giovedì 30 ottobre 2025

NASCITA DI UNA NAZIONE

(Birth of a Nation di David Wark Griffith, 1915)

Ciò che fece David Wark Griffith nel 1915 con il suo Nascita di una nazione oggi ci appare quasi scontato, forti di un’esperienza cinematografica costruita su centinaia e centinaia di visioni che possono spaziare dal cinema classico a quello moderno (per qualcuno addirittura dal cinema delle origini), dai film hollywoodiani a quelli d’autore, dagli esiti più canonici a quelli sperimentali. Abbiamo avuto, insomma, la fortuna d’aver visto di tutto. Nel 1915 non era così: il pubblico appassionato di immagini in movimento aveva già avuto modo di vedere molti film, ma qualcosa come Nascita di una nazione non l’aveva mai visto. Il film di Griffith viene infatti considerato dagli storici come il primo vero film narrativo della storia a consolidare i principi del cinema narrativo classico. Il cinema dell’Ottocento e quello dei primi del Novecento erano fatti di opere per lo più brevi, spesso formate da una sola inquadratura o da più inquadrature fisse; era un cinema di stampo documentaristico o un cinema “delle attrazioni”, cioè un cinema nel quale era fortemente connotata una funzione attrattiva immediata per il pubblico (una serie di gag, un atto atletico, un numero “da circo”) e nel quale ancora non era presente una concatenazione coerente di eventi, né tantomeno una vera e propria costruzione narrativa di una storia. Certo, qualche esempio c’era già stato, pensiamo a cose come La grande rapina al treno di Edwin S. Porter del 1903, o a Il viaggio nella Luna di Méliès del 1902, già ottimi e importanti esiti per un’arte che andava costruendosi film dopo film, ma nulla di paragonabile all’ambizioso progetto di Griffith, girato su 12 rulli per una durata che supera le tre ore (durata che, peraltro, regge molto bene ancora oggi) e con un budget di oltre 100.000 dollari che non furono certo rimpianti: il film portò infatti a casa un incasso record di ben 15 milioni di dollari. Il rovescio della medaglia del grande successo ottenuto dal film furono le reiterate accuse di razzismo mosse a Nascita di una nazione e a Griffith, accuse che, tutto sommato, non possono dirsi infondate. Il film fu proibito in diversi Stati dell’Unione, in alcuni anche per molti anni; in effetti l’ultima parte del film propone un’ideologia profondamente razzista che contiene quella che potrebbe quasi sembrare un’apologia del Ku Klux Klan e una visione della popolazione nera che la rappresenta come una razza selvaggia, violenta, opportunista e depravata. Griffith, figlio di un colonnello dell’esercito confederato sudista, rifiutò le accuse di razzismo, affermando che la sua era una condanna verso quei soli schiavi liberati che, a suo dire, ostacolarono la nascita della Nazione con comportamenti violenti in nome di uno spirito di vendetta verso i bianchi ex padroni.

Phil (Elmer Clifton) e Tod Stoneman (Robert Harron), figli di Austin Stoneman (Ralph Lewis), un influente politico del Nord, si recano nella magione dei Cameron, amici di vecchia data della Carolina del Sud. Qui Phil si innamora della giovane Margaret (Miriam Cooper) mentre Ben (Henry B. Walthall), fratello maggiore della ragazza, si invaghisce della sorella dei due Stoneman, Elsie (Lillian Gish), pur avendola vista solo in fotografia. Tod, invece, stringe amicizia con il coetaneo Duke Cameron (Maxfield Stanley). Lo scoppio della Guerra di Secessione interrompe gli idilli e divide le due famiglie: i Cameron combattono per l’esercito confederato, mentre gli Stoneman sostengono la causa unionista. Tod e Duke muoiono al fronte, mentre Ben Cameron, gravemente ferito, viene fatto prigioniero. Con la fine della guerra e l’assassinio di Abraham Lincoln, gli Stati del Sud vengono sottoposti a un duro periodo di ricostruzione. Austin Stoneman, fervente abolizionista, sostiene le politiche che garantiscono nuovi diritti ai neri liberati, promuovendo anche la candidatura nel Sud del mulatto Silas Lynch (George Siegmann). I neri si dimostrano ben presto rozzi e violenti, incapaci di condurre un progetto politico con serietà e decenza. Turbato dal caos e dalla violenza dilaganti, Ben Cameron decide di fondare un’organizzazione che riporti “ordine” nelle terre del Sud: nasce così il Ku Klux Klan mostrato come una forza di “restaurazione morale”. Il Klan salva Elsie, rapita da Silas Lynch che vuole costringerla a sposarlo, e libera la città da quella che viene dipinta come una vera e propria “piaga nera”.

Al di là dell’innegabile afflato razzista che imperversa per almeno l’ultimo terzo del film, è chiaro come l’opera di Griffith sia un lavoro di grande maestria e una vera pietra angolare nella storia della Settima Arte. Dietro Nascita di una Nazione c’è un lavoro di découpage in grado di offrire agli spettatori dell’epoca un montaggio che tiene vivo il ritmo della narrazione senza incorrere in cadute di tono o passaggi “fiacchi”; Griffith lavora con il montaggio alternato, mostrando più eventi che si svolgono nello stesso momento, tecnica oggi abituale ma allora novità rivoluzionaria, gioca con i piani, con vari tipi di raccordo (sull’asse, di sguardo, di movimento), tutte cifre di stile, tecniche del mestiere di regista che segneranno in maniera indelebile tutto il cinema a venire. Spettacolari i campi lunghissimi per le battaglie, la colorazione di alcuni fotogrammi e la capacità di coordinare scene di massa come quelle legate alla guerra tra Nord e Sud o quelle con protagonista l’avanzata del Klan a cavallo. Risultano oggi un poco posticci gli attori bianchi pittati di nero per interpretare gli uomini di colore (quelli veri sono pochissimi) ma per il resto qui si scrive la grammatica dell’arte. Trascurando l’ideologia, al tempo peraltro diffusa e normalizzata negli Stati del Sud (e non solo), non si può che annoverare Nascita di una Nazione tra le pietre miliari di un percorso cinematografico che nel 1915 stava solo iniziando a regalare agli appassionati tutte le soddisfazioni che arriveranno con i decenni successivi.

domenica 19 ottobre 2025

ARAGOSTE A MANHATTAN

(La cocina di Alonso Ruizpalacios, 2024)

Il 16 ottobre scorso, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, in più di trenta sale ACEC sparse per l’Italia, è stato proiettato il film Aragoste a Manhattan (titolo originale La cocina, più diretto) del regista messicano Alonso Ruizpalacios, presente in videoconferenza al termine della proiezione per rispondere ad alcune domande di esercenti e spettatori. Diciamo che in realtà, come ha confermato lo stesso regista al termine della visione, nonostante il film sia ambientato quasi interamente nella cucina di un ristorante di New York, il The Grill, Aragoste a Manhattan ha poco a che vedere con il cibo e con l’alimentazione. Ruizpalacios ha infatti spiegato di aver volutamente evitato ogni deriva legata al cosiddetto “food porn”, un’estetica sempre più diffusa su social media, web e televisione negli ultimi anni. La preparazione del cibo, dei piatti, resta per lo più fuori campo: per i protagonisti del film, quasi tutti immigrati irregolari, il cibo e l’atto del cucinare sono una questione di mera sopravvivenza. Come sottolinea il regista c’è una sola scena in cui si assiste effettivamente alla preparazione di un piatto, ed è l’unico momento del film in cui il cibo viene preparato con e per amore, segnando un’eccezione carica di significato all’interno del racconto. Anche la scelta del bianco e nero sembra confermare le parole del regista, il cibo a cui ci ha abituati la televisione è infatti soprattutto colore, presentazione, estetica, una qualità, quest’ultima, che a Ruizpalacios certamente non manca, ma che nel film sembra andare in tutt’altra direzione.

La giovane Estela (Anna Diaz) arriva a New York dal Messico in cerca di lavoro; la madre l’ha indirizzata al The Grill, un ristorante multietnico in piena Manhattan dove lavora Pedro (Raul Briones Carmona), un amico di famiglia di qualche anno più vecchio di Estela. Dopo aver superato un colloquio in parte rocambolesco (Estela non parla inglese), la ragazza viene introdotta nella caotica cucina del ristorante dove ritroverà Pedro e farà la conoscenza di cuochi, cameriere e impiegati di quello che è uno spaccato del melting-pot culturale newyorkese, ben lontano dall’appartenere a quella parte di popolazione americana che ce l’ha fatta, che è riuscita a trovare il suo posto all’interno dell’illusorio e ingannevole Sogno Americano. In concomitanza all’arrivo di Estela il contabile Mark (James Waterson) riscontra un ammanco di cassa di più di 800 dollari; il proprietario del locale Rashid (Oded Fehr) ordina al suo aiutante Luis (Eduardo Olmos) di condurre un’indagine interna e recuperare i soldi. Nel frattempo tensioni e preoccupazioni esasperano lo staff della cucina, in particolare Pedro che ha difficoltà a gestire il suo rapporto con la cameriera Julia (Rooney Mara) dalla quale aspetta un figlio.

Come dichiarato da Ruizpalacios, Aragoste a Manhattan è un film politico sul fallimento del sistema capitalista che si regge sulla disuguaglianza non solo razziale (in cucina sono quasi tutti immigrati illegali), ma anche e soprattutto di classe (il proprietario non è statunitense, è solo il padrone, uno ricco che pensa di avere più diritti degli altri). Il Sogno Americano è appunto solo un sogno, come quelli che Pedro cerca nei volti e nelle parole dei suoi colleghi in un momento di pausa dal lavoro e che si riducono a poche cose, semplici, o come nel caso di Nonz (Motell Foster) a qualcosa di totalmente incomprensibile. Il sistema si regge sullo sfruttamento dei più deboli, degli indifesi, di quella manodopera illegale tenuta sotto scacco dalla speranza di ottenere finalmente i documenti, la cittadinanza, per iniziare una vita da regolare, magari proprio in quella città che sembra così soverchiante alla giovane Estela al suo arrivo a New York. L’arrivo in città è il caos, come quello che troverà in cucina, una sorta di torre di Babele di culture sulle quali Ruizpalacios punta molto, come nella splendida sequenza dove i cuochi e le cameriere, per gioco, si esibiscono in una gara di insulti ognuno nella propria lingua: una bolgia totale. La critica al “sistema” è ovunque: nei ritmi di lavoro, nell’ingresso “opportunista” di Estela (che ruba il lavoro a un’altra ragazza), nella continua guerra tra poveri all’interno della cucina, nella mancanza reale di possibilità, nell’attaccamento possessivo ai propri spazi. Non c’è più spazio per l’amore per il proprio lavoro, né per i clienti, né per la cucina, né per il cibo. Per accrescere la sensazione di “chiusura” dei personaggi all’interno della cucina il regista messicano adopera un formato 4:3 che avvicina molto i protagonisti tra loro, usa spesso il pianosequenza per dare l’idea da “girone infernale”, una tecnica che esplode nella bellissima sequenza della cucina allagata e del crollo emotivo di Pedro, protagonista sugli scudi all’interno di un cast eterogeneo selezionato con diversi casting tra Messico, New York e Londra, vero punto di forza del film (ci sono statunitensi, messicani, colombiani, franco-algerini, albanesi, israeliani, etc…). Ci sono anche le aragoste ma in fondo, forse, non sono poi così importanti.

domenica 12 ottobre 2025

LA DONNA DEL FIUME – SUZHOU RIVER

(Sūzhōu Hé di Lou Ye, 2000)

- Se un giorno io ti lasciassi, mi cercheresti come ha fatto Mardar?
- Sì
- Mi cercheresti per sempre?
- Sì
- Per tutta la vita?
- Sì
- Stai mentendo. Cose come quella… capitano solo nelle favole.
- Non mi credi?
- No, non ti credo.


Il regista Lou Ye, nato a Shanghai nel 1965, è uno di quegli autori cinesi appartenenti alla cosiddetta sesta generazione. Si tratta di giovani registi (giovani al momento del loro esordio) che iniziarono a muovere i primi passi nel momento in cui la Repubblica Popolare Cinese stava uscendo dalle sanguinose proteste di Piazza Tienanmen del 1989. Fu in un clima di forte controllo e censura da parte dello Stato che questi giovani autori si trovarono costretti ad aggirare i divieti di Stato rivolgendosi a produzioni indipendenti e a finanziamenti provenienti dall’estero, spesso grazie alla partecipazione a festival internazionali. Per questo motivo La donna del fiume – Suzhou river, presentato senza il benestare delle autorità al Festival di Rotterdam, costò a Lou Ye due anni di interdizione dal lavoro, mentre in patria il film venne censurato e mai distribuito ufficialmente. I film della “sesta generazione” si concentrano su una dimensione urbana e raccontano la realtà di una Cina in trasformazione, un Paese alle prese con un enorme cambiamento, non ancora compiuto, a causa del quale le nuove generazioni provano un forte senso di spaesamento e marginalità, sentimenti caratteristici di quei paesi che si stanno aprendo a una forte spinta capitalistica.


Shanghai. In una zona periferica sul fiume Suzhou, un fotografo riempie muri fatiscenti con biglietti da visita fissati con vernice spray. Convocato dal proprietario dell’Happy Tavern (Yao Anlian) per un servizio fotografico, l’uomo incontra la giovane Meimei (Zhou Xun), una ragazza che offre uno spettacolo vestita da sirena. Il fotografo si innamora di questa ragazza sfuggente, i due iniziano una relazione in cui l’uomo è all’oscuro del passato della giovane, un amore incerto, senza programmi, tanto che l’uomo, ogni volta che Meimei si allontana da lui, teme di non vederla più far ritorno. Un giorno Meimei racconta al fotografo la storia di Mardar (Jia Hongsheng), un corriere povero in canna che, di tanto in tanto, accetta l’incarico di accompagnare dalla zia la giovanissima Moudan (Zhou Xun), figlia di un uomo d’affari che vuole togliersi la bambina dai piedi per avere campo libero con le sue donne. Nonostante la differenza d’età, Mardar e Moudan si innamorano. In seguito a una spiacevole vicenda nella quale Mardar ha una grossa parte di colpe, Moudan si getta nel fiume Suzhou, il suo corpo non verrà mai più trovato. Tempo dopo Mardar incontra proprio Meimei, fisicamente identica a Moudan, e l’uomo si convince di aver finalmente ritrovato il suo vecchio amore dopo aver passato anni a cercarla.


Lou Ye costruisce La donna del fiume affidando molte sequenze alla voce over del fotografo, un uomo che non vediamo mai in volto, alla sua soggettiva, mostrando ciò che lui vede grazie a inquadrature realizzate con camera a mano, e lavora sulla storia d’amore ambigua tra lui e Meimei, che potrebbe essere la stessa donna amata da Mardar, che lui conosce come Moudan, o potrebbe essere un’altra, un nodo che si scioglierà solo nel finale di un film che, come detto da più parti, in questa ambiguità omaggia Hitchcock e il suo La donna che visse due volte. Suzhou river si apre proprio sul fiume, con un piglio documentaristico tipico degli autori della sesta generazione; un montaggio veloce, sincopato, ci mostra il fiume, la sporcizia che lo lambisce ma anche la vita che, grazie a esso, i lavoratori di Shanghai possono portare avanti. È un luogo liminale, attorno al quale si sviluppano le storie dei protagonisti, una/due storia/e d’amore cui dà vita la splendida Zhou Xun, impegnata nei due ruoli femminili della pellicola. La donna del fiume esce lo stesso anno di In the Mood for Love, il film di Lou Ye condivide con l’opera di Wong Kar-wai una forte componente elegiaca e una riflessione malinconica sull’amore, ma declina entrambi questi aspetti in una chiave più disillusa, priva del lirismo raffinato del regista hongkonghese. Laddove Wong Kar-wai lavora sulla sospensione del desiderio, Lou Ye porta in scena corpi che si rincorrono, si cercano, si perdono, personaggi alla deriva in un contesto che, come per altri autori della sesta generazione, è quello di una Cina in rapido cambiamento, in cui i giovani sembrano incapaci di trovare un posto stabile, e dove l’amore appare come un’illusione o un rifugio temporaneo. Rispetto ai suoi colleghi, Lou Ye adotta però uno sguardo più intimista, meno interessato alla denuncia sociale in senso stretto e più attratto dai turbamenti interiori, dalle ossessioni individuali, dalla confusione dei sentimenti. La città si intravede appena, i protagonisti sono confinati in una periferia esistenziale prima ancora che geografica. Lou Ye cesella anche un ottimo lavoro sull’identità, resta ambiguo su quella di Meimei/Moudan, quasi a simboleggiare una crisi identitaria di un intero Paese e della sua popolazione, spaesata a causa del cambiamento incombente. Non ha forse la potenza dei film di Jia Zhang-Ke questo La donna del fiume, ma allo stesso tempo, in modi diversi, sottolinea un momento di difficile transizione di quella che, da lì a poco, diverrà una delle potenze economiche dell’intero pianeta.

sabato 4 ottobre 2025

FUORI

(di Mario Martone, 2025)

Con Fuori il regista napoletano Mario Martone compie un’operazione libera dagli stretti vincoli di una struttura costruita e chiusa; dà vita così a un film ondivago, non lineare, anche disordinato se si vuole, ma sempre molto vivo e sentito. Fuori è uno squarcio sull’esistenza della scrittrice siciliana Goliarda Sapienza, lontano dalla completezza, dall’operazione agiografica, dal biografismo compìto e calligrafico, non ci dice tutto ma inquadra una protagonista nell’atto del “sentire”: del sentirsi libera, connessa a una vita e a delle donne molto diverse da lei e da quel che è stata in passato (almeno fino all’episodio che cambierà la sua vita e, appunto, il suo “sentire”), del sentirsi sempre più lontana da una società altoborghese asfissiante e poco “vera”. Del sentirsi scrittrice incompresa. Non c’è cronologia né cronaca: Martone mette al centro il percorso interiore di una donna, in realtà quello di più donne, un percorso fatto di libertà, amore, attaccamento all’altro e autoaffermazione (che purtroppo arriverà per Goliarda Sapienza un po’ troppo tardi, almeno qui in Italia). Martone lavora molto bene con le sue donne (e con le tre attrici che le interpretano), le cesella con puntualità, come non fa mai troppo con gli eventi, che invece fluiscono. Ed è proprio nel fluire che questo lavoro trova forza: nella vitalità sghemba e intermittente della sua protagonista, che si accende solo a contatto con altre donne — nel carcere, nella lotta, nel corpo a corpo emotivo e sensuale — e si spegne, si opacizza, si svuota nei salotti borghesi, nei colloqui con le persone “per bene”.


Goliarda Sapienza (Valeria Golino) è una scrittrice: qualche libro già pubblicato, collaborazioni con giornali e un romanzo in divenire che accoglie tutta la sua passione per la scrittura e per la vita, ma che nessuno sembra essere intenzionato a pubblicare. Sposata con Angelo (Corrado Fortuna), traduttore e attore, Goliarda frequenta i salotti borghesi della Roma bene. A seguito di un furto compiuto più per ripicca che non per bisogno di denaro o di trasgressione, la scrittrice passa un periodo nel carcere femminile di Rebibbia, dove incontra, tra le altre detenute, la giovane Roberta (Matilda De Angelis), tossicodipendente e implicata con il brigatismo di fine Settanta, inizio Ottanta, e Barbara (Elodie), una borgatara che tenterà poi la scalata verso la redenzione. Con l’esperienza del carcere e il legame con queste donne, la vita di Goliarda cambia per sempre; la donna sente la vacuità della sua vita borghese in contrapposizione alla vitalità di amicizie sincere anche se problematiche, soprattutto quella con Roberta, spesso conflittuale ma tenuta accesa da un amore vero che forse supera anche i confini dell’amicizia. In una Roma periferica e quasi astratta, Goliarda Sapienza in qualche modo muta, matura e scrive…


Forse ci vuole più di un attimo per “entrare dentro” (parole adatte a questo film) al Fuori di Mario Martone, sicuramente uno tra i registi più interessanti che il nostro Paese oggi possa annoverare. Con il passare dei minuti e dei frammenti si entra però in empatia con la protagonista e con il suo nuovo rapporto con la vita e con gli altri, con le altre in realtà, un parterre di donne tra le quali spiccano quelle interpretate dalla De Angelis e da Elodie, entrambe, insieme alla Golino, protagoniste di prove intense e molto “adatte” a raccontare i legami e quella sorta di sorellanza nata tra le quattro mura di una cella di prigione. Così il film di Martone gioca molto sulla dicotomia fuori/dentro e con il ribaltamento delle due situazioni in quello che solitamente è il senso comune di intenderle. Il carcere qui sembra essere la vita, la vera libertà, il “fuori” è invece un mondo sterile, artefatto, freddo e spesso compiaciuto, non per nulla sarà il “coro” delle detenute ad offrire uno dei momenti più toccanti e sentiti del film. Pur avendo Goliarda Sapienza come protagonista, in Fuori non è da meno la parabola esistenziale del personaggio di Roberta, forse ancor più complicato di quello di una quasi inafferrabile Goliarda, fragile e forte allo stesso tempo, dipendente, libera, complessa. Complicate, vive, proprio come il film di Martone, le tre attrici tratteggiano tre belle figure femminili, vere, difficili come quell’arte della gioia che a volte è fatta di singoli momenti, magari caduchi, transitori, eppure così maledettamente intensi.

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