per ricucire i rapporti con la figlia e soprattutto far sì che possa tornare a vedere suo nipote. Purtroppo sembra che Vincent abbia una dote innata nel combinare disastri.


Sotto le foglie si muove con una calma apparente, quasi dimessa, ma costantemente tesa tra la quiete della vita di campagna e le fratture, sottili o profonde, che attraversano i legami familiari. Ozon gioca con l’incerto, non chiarisce, volutamente lascia più dubbi che certezze, sia nello sviluppo dei fatti sia nelle reali intenzioni dei protagonisti come nel caso dell’incidente dei funghi. La trama gira intorno alla costruzione del concetto di famiglia, si aggrappa alle reti dei legami, gioca sull’ambiguità di alcuni protagonisti, in parte su quella di Michelle, molto su quella di Vincent, interpretato dall’ottimo e interessante Pierre Lottin, ma anche, soprattutto nel finale (attenzione), su quella del piccolo Lucas. A comandare c’è la morale di ognuno dei personaggi, non la legge, non il sangue, ma l’amore, l’affetto, l’amicizia, sentimenti forti tanto da piegare (forse) i fatti fino a far prevalere ad essi la forza dei sentimenti stessi. Quello di Ozon è un incedere lento, minuzioso, avvolgente, basato su una sceneggiatura cesellata in maniera da poter arricchire di un altro tassello di valore il bel catalogo del miglior cinema d’oltralpe.

domenica 21 settembre 2025

ELIO

(di Adrian Molina, Domee Shi, Madeline Sharafian, 2025)

Il problema – se di problema si vuol parlare – della Pixar più recente è legato alla fatica che si fa a trovare nelle opere della casa di produzione californiana quella spinta verso l’innovazione e quell’ambizione a superarsi che, fino a qualche anno fa, sembravano parte integrante del suo DNA creativo. È probabile che questi siano alcuni dei motivi che hanno contribuito a decretare l’insuccesso commerciale di Elio, l’ultimo film targato Pixar, un destino poco lieto che tutto sommato il film non meritava. È pur vero che, sia sul versante grafico, sia su quello narrativo, Elio non presenta spinte rivoluzionarie né grandi passi avanti (o anche solo laterali) nel discorso che Pixar e anche Disney portano avanti ormai da diverso tempo; ciò nonostante rimane una narrazione piena di spunti e tematiche interessanti, soprattutto per i giovani in via di formazione, espressa con la solita perizia ed eleganza alla quale la casa della lampada ci ha sì abituati, ma che a ogni modo continua a essere garanzia per prodotti quantomeno validi. In questo, Elio non fa eccezione: il film unisce buoni sentimenti a temi sentiti e universali (in questo caso è proprio il caso di dirlo), che non mancheranno di muovere nel pubblico empatia verso i piccoli protagonisti e momenti di commozione non rari in film di questo genere.

Elio Solis è un ragazzino che ha perso entrambi i genitori in un incidente, ora vive con la zia Olga, una ricercatrice che lavora a un progetto spaziale che ha lo scopo di monitorare i detriti vaganti presenti nello spazio. Elio soffre di solitudine, sente la mancanza dei genitori ed è convinto che la zia lo veda come un peso (cosa non vera) e un ostacolo alla sua carriera in campo aerospaziale. Il ragazzino è affascinato dallo spazio e dalla possibilità che lassù ci sia vita extraterrestre; con mezzi di fortuna cerca in tutti i modi di comunicare con altre civiltà nel tentativo di farsi rapire dagli alieni e vivere una vita diversa da quella sulla Terra, una vita da orfano con pochi amici e quasi nessun legame. Per una combinazione di eventi il suo messaggio viene davvero intercettato da alcune forme di vita aliena: il Comuniverso, un consesso di civiltà aliene che scambiano Elio per il leader della Terra e lo invitano a far parte della loro organizzazione pacifica intergalattica. Elio vede il suo sogno avverarsi, è affascinato dal Comuniverso e vorrebbe restare; c’è però un altro candidato a far parte del Comuniverso, il più aggressivo e riottoso Lord Grigon. I membri del Comuniverso, spaventati da Grigon, daranno la possibilità a Elio di trattare con l’alieno guerrafondaio; Elio però è solo un bambino e presto farà amicizia con il figlio di Grigon, il vermiforme e tenerissimo Glordon, un giovane pacifico che non ha nessuna intenzione di diventare una macchina da guerra come la sua cultura impone.

Dato per assodato come in casa Pixar comunque si facciano sempre le cose per bene, pur non presentando elementi di grande innovazione, Elio si dimostra un film capace di farsi portavoce di un disagio che molti custodiscono gelosamente nel proprio animo senza mai esternarlo (o facendolo con gran fatica), ovvero quel senso greve di solitudine che nasce dal sentirsi poco capiti o non apprezzati nel luogo che dovrebbe essere per tutti un rifugio: casa, famiglia, affetti. In Elio tutto muove da una perdita profonda, irreparabile; quello tra i due Solis rimasti è un rapporto d’amore incompreso, un rapporto difficile dove l’incomunicabilità porta a credenze erronee, tanto da scatenare un fuga e attenzioni rivolte all’esterno dove spesso è facile trovare nuovi stimoli e maggior comprensione. Pur non toccando vette viste in passato in casa Pixar, Elio sa toccare le corde giuste muovendosi all’interno di una narrazione sempre piacevole e comprensibile anche dai più piccoli. Si prosegue su quella rotta “intimista” che non mette più al centro della storia la contrapposizione buono/cattivo (in fondo qui nemmeno Lord Grigon è malvagio, anzi) quanto piuttosto le relazioni, decisamente più complicate da dirimere, tra amici, familiari, consanguinei, etc… Altro punto a favore del film è la scelta di non riproporre personaggi già visti, come accaduto con molti sequel recenti, andando così ad ampliare, con la fantascienza per giunta, un immaginario che si spera possa anche in futuro proporre cose nuove, magari con la speranza che qualcuna di queste si riveli anche (ancora una volta) innovativa.

martedì 16 settembre 2025

MEGALOPOLIS

(di Francis Ford Coppola, 2024)

Francis Ford Coppola torna al cinema dopo ben tredici anni di silenzio; la sua ultima opera, Twixt, risale al lontano 2011. Con Megalopolis Coppola sembra aver finalmente realizzato uno di quei sogni-progetto che accompagnano gli artisti visionari per una vita intera; sembra infatti che le prime idee embrionali, poi confluite in Megalopolis, siano germinate addirittura sul set di Apocalypse Now, uno dei capolavori del regista nato a Detroit, film uscito nel 1979. Questo significa tornare indietro nel tempo di più di quarantacinque anni — una vita, appunto — a un’epoca in cui Coppola, insieme ad altri, già contribuiva a trasformare i linguaggi e le forme del cinema di allora. Megalopolis sembra quindi essere molto più di un film: è la materializzazione di un’ossessione creativa, di un’idea rimasta sospesa nel tempo, alimentata dalla visione di un artista che ha sempre inseguito il proprio cinema, indipendentemente dalle convenzioni dell’industria. E come spesso accade per questi progetti bigger than life, il risultato non può che essere divisivo oltre che, a volte, portare a una perdita catastrofica di denaro. Costato circa centoventi milioni di dollari, parte dei quali recuperati dallo stesso regista costretto a vendere alcune sue proprietà pur di finanziare il film, Megalopolis ha fatto registrare un incasso totale che non supera i quindici milioni, generando così un flop macroscopico che presumibilmente neanche i passaggi successivi su piattaforma riusciranno a colmare. Pur se maltrattato, anche aspramente, da più di un critico, Megalopolis ha quantomeno il pregio di arrivare nelle sale contemporanee come un oggetto non identificato che si porta dietro la capacità di spiazzare lo spettatore chiamato a confrontarsi con un’opera non banale, una di quelle che non capita di vedere al cinema proprio tutti i giorni (e nemmeno tutti i mesi). Magari non sarà un “cinema del futuro”, se vogliamo può essere visto come un cinema che fu “del futuro” nel momento in cui venne concepito, ora sorpassato da quella maledetta velocità delle cose alla quale noi tutti siamo tenuti quotidianamente a star dietro. Megalopolis è qualcosa di “fuori norma”, di “fuori scala”, e questo già gli consente di ritagliarsi almeno un minimo della nostra attenzione di appassionati della settima arte. Poi, effettivamente, il film di Coppola può anche non piacere, ma questo è un altro discorso.


New Rome è una sorta di New York del futuro, una città decadente che presenta diverse caratteristiche mutuate dall’antica Roma, non ultimi alcuni dei protagonisti della nostra storia che richiamano quelli della Roma imperiale. Tra questi c’è Cesar Catilina (Adam Driver), una sorta di architetto visionario con il potere di fermare il tempo. Catilina ha in mente per New Rome (o almeno per uno dei suoi quartieri più malfamati) una sorta di rinascita utopistica, un’idea di “città del futuro” rafforzata dalla sua scoperta di un materiale duttile e resistente: il megalon. A spalleggiare la visione di Catilina c’è suo zio Hamilton Crasso (John Voight), proprietario della più importante banca di New Rome. I due sono in aperto contrasto con l’attuale sindaco della città, Francis Cicero (Giancarlo Esposito), un tradizionalista intenzionato a rilanciare la città con la miope visione del guadagno facile (un casinò nella fattispecie) e con i soliti cemento e acciaio. Nel contrasto tra un sogno di benessere condiviso e quello di un egoismo opportunistico, si inseriscono più di una variabile: la bellissima Julia (Nathalie Emmanuel), figlia di Cicero che sposa però la causa di Catilina, l’invidioso cugino di quest’ultimo, Clodio (Shia LaBeouf), un avido idiota, e l’arrivista, giornalista e soubrette Wow Platinum (Audrey Plaza), prima legata a Catilina, poi a Crasso. Il conflitto tra queste fazioni porterà a una serie di alleanze, tradimenti e rivelazioni, mentre sullo sfondo New Rome si prepara a un possibile punto di svolta destinato a cambiarne per sempre il volto.


Non sono d’accordo con il pensiero ricorrente che vuole Megalopolis come un film che invita agli estremi, come uno di quei film da amare o da odiare senza vie di mezzo. È piuttosto necessario capire, più che dove il film voglia andare a parare, a che tipo di opera il regista volesse in realtà dar vita. L’impressione che rimane a visione ultimata non è tanto quella di un autore intento a veicolare messaggi o letture, queste a volte davvero troppo scoperte (la giustizia che crolla, le tavole delle leggi distrutte, etc...), quanto quella di un uomo che si balocca con il suo sogno, magari barocco, fuori fuoco e scentrato, e che si industria, anche rimettendoci del suo, per portarlo alla luce, costi quel che costi, piaccia o non piaccia (e spesso non piace). In quest’ottica Megalopolis merita tutto il nostro rispetto, sulla sua riuscita possiamo discutere, a parere di chi scrive ci si trova di fronte a un’opera non “bella” quanto “affascinante” per tutti i motivi detti sopra. Il risultato è visivamente straniante con i suoi toni ocra e il contrasto tra una città futuribile (ma in realtà già vista) e il degrado di quella che sembra a tutti gli effetti la New York attuale. Il film è infarcito di citazioni letterarie e cinematografiche, di metafore da fine impero (l’America oggi come la vecchia Roma?), di discorsi su corruzione, disparità sociale, populismo, di simbolismo, di figure archetipiche; su tutto ciò si può discutere, ampliare il discorso, ragionare. Ma è davvero importante? È questo il senso di Megalopolis? Oppure, ancora una volta, il nodo è il rincorrere un sogno, il mettersi in gioco per tentare (magari fallendo) di spostare l’asticella, di trovare una via nuova. Coppola vuole offrire un grande spettacolo, a ognuno di noi decidere se ci è riuscito. Megalopolis non sarà il film dell’anno, almeno non credo, ma, forse, un domani sarà qualcosa. Solo il tempo, ammesso che nessuno lo fermi, saprà dirci di preciso che cosa.

sabato 6 settembre 2025

COPPERMAN

(di Eros Puglielli, 2019)

È sotto gli occhi di tutti l’invasione che i supereroi, diciamo dai primi anni Duemila circa, hanno progressivamente portato avanti, film dopo film, all’interno della programmazione delle sale di tutto il mondo. Prodotti Marvel, DC Comics, personaggi provenienti da case editrici indipendenti o “minori”, hanno quasi monopolizzato l’immaginario del blockbuster statunitense dividendosi i grossi introiti con l’animazione e poche altre cose. Nel nostro piccolo, senza l’ambizione di competere con i prodotti analoghi d’oltreoceano e a volte ottenendo risultati più che dignitosi, anche in Italia abbiamo sfornato i nostri super: i due episodi de Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, Freaks out e Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e in maniera più trasversale anche questo Copperman di Eros Puglielli, che in fondo un film di supereroi proprio non è. Il regista romano non pare infatti troppo interessato a questo aspetto, (e per fortuna viene anche da dire) focalizzando i suoi sforzi e la sua attenzione sulle figure di due bambini cresciuti in situazioni difficili in famiglie segnate da assenze e figure di riferimento sbagliate se non addirittura tossiche (non tutte per fortuna). Con i suoi protagonisti ben in mente Puglielli, senza eccedere, mette la sua regia dinamica a servizio di una storia tenera e delicata dove l’ingenuità di due anime candide e sfortunate si scontra con il mondo, spesso sbagliato, degli adulti.


Anselmo (Sebastian Dimulescu) è un bambino autistico che odia il giallo e trova conforto nelle figure circolari; vive con la madre Gianna (Galatea Renzi): il padre li ha abbandonati alla nascita del figlio ma Gianna ha sempre raccontato ad Anselmo che il papà è un supereroe, partito per ripulire il mondo. Così il ragazzo cresce sfogliando albi a fumetti cercando di capire quale tra quei personaggi possa essere suo padre, legando a filo doppio la figura del padre al concetto dell’eroe. Un giorno Anselmo incontra la piccola Titti (Angelica Bellocci), figlia dell’usuraio che tiranneggia tra gli altri anche Gianna, e se ne innamora di un amore innocente ed eterno. Quando Titti sarà costretta a lasciare il paese, Anselmo continuerà a coltivare dentro di sé quel primo amore romantico. Anni dopo Anselmo (Luca Argentero) è un uomo adulto, convive ancora le sue difficoltà, ha però un lavoro in una casa di cura per malati mentali, pochi amici e la sua fissazione per i supereroi. Con l’aiuto dell’amico Silvano (Tommaso Ragno), un fabbro rude ma affettuoso, Anselmo assume l’identità segreta di Copperman, l’uomo di rame, e inizia a raddrizzare torti nel suo paese. Quando una Titti ormai adulta (Antonia Truppo) torna improvvisamente a casa con tanto di padre degenere al seguito, in Anselmo si riaccende un sentimento mai sopito e, forse, anche la possibilità di diventare davvero un eroe.


Puglielli mantiene nel tono del racconto l’innocenza di un uomo che è rimasto fermo alla sua infanzia e che continua a vedere il mondo con gli occhi di un bambino. Questa visione, unita ai temi dell’autismo e della difficoltà dei bambini protagonisti nel crescere in famiglie disfunzionali o semplicemente colpite da un’assenza importante, scatena nello spettatore una naturale empatia e una tenerezza nei confronti dei protagonisti che fanno accettare di buon grado anche alcune ingenuità di costruzione. Si intuisce come la regia vivace di Puglielli sia finanche frenata da un contesto dove all’azione (fiabesca, mai troppo credibile) è doveroso anteporre l’attenzione al personaggio, alle relazioni, ai temi. Non ci sono elementi tali da rendere questo Copperman un film da ricordare: l’incedere è abbastanza programmatico, le interpretazioni di Argentero e della Truppo, a tratti un poco ingessate, potrebbero anche cogliere nel segno, il “fiabesco” è forse un po’ troppo spinto. Ciò nonostante la visione rimane sempre gradevole, ne esce un film piccolo ma capace di restituire con dignità uno sguardo sull’eroismo quotidiano di chi si trova a convivere con fragilità che non gli rendono facile la vita, una condizione della quale i più fortunati dovrebbero sempre tenere conto con rispetto e solidarietà.

martedì 2 settembre 2025

CROSSING THE BRIDGE – THE SOUND OF ISTANBUL

(di Fatih Akin, 2005)

Ci sono città che vivono su un confine, altre che sono il confine. Istanbul è una di queste: crocevia di culture, di storie, di lingue e religioni, ma anche di suoni, rumori, melodie che raccontano meglio di qualsiasi guida turistica l’anima complessa della metropoli sul Bosforo. In questo Crossing the bridge – The sound of Istanbul l’ecletticità sonora della città turca diventa la chiave per narrare una città attraverso alcuni elementi che rappresentano le due anime del regista Fatih Akin. Di origini turche ma cresciuto ad Amburgo in una situazione ambientale non troppo semplice, Akin riesce a evitare un destino segnato da delinquenza e marginalità proprio grazie al cinema, costruendo un percorso artistico che lo ha portato alla consacrazione internazionale giunta con l’Orso d’oro al Festival di Berlino ottenuto per il film La sposa turca. A incarnare l’anima tedesca di Akin troviamo il musicista Alexander Hacke, storico bassista degli Einstürzende Neubauten, band sperimentale in attività dai primissimi anni Ottanta. Hacke aveva già collaborato con Akin proprio per la composizione delle musiche de La sposa turca; l’incontro del musicista tedesco con i suoni e la musicalità di Istanbul (l’anima turca di Akin) è l’occasione per esplorare aspetti e contraddizioni di una città attraverso la sua produzione musicale, perché secondo l’adagio attribuito al pensatore Confucio “per capire un luogo è necessario ascoltare la sua musica”. Quest'ultimo pensiero mi riporta alla mente il video che divenne virale qualche tempo fa di Andrea Scanzi che commentava lo stato dell’arte della nostra produzione musicale (quella più ascoltata) e lo accostava alle derive recenti, anche politiche, della nostra povera Italia. Perché la musica è parte vitale di un Paese, e se questo è guidato e vissuto male, rischia di pensare male, allora, inevitabilmente, suonerà anche male.

The sound of Istanbul ci mostra gli incontri musicali di Alexander Hacke nella città turca, la permanenza in loco del musicista tedesco alla scoperta delle varie declinazioni della musicalità che rende viva e unica Istanbul, vero crocevia di culture e, come dichiarano alcuni dei protagonisti intervistati, non tanto confine tra più mondi e continenti quanto ponte d’unione, legame e passaggio tra più culture, quella orientale e quella occidentale ma anche quella moderna e quella tradizionale. Si parte dalla neo psichedelia dei Baba Zula i quali, avendo da poco perso il loro bassista, collaboreranno in maniera attiva con Hacke tirato dentro la loro formazione, almeno per un po’. Il musicista tedesco, seguito ovviamente a vista da Akin, incontrerà diversi ragazzi e ragazze giovani intenti a ibridare il rap e l’hip hop statunitensi con una loro visione più impegnata della musica, più legata alla loro terra e vicina al sentire del popolo turco, un popolo fatto di minoranze, unioni, divisioni. E ancora la breakdance vista come viatico per allontanare i giovani dalle derive più pericolose della strada, la tradizione triste della musica popolare curda, etnia spesso repressa e bistrattata, l’incontro con le grandi star di un passato recente (Erkin Koray, Sezen Aksu), i musicisti di strada che di strada vivono e rifuggono le lusinghe dell’industria musicale, gli incontri alticci e vitali delle etnie rom, tutto ovviamente a suon di musica, tra strumenti tradizionali e derive più moderne e occidentali.

Crossing the bridge – The sound of Istanbul mischia i suoni della variopinta scena musicale turca ai rumori di una megalopoli che a oggi conta circa quindici milioni di abitanti. Il caos delle strade, la bellezza di alcuni scorci, il famoso ponte sul Bosforo, i locali frequentatissimi di quartieri una volta malfamati, le varie tradizioni e le diverse etnie, sono tutti elementi che contribuiscono a tratteggiare una Istanbul vista con le orecchie più che con gli occhi, approccio sicuramente originale da parte di Fatih Akin che confeziona una testimonianza, un viatico di conoscenza più che un classico documentario. Ci si immerge in questa realtà a noi poco nota (se non si è stati a Istanbul) con curiosità e libero trasporto, condizione necessaria per meglio apprezzare un’opera girata con passione ma anche sfilacciata e ondivaga, della quale un po’ si fatica a trovare un centro, un nodo focale che possa donare un senso di compiutezza o anche solo di finalità, scelta che tutto sommato potrebbe anche essere considerata coerente con la materia trattata. È un film questo per inguaribili curiosi, anche per chi ama viaggiare da fermo, acquisire esperienza così come viene, senza preconcetti né mete prefissate. Si parte, si va, dalle parti di Istanbul, poi chissà…

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