lunedì 18 marzo 2024

ILLUMINATIONS

(di Alan Moore, 2022)

Illuminations è la terza opera letteraria di Alan Moore, un'istituzione vivente per quello che è il mondo del fumetto, autore indicato praticamente all'unanimità come la voce più influente nel campo della nona arte in anni moderni. Illuminations è una raccolta di racconti scritti nel corso degli anni, alcuni già pubblicati in passato e integrati qui da diverso materiale inedito; questa antologia arriva dopo La voce del fuoco (1996) e soprattutto dopo la monumentale impresa (anche per il traduttore immagino) che ha portato alla pubblicazione di Jerusalem (2016). Anche questa raccolta di racconti conferma alcune caratteristiche della prosa di Moore che si conferma ricchissima di lessico e sfumature, eclettica, capace di passare da un registro a un altro senza cali qualitativi e senza apparente fatica da parte dell'autore che ancora una volta dimostra una grande cultura e un rapporto con la lingua che sembra essere quasi privilegiato, come se tra Moore e il dio della parola scritta fosse stato stretto un patto di sangue, cosa che tra l'altro, conoscendo un minimo il personaggio, non mi sento nemmeno di escludere. L'approccio a Moore è ostico, questo è inutile nasconderlo ed è anche questa cifra ricorrente dell'opera del "bardo di Northampton", alcuni suoi scritti possono facilmente dimostrarsi frustranti nei confronti di lettori poco motivati, con Moore ci vuole una dedizione mediamente più alta rispetto a quella che si mette nella lettura di opere che definiamo "di semplice intrattenimento"; anche nei suoi racconti più fantasiosi e strampalati l'impegno minimo richiesto è abbastanza alto. Detto questo, se quell'impegno glielo si concede, il vecchio e barbuto Alan saprà ripagare i suoi lettori, con un'alzata d'ingegno (gli sprazzi di puro genio qui non mancano, anzi), con una svolta o semplicemente con il fluire di una prosa talmente ricca e cesellata che non si può fare a meno di amare, in fondo il piacere della lettura sta anche nel riconoscere le differenze tra Scrittori con la S maiuscola e ottimi narratori di storie.

Uno dei racconti qui presenti, quello che apre Illuminations, è già noto ai fan di Moore in quanto edito nel 1988, anno in cui Hypothetical Lizard fu nominato per i World Fantasy Award e poi trasposto in forma di fumetto qualche anno più tardi. Lucertola ipotetica è il viatico migliore per venire introdotti al mondo di Moore; questa breve novella è un condensato di idee immaginifiche terribili e perfettamente congegniate portate al lettore con una prosa elegante e colta dal potere attrattivo infinito, a fine lettura Lucertola ipotetica rimarrà tra gli episodi più affascinanti dell'intera raccolta (nove i testi pubblicati). Nella città di Livarek Som-Som viene abbandonata dalla madre in una casa di tolleranza frequentata da esseri speciali; la bambina subirà interventi ripetuti al fine di renderla una partner perfetta per i suoi clienti. All'interno della casa degli orologi Som-Som sarà testimone di una peculiare storia d'amore e di un progressivo scambio di identità tra due artisti, anche loro alle dipendenze di Madame Ouish, la tenutaria della Casa senza orologi. Racconto non semplice, come molti dell'autore, ma forte di una carica d'ambiguità capace di attrarre il lettore, alcune immagini rimarranno impresse, si penerà per la piccola Som-Som e ci si chiederà inevitabilmente anche che cosa possa essere l'interno della testa di Alan Moore.

Di tutt'altro tono lo scritto più lungo di questa raccolta che porta alla luce l'amarezza che oggi Moore prova nei confronti dell'industria del fumetto e di alcuni dei suoi esponenti. È noto come il rapporto dell'autore con le due major di comics americani (Marvel e DC Comics) abbia portato Moore a disprezzare il modo in cui viene gestito il mondo del fumetto negli U.S.A. Cosa ci è dato sapere su Thunderman è una parodia al vetriolo di quella che poteva essere la vita di un'industria nascente e poi, col passare degli anni, via via più consolidata e affermata dagli anni 60 in avanti. In questo racconto è facile individuare paralleli tra i personaggi descritti da Moore su queste pagine e i loro corrispettivi Marvel o DC (Thunderman per esempio è chiaramente Superman, Re Fuco è Batman e così via); allo stesso modo tra le righe e sotto falso nome sarà facile riconoscere grandi autori come Stan Lee o Jack Kirby, sarà un po' meno facile se non per i fan esperti del settore farlo con altri autori e personaggi magari meno iconici o meno conosciuti al grande pubblico rispetto ai grandissimi sopra nominati. Per quanto ora tiri a disprezzarlo è chiaro come Moore sia qui nel suo mondo, fa quasi un po' male (e forse fa anche un po' riflettere) il rapporto descritto da Moore tra il medium fumetto e il suo pubblico adulto, sempre più numeroso e che nonostante l'età avanzata ancora riesce a godere di un albo di supereroi. Interessante nei contenuti e divertente nell'esposizione, un racconto che ogni fan dei comics (non) dovrebbe leggere.

Che dire invece di Luce americana: una valutazione critica, una sorta di poema in versi con il quale Moore ricrea un'opera e un affresco, entrambi (parzialmente) fittizi che richiamano la scena della beat generation in quel di San Francisco. L'intelligenza estrema e l'estro di Moore qui si mostrano in tutta la loro ampiezza, il bardo crea il suo poemetto e anche tutto un corollario di note che lo esplicano al lettore rendendo credibile la "sua" scena beat, quasi possibile da inserire in una cronologia di eventi delle vite di personaggi quali Ginsberg, Kerouak o Brautigan.

Come già detto sopra i racconti sono nove e qui potremmo andare per le lunghe, spero di aver reso l'idea e palesato cosa fare nell'immediato, ossia mettersi le scarpe e andare in libreria per procurarsi una copia di Illuminations.

venerdì 15 marzo 2024

PIXELS

(di Chris Columbus, 2015)

Per chi fu ragazzino tra gli anni 80 e i primi 90 Chris Columbus è stato una di quelle figure semi-mitologiche capaci di dare una connotazione più divertente e ricca all'età dell'infanzia. Il nome del regista è magari meno ricordato di quelli di gente come Steven Spielberg o Robert Zemeckis, John Landis, Ivan Reitman o anche Joe Dante, ma questo signore sta dietro ad alcune delle maggiori (e migliori) produzioni del cinema rivolto (principalmente) ai ragazzi di quei decenni. Inizia con la scrittura creando e sceneggiando le prime avventure dei Gremlins dirette poi da Dante, continua con uno degli intramontabili e imprescindibili degli eighties, I Goonies di Richard Donner che in tantissimi amano alla follia ancora oggi, arriva poi il giovane Sherlock Holmes di Piramide di paura, altro punto fermo dell'infanzia. Passa poi alla regia, dopo l'esordio nella commedia Tutto quella notte ci sono i primi due episodi di Mamma ho perso l'aereo e ancora Mrs. Doubtfire, in anni decisamente più recenti i primi due Harry Potter (La pietra filosofale e La camera dei segreti) e una serie di altre cose meno significative tra le quali compare anche questo Pixels del 2015. È chiaro come il curriculum vitae di Columbus, almeno fino a un certo punto della sua carriera, sia nutrito e di tutto rispetto, proprio per questo Pixels non può competere con le più gloriose opere provenienti dal passato del regista, non di meno la mano di Columbus riesce a mantenere in equilibrio una commedia dove pesa anche la presenza di Adam Sandler, attore che porta il suo stile di comicità a un film che per il resto si basa quasi unicamente sull'effetto nostalgia che i ragazzi di quegli anni lì possono provare sia per questo genere di pellicole sia per l'argomento principe che porta in scena i primi videogiochi che si potevano trovare all'epoca in tutte le sale giochi: Pac Man, Space Invaders, Asteroids, Donkey Kong e compagnia bella.

Primi anni 80, Sam Brenner è un piccolo nerd, un vero campione ai videogiochi, tanto che il suo amico Will Cooper non riesce a tenergli dietro. Durante un'importante competizione a tema videoludico i due ragazzi incontrano per la prima volta il loro futuro amico Ludlow e il temibile avversario di Sam, il poco corretto Eddie "Fireblaster" Plant. L'evento verrà registrato e inviato nello spazio come forma di saluto per un'eventuale forma di vita intelligente; a ogni modo Sam verrà sconfitto da Plant, questo episodio segnerà per sempre il carattere di Sam convintosi di essere un perdente e di non essere in grado di realizzarsi a pieno nel corso della sua vita. Col passare degli anni Will (Kevin James) diverrà addirittura Presidente degli Stati Uniti d'America mentre Sam (Adam Sandler) si limiterà a installare tecnologie in case altrui; durante una di queste sortite Sam capita in casa di Violet Van Patten (Michelle Monaghan), una bella madre single in crisi a causa della relazione finita con il suo ex marito fedifrago, da qui la classica relazione di amore/odio tra i due. Nel frattempo un'intelligenza aliena si imbatte davvero nella registrazione di quel vecchio torneo di videogiochi; scambiando il saluto terrestre per una sorta di dichiarazione di guerra gli alieni mandano sulla Terra una forza d'invasione mascherata da vecchi videogiochi capace di pixellare totalmente la nostra realtà. Data l'incapacità dell'esercito nel fronteggiare una situazione così poco convenzionale, al Presidente Cooper non rimane che rivolgersi ai vecchi amici esperti di videogiochi Sam e Ludlow (Josh Gad) per trovare una soluzione alla crisi planetaria.

In quella che è una sorta di "rivincita dei nerd" Sandler e Columbus tentano di far riaffiorare quel cinema per ragazzi tanto in voga negli anni Ottanta, operazione non semplice in quanto in casi come questo ci sarebbe da fare una bella pensata sul pubblico di riferimento che si vuole raggiungere. Per Pixels il rischio è duplice: i nostalgici dell'epoca, oggi tra i quaranta e i cinquanta, potrebbero non gradire un cinema semplicistico basato solo su nostalgia e divertimento leggero (ma magari sì), i giovani e gli adolescenti ai quali questo tipo di film dovrebbe essere rivolto potrebbero invece non conoscere per nulla la maggior parte dei videogiochi qui citati e utilizzati e quindi non appassionarsi alle disavventure dei protagonisti. In tutto ciò Pixels è stato smontato dalla critica pixel per pixel (ma stacca incassi di tutto rispetto) la quale non ha visto di buon occhio il dispendio di energie (e del nome di Columbus) su un intrattenimento poco stratificato che non ha di certo la stessa magia che avevano per noi alcune pellicole negli anni 80; a parer mio però alcune critiche mosse alla comicità di Sandler (che qui non sembra mai volgare come si dice) e in generale a un film che senza pretese intrattiene senza annoiare e divertendo in più di un passaggio sono state fin troppo severe. Occorre essere consapevoli che gli anni 80 non ci sono più, che uno Stranger Things non esce tutti i giorni (e purtroppo nemmeno tutti gli anni) e che i film dai quali non è lecito aspettarsi il capolavoro si possono subodorare da lontano, detto questo alla fine Pixels risulta abbastanza divertente, per chi ricorda Space Invaders e simili tutto diventa più piacevole e alcune trovate non sono niente male (l'utilizzo del Tetris ad esempio o le vie cittadine come schema per Pac Man). Magari Columbus non è più quello di una volta (non lo è), un Sandler non sarà mai un Bill Murray (ma proprio mai) e il Pac Man digitale non rimarrà nell'immaginario come l'omino dei Marshmallow, questi però non sono motivi che impediscano di godere di un film magari sì più semplicistico di altri ma tutto sommato realizzato con lo spirito giusto.

martedì 12 marzo 2024

CEMETERY OF SPLENDOUR

(Rak ti Khon Kaen di Apichatpong Weerasethakul, 2015)

A cinque anni di distanza dalla Palma d'oro di Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), dopo l'intermezzo breve di Mekong Hotel, il thailandese Apichatpong Weerasethakul torna con un nuovo lungometraggio, questo Cemetery of splendour che, proprio come già accaduto con il più celebre predecessore, raccoglie un plauso pressoché unanime da parte della critica che vede nel regista del Khan Kaen una voce originale e di certo fuori dal coro, portatrice di un cinema lontano dagli schemi ai quali siamo abituati, o più semplicemente lontano dagli schemi tout court nonostante non manchino temi e segni di stile ricorrenti all'interno delle opere di Weerasethakul. Devo dire che la mia non è di certo la penna più adatta per promuovere ai non ancora convertiti il cinema di Weerasethakul, vuoi per una conoscenza e una frequentazione ancora molto, molto parziale della sua opera, vuoi per una sensibilità personale che non ha visto scoccare la scintilla con il cinema del regista di Bangkok, nemmeno nel caso del suo film più premiato e in ogni caso superato (parere personale) da questo Cemetery of splendour, per alcuni versi più fruibile (in senso molto relativo of course) e anche più intrigante, magari meno interessante nei luoghi e nella messa in scena ma ancora dotato di una potenza immaginifica capace di far sprofondare lo spettatore in un'altra sensibilità di approccio alla vita (e alla morte) da tenere in altissima considerazione.

Nella zona di Khon Kaen, area nord della Thailandia, c'è un piccolo ospedale ricavato in quella che sembra essere un'ex scuola: pochi letti, scarse attrezzature, un dottore, qualche infermiera, diversi volontari. Questo ospedale è occupato da soldati che soffrono di un peculiare disturbo che li porta a dormire per gran parte della loro giornata; questi uomini non hanno ferite gravi visibili eppure, quando svegli, sono preda di improvvise crisi narcolettiche che li riportano a letto, costretti a urinare tramite catetere, sottoposti a massaggi lenitivi e assistiti in tutto e per tutto. Tra le volontarie spiccano la signora Jen (Jenjira Pongpas Widner) sposata a un americano, Richard (ma un europeo sarebbe stato meglio, pare siano più ricchi), e la medium Keng (Jarinpattra Rueangram) capace di entrare in contatto con i soldati mentre sono nel mondo dei sogni. Sarà proprio Keng a rivelare a Jen che il luogo in cui ora sorge l'ospedale in passato era il sito di un importante palazzo di un regno antico, sono le anime dei guerrieri di quel tempo, secondo Keng, ad assorbire tutte le energie dei soldati odierni, al fine di alimentare la loro eterna battaglia. Intanto, nei brevi momenti di veglia e lucidità, Jen stringe amicizia con il soldato Itt (Banlop Lomnoi) e fa strani incontri nel suo tempo libero.

L'ospedale di Weerasethakul sembra un'oasi di pace all'interno di un mondo che si muove, a rappresentarlo le ruspe che scavano e scavano (non si sa bene per cosa) lungo l'arco di tutto il film. A questi elementi molto terreni, esplicitati anche dalla malattia alla gamba della protagonista, un ferita molto fisica, dalle lampade che modificano la cromia dell'immagine, si contrappone uno dei temi prediletti dell'autore, quello spiritismo già visto con Lo zio Bonmee, unito al convergere del mondo dei morti in quello dei vivi. Lo spirito creatura di Bonmee è qui sostituito dalle due dee, all'apparenza due ragazze normalissime (Sujittraporn Wongsrikeaw e Bhattaratorn Senkraigul) che appaiono, in un incontro surreale ma dai toni pacati e ben inseriti nella quotidianità, in un momento di relax a una serena Jen. Poi la medium, il racconto dei vecchi guerrieri, in un'unione tra passato e presente, tra vivi e trapassati, che dona al film un tocco onirico caratterizzato però da un senso di sospensione e serenità che ammanta l'opera dall'inizio alla fine. Tutto è pacato, non c'è struttura stretta, il racconto è libero, ondivago, quello di Weerasethakul è un cinema di sensazioni, di pace, di immagini (spesso fisse), nel cinema del regista thailandese il mondo può cambiare d'improvviso senza nessun mutamento esteriore, senza strappi, solo nella testa e nel cuore di chi lo vive, di chi lo sente, di chi lo guarda con occhi profondi. È necessario sintonizzarsi su una sensibilità altra per empatizzare con opere come Cemetery of splendour, processo non sempre facile e non adatto a chiunque, film come Cemetery of splendour sono esperienze da provare, non si garantisce a tutti la certezza di uscirne soddisfatti.

lunedì 11 marzo 2024

PARANORMAL ACTIVITY

(di Oren Peli, 2007)

Per un film come Paranormal activity il discorso più interessante da fare potrebbe essere quello sul rapporto tra produzione, soprattutto sui costi di produzione, e incasso finale. Paranormal activity è il film d'esordio del regista Oren Peli che realizza questo lungometraggio in camera a mano più qualche inquadratura fissa con soli 15.000 dollari di budget e una crew fatta di pochissimi amici e attori. L'incasso totale realizzato in tutto il mondo da Paranormal activity ha sfiorato i 200 milioni di dollari, una cifra incredibile piovuta sul regista e sulla casa di produzione Blumhouse Production di Jason Blum che con questo film sigla uno dei più grandi successi della sua recente storia, un successo che avrà sicuramente contribuito alla scelta in Blumhouse di dedicarsi in maniera prevalente al genere horror (in catalogo però anche cose come Whiplash, The reader, Jem e le Holograms (?)). Sarebbe interessante capire cosa può aver attirato questa enorme mole di pubblico sufficiente a premiare in maniera così plebiscitaria un film che, seppur piacevole nel suo segmento, di certo non può definirsi né seminale né indimenticabile se non appunto per il discorso costi/ricavi, discorso comunque importantissimo, anzi fondamentale in alcuni casi per alimentare la macchina cinema e per poter magari finanziare film con una potenzialità meno ficcante di questo. La risposta potrebbe stare in una generica popolarità del genere che comunque continua a piacere e nell'ambiguità tra finzione e storia vera sulla quale alcuni mockumentary (chiamiamolo così) di stampo horror, in maniera più o meno dichiarata, giocano spesso (emblematico il caso Blair Witch Project). Mettiamoci pure che oggi, anche più che nel 2007 anno in cui il film uscì, viviamo in una società voyeuristica immersa nel mondo social ed è facile capire come questa esigenza in Paranormal activity possa essere facilmente soddisfatta. Ad ogni modo, per questi aspetti, il film di Peli è divenuto fenomeno studiato e da studiare.

Micah (Micah Sloat) e Katie (Katie Featherstone) sono fidanzati da circa tre anni e vivono insieme in una casetta unifamiliare a San Diego, California. Katie convive fin da bambina con la convinzione che una strana presenza l'accompagni costantemente e che si manifesti, soprattutto di notte, attraverso rumori, piccoli spostamenti, con un alito caldo che di tanto in tanto Katie si sente addosso. La ragazza è per alcuni versi inquieta ma quasi abituata a questi fenomeni; Micah, che forse non crede del tutto alle parole di Katie pur incoraggiandola nel tentare di capire, decide di acquistare una buona videocamera da piazzare in camera in modo da registrare tutto ciò che succede durante la notte nella camera da letto che i due ragazzi dividono. Se da principio può sembrare che nulla accada, ecco che d'improvviso iniziano a intravedersi i primi strani fenomeni, cose da poco, casi di apparente sonnambulismo da parte di Katie, porte che si muovono da sole in piena notte. Katie consulta anche un sensitivo, il dottor Fredrichs (Mark Fredrichs) che consiglia alla coppia il consulto di un demonologo; il fatto che la presenza sia da sempre con Katie lo porta a escludere il coinvolgimento di un fantasma. Durante la discussione con i due fidanzati, appurata una scellerata intraprendenza da parte del ragazzo, il sensitivo consiglia all'esuberante Micah di non tentare di contattare lo spirito/demone in modo da non provocarlo ma Micah vorrà fare di testa sua (come in ogni horror che si rispetti), così...

Nonostante il film di Oren Peli non metta in scena (né in moto) nulla di veramente nuovo e si concentri con alcuni accorgimenti economici a (non) mostrare l'inimmaginabile che irrompe nella quotidianità, Paranormal activity, forse proprio per questo, alla fine funziona discretamente bene e capitalizza molto, molto meglio. Peli gira in casa sua, pochissime location: la camera da letto, una sortita in giardino e qualche passaggio nelle altre stanze (il bagno il più gettonato); tanta camera a mano stile ponte su una nave in tempesta, camera fissa per le notturne, scene queste più interessanti, con segnatempo a correre veloce quando non succede nulla. Forse è proprio questa essenzialità, asciugata della messa in scena che ci si aspetta dal cinema, a dare un senso di plausibilità e immedesimazione a quel che accade in quella casa; gli "spaventi" sono centellinati ma ben calibrati, si arriva a un potenziale terrore (per chi è a digiuno di horror) solo sul finale, sequenza rivista più volte e ripensata su consiglio di, nientepopodimenoche, Steven Spielberg, in giro è comunque possibile visionare anche le chiusure alternative compresa quella in origine pensata dal regista. Opera sovrastimata, almeno dal pubblico (la critica fu più divisa) che volente o nolente centra in pieno il bersaglio economico e che alla fine non se la cava malaccio nemmeno come intrattenimento aiutata dai volti genuini non immediatamente ricollegabili al mestiere dell'attore dei due protagonisti. Per diversi versi modesto ma innegabilmente uno dei grandi successi del suo decennio.

giovedì 7 marzo 2024

DIAZ - DON'T CLEAN UP THIS BLOOD

(di Daniele Vicari, 2012)

Sono passati più di vent'anni dai fatti del G8 di Genova e dall'ignobile intervento delle forze dell'ordine (?) italiane all'interno della scuola Diaz ma il resoconto dei fatti di quella notte proposto da Daniele Vicari, costruito sulle dichiarazioni degli atti ufficiali dei processi e su numerose testimonianze dirette, riesce ancora a far montare una rabbia cieca e uno sdegno incolmabile, emozioni aggravate dalla consapevolezza che tra quelle persone indegne di portare una divisa nemmeno uno ha pagato seriamente per i suoi atti atroci, un'umiliazione e una presa in giro nei confronti non solo di quelle vittime massacrate di botte da quelli che dovrebbero essere dei protettori (dello Stato sempre, prima che del cittadino) bensì un'onta nei confronti di ogni singolo italiano ancora dotato di una seppur minima briciola di compassione, solidarietà e onestà. Al di là dei meriti puramente cinematografici del film, che a parere di chi scrive ci sono, operazioni come questa di Vicari devono prima di tutto essere viste come documento e insegnamento, viatico di conoscenza ed educazione, perché il repetita iuvant, o almeno dovrebbe, e invece il manganello è sempre lì pronto, l'abbiamo visto a Pisa di recente, fortunatamente con conseguenze meno gravi rispetto a quelle del 2001, film come questo andrebbero fatti vedere ai giovani nonostante la durezza delle immagini, delle emozioni, perché le botte date da quei poliziotti si sentono tutte guardando Diaz, le teste spaccate fanno male, tutte le umiliazioni, le ingiurie, gli sputi arrivano ancora come ferite profonde. Ma qui da noi tutto si giustifica, si dimentica, si archivia, cade in prescrizione, si aggiusta in appello.

E allora che fare? Limitarci a parlare di cinema (che poi non è una limitazione ma passione e privilegio) o andare a ricordare l'episodio, il momento storico, quello che associazioni come Amnesty International  definirono come "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale"? Certo, qui di solito ci occupiamo di film facendo di tanto in tanto riferimenti inevitabili a situazioni, attualità, contesti; c'è anche da dire che non siamo proprio i Cahiers du cinéma e questo ci consente di fare un po' come ci pare e piace, quindi al di là dei meriti e al di là dei difetti dell'opera filmica, il consiglio è quello di recuperare Diaz - Don't clean up this blood, perché oltre le emozioni che il film suscita, cosa positiva in quanto segno di vita e vitalità, il gesto di riprendere in mano e nella memoria episodi come questo è segnale di giustizia, intesa non come quella negata e che avrebbe dovuto garantire il nostro Stato, ma giustizia in senso di atto dovuto, sacrosanto e giusto nei confronti di quei ragazzi, uomini, donne che tanto hanno dovuto subire in quella notte del 2001, solo dopo vengono il film, le scelte di Vicari, gli attori, la narrazione, in primis è necessario che quel sangue non venga lavato, che rimanga sempre lì a monito, perché noi purtroppo facciamo sempre difficoltà a imparare.

Il film di Vicari gode di una struttura tensiva ed emozionale di altissimo livello. Immaginate cosa dev'essere stato girare un film come questo, scomodo e duro, in un contesto dove la parola d'ordine per fatti di questa portata sembra essere "dimenticare" o al limite "minimizzare".  Vicari compie un atto coraggioso mettendo in moto una macchina capace di produrre un risultato tutt'altro che didascalico o meramente divulgativo. Diaz - Don't clean up this blood ha invece tutte le carte in regola per portare avanti un impianto immersivo e capace di coinvolgere lo spettatore sotto tutti i punti di vista; è certo un film di parte, schieratissimo, ma anche in questo caso, come accade per molti film di Loach ad esempio, la scelta è più che giustificata da un senso di giustizia sempre più necessario: se al centro del film c'è quella che da molti giornalisti è stata ai tempi definita la "macelleria messicana" perpetrata da alcuni esponenti della Polizia di Stato nei confronti di cittadini italiani e non, giovani e non, Vicari non manca di tratteggiare anche le frange violente appartenenti ai famosi Black Blocks, certo non sono il centro di un film che in realtà non ha protagonisti principali e non vede attori in primo piano, anche i volti di maggior talento o comunque più noti come quelli di Germano, Santamaria, Calabresi, Scarpa, Geraldi, Acquaroli, Roja, si dividono lo spazio con interpreti sconosciuti al grande pubblico che contribuiscono però a dare un tocco di maggior autenticità alla messa in scena che per quanto possibile cerca di ricostruire senza troppo romanzare. Nonostante non sia mancata qualche critica personalmente non trovo nessuna colpa in questo film, né ideologica né cinematografica.

lunedì 4 marzo 2024

TYLER RAKE

(Extraction di Sam Hargrave, 2020)

In Tyler Rake non c'è un'idea che sia una. Questo, posto che si sia disposti a passare una serata in compagnia di un'action ignorante ma adrenalinico, non è detto che debba per forza precludere la riuscita del film. In Tyler Rake non troverete messaggi, sottotesti, letture politiche, approfondimenti sui personaggi, niente; l'unico tentativo di creare spessore è dato dal legame sentimentale di Tyler Rake (Chris Hemsworth) verso il giovane coprotagonista, una vicinanza dettata dal ricordo di un figlio evidentemente perso prematuramente, tentativo questo di dare un tocco di profondità al film che manca il bersaglio di almeno centomila chilometri, quindi lasciamo pure perdere, in Tyler Rake non ci sono altro che ritmo e azione conditi con sparatorie, esplosioni, inseguimenti, combattimenti, massacri. Ora, assimilato quanto appena detto, per il resto il film è un action ben diretto, riuscito in tutte le sue sequenze, adrenalinico e capace dall'inizio alla fine di non presentare mai cali di ritmo né tempi morti. Non c'è nemmeno un risvolto di trama, linearissima e riassumibile in quattro righe, motivo per cui non sarà così semplice costruire su questo film un pezzo decente degno di venir pubblicato. Ci proviamo comunque.

Ovi Mahajan (Rudhraksh Jaiswal) è un adolescente figlio di un importante narcotrafficante indiano (Pankaj Tripathi) attualmente in galera; il ragazzo è controllato a vista e affidato alle cure del braccio destro di suo padre, tal Saju Rav (Randeep Hooda) che però pecca nel suo compito e permette che il ragazzo venga rapito da un narcotrafficante rivale, Amir Asif (Priyanshu Painyuli) che lo nasconde in un rifugio a Dacca, capitale del Bangladesh. Per recuperare il ragazzo viene contattata l'agenzia di mercenari diretta dalla bella e pericolosa (ma non priva di sentimenti) Nik Khan (Golshifteh Farahani) la quale affida il compito al suo uomo di punta, Tyler Rake (Chris Hemsworth), un soldato super addestrato e con un'apparente desiderio di morte dentro il cuore (per il figlio di cui sopra). Nonostante l'estrazione (da cui il titolo originale) di Ovi in principio riesca, qualcosa comunque va storto e i soldi che avrebbero dovuto arrivare sul conto corrente dell'agenzia non vengono trasferiti; a questo punto Tyler si rifiuta di abbandonare il ragazzo e lo scenario si complicherà alquanto tra le due fazioni in lotta, Saju che cerca di recuperare Ovi per conto suo, un vecchio amico di Tyler, Gaspar (David Harbour), che verrà coinvolto nella vicenda, la polizia corrotta e infine l'intervento in prima persona di Nik. Uscire da Dacca non sarà per niente facile.

Tyler Rake è un action movie onesto, senza velleità, solido, ritmato e divertente il giusto, mantiene quel che promette e chi questo cerca questo trova, nel suo segmento un film riuscito. Il problema di Tyler Rake, visto oggi, potrebbe essere dato dal fatto che lo spettatore potrebbe non aver più voglia (o almeno non dovrebbe averne) di immergersi in scenari di guerra, in viaggi nella violenza estrema per la quale sembra che oggi, parlando di quella reale, con i morti veri, si stia sviluppando un'indifferenza senza ritorno. Certo, sappiamo tutti che l'origine del male non sono certo i film come questo, ci mancherebbe, non è questo il punto. È che a guardare un certo tipo di narrazione, sapendo quel che succede nel mondo, un po' di disagio forse lo si dovrebbe provare, come in alcuni passaggi l'ho provato io. Magari per un periodo ci si potrebbe concentrare su altro o affrontare il genere con maggiore consapevolezza e profondità, cercando di aprire occhi e smantellare le indifferenze, abbandonare il conflitto usato come mero divertimento. Sono queste ovviamente considerazioni personali, Tyler Rake è del 2020, anno nel quale le recenti sciagure ancora non erano iniziate, nulla si vuol quindi rimproverare a Hargrave che confeziona un film godibile (magari in altri tempi) che sfoggia doti tecniche di tutto rispetto: c'è almeno una sequenza vertiginosa e realizzata con una maestria incredibile che contiene inseguimenti, corpo a corpo, effetti speciali, gestione degli spazi e dei tempi degna del passato da stuntman del regista che va a far concorrenza all'altro stuntman passato dietro la macchina da presa in tempi recenti, quel Chad Stahelski regista di John Wick dotato però di un tocco più ironico. Hemsworth è un action man credibile e preparato, meglio qui che in film più gettonati come Blackhat o nelle imbarazzanti recenti sortite nei panni del "dio del tuono"; affascinanti le location, magari non troppo credibile il conteggio dei morti a favore ma per quello, si sa, c'è la tanto cara e utile sospensione d'incredulità.

venerdì 1 marzo 2024

BYZANTIUM

(di Neil Jordan, 2013)

È probabile che, andando contro al celebre detto, anche cinque o sei indizi possano non fare una prova, certo è che messi insieme questi diventino perlomeno una discreta indicazione. Questa volta ci ripetiamo, lo si era già detto in occasione del commento a Triplo gioco dello stesso Neil Jordan, commento al quale la visione di questo Byzantium diventa una (abbastanza) solida conferma: al cinema di Neil Jordan sembra mancare sempre un qualcosa per esplodere, convincere appieno e farsi ricordare. Ancora lontani dall'aver esaminato l'intera opera del regista, si può però considerare parecchio significativo, in merito alla formulazione di un giudizio seppur parziale, il peso di opere quali Non siamo angeli, Intervista col vampiro, Michael Collins, Triplo gioco, Breakfast on Pluto e buon ultimo anche questo Byzantium, film spalmati lungo i decenni, tutti onesti e ben fruibili (anche se di Michael Collins ne ho un ricordo intorpidito) ma mai entusiasmanti. Con Byzantium, a distanza di quasi vent'anni da Intervista col vampiro, Jordan torna ai succhiasangue narrandone ancora una volta un'esistenza che si dipana, tra eventi attuali e ricordi dei protagonisti, lungo il corso dei secoli. Meno romantica del predecessore anche questa sortita nel mondo degli abitanti della notte (che in realtà qui si muovono tranquillamente anche di giorno) nasce dalla penna di una donna, per Intervista col vampiro la fonte era il romanzo omonimo di Ann Rice, per Byzantium alla base abbiamo invece una pièce teatrale firmata da Moira Buffini (A vampyre story), qui anche sceneggiatrice.

Clara (Gemma Arterton) ed Eleanor (Saoirse Ronan) vivono in un fatiscente caseggiato inglese, sono due vampire; Clara lavora come ballerina in un night e non è nuova al mestiere più antico del mondo, la donna si preoccupa di procurarsi da vivere per lei e per la sorella Eleanor. Questa, più giovane anche nell'aspetto (in realtà entrambe sono pluricentenarie), limita le sue sortite alla ricerca di plasma e globuli rossi ai danni di uomini già morenti, Clara è invece più spregiudicata e diretta. Appartenenti come spiegato in diversi flashback alla congrega dei vampiri, da questa Clara e Eleanor non sono ben viste in quanto donne; nel momento in cui qualche regola della confraternita viene elusa le due "ragazze" diventano prede di una caccia feroce che porterà le nostre a nascondersi ad Hastings, all'interno di un hotel in rovina, il Byzantium, di proprietà del timido Kevin (Tom Hollander), uomo mite e debole presto soggiogato dall'avvenente e disinibita Clara. Il Byzantium diventa così il nuovo rifugio delle due sorelle; ad Hastings Eleanor incontra un ragazzo di nome Frank (Caleb Landry Jones) che finirà per piacerle e nel quale troverà un confidente; da tempo Eleanor sente la necessità di raccontare a qualcuno del suo retaggio, più volte la vampira ha scritto la sua storia, la frequentazione insieme a Frank di un corso di scrittura creativa sarà l'occasione per far emergere il suo inconfessabile segreto. Seguiranno tragedie.

L'elemento di maggior interesse nel film di Jordan è dato dalle due figure femminili, donne già ostracizzate secoli addietro in quanto accettate di controvoglia in un mondo (la fratellanza) prettamente maschile e che le vede come oggetti di consumo (lo sfruttamento sessuale, i ripetuti tentativi di violenza). La Arterton e la Ronan riescono a delineare due vampiri dal carattere molto diverso, il desiderio di libertà e di verità della più giovane porta la coppia di ragazze ad avere più di un problema e nel percorso di svelamento della loro vera natura regalerà alla Ronan i passaggi drammatici più efficaci del film, capaci di farne uscire il limpido talento che si staglia anche sulla prova della coprotagonista Arterton. Eleganti e d'impatto alcune scene costruite da Jordan come i bagni nella cascata di sangue e l'ingresso con l'insegna gialla dell'hotel Byzantium ben scenografato in tutti i suoi interni, ottima ricostruzione d'ambiente. Jordan lavora bene con i rossi, ritornanti anche in alcuni costumi, delinea una visualità elegante che ammanta un film ancora una volta piacevole ma non memorabile, mette da parte alcune convenzioni trite sulla figura del vampiro (un punto a favore) e cesella due donne nelle quali, nonostante i secoli d'età, si leggono ancora i traumi della crescita per una e la responsabilità della tutela per l'altra. Non male quindi, aspetto però ancora la folgorazione.

mercoledì 28 febbraio 2024

UPSTREAM COLOR

(di Shane Carruth, 2013)

Ci è già capitato in passato di affermare come per film particolarmente enigmatici o che semplicemente richiedano allo spettatore uno sforzo interpretativo più consistente del normale, sia tutto sommato semplice sposare una linea di lettura e andare poi a cercare nell'opera elementi che possano corroborarla o quantomeno renderla (per quanto possibile) un minimo credibile. Nulla di male in questo, è fuori di dubbio come molti critici o anche semplici amanti del cinema si dilettino nella maniera più onesta e appassionata a questa pratica che può facilmente rivelarsi stimolante e finanche divertente. Upstream color, secondo lungometraggio del regista statunitense Shane Carruth, si presta in toto all'essere sviscerato dall'intelletto dello spettatore più volenteroso alla ricerca di un recondito significato dell'opera, cosa tra l'altro impossibile da trovare se non nel campo delle ipotesi o delle speculazioni, le certezze non abitano da queste parti (e a sentire chi ha visionato anche l'esordio Primer non abitano nemmeno in casa Carruth). Film ermetico quindi che apre il fianco a dibattiti senza fornire risposta alcuna; genio dell'autore? Volontà di confondere le acque? Approccio "arty"? Supercazzola per immagini (e poche parole)? Ai posteri, o anche a voi amati lettori, l'ardua sentenza!

Kris (Amy Seimetz) è una donna con una vita all'apparenza normale; una sera viene aggredita da uno sconosciuto (Thiago Martins) che la costringe a ingoiare una larva coltivata e trattata dallo stesso e da un team di suoi giovani collaboratori. Questa larva entra nell'organismo di Kris inducendole un forte stato ipnotico che la porta a trovarsi alla completa mercé del suo aggressore che pian piano riesce a portarle via l'intera sua vita: tutti i suoi risparmi, la casa, alla fine anche il lavoro e la possibilità di mantenersi da sola. Quando l'insolito criminale sembra aver sfruttato appieno Kris questa, sempre attraverso il parassita che ora le abita il corpo, viene attratta da un altro uomo misterioso che potremmo chiamare l'uomo dei maiali (Andrew Sensenig), all'apparenza non chiaramente intenzionato a far del male alla donna, infatti questi la libera dalla larva trasferendola in un maialino; Kris è ora libera, senza più nulla al mondo ma, forse, con qualche tipo di legame residuo con quel suino. Poi arriva Jeff (lo stesso regista Shane Carruth), un uomo che sembra aver subito esperienze simili a quelle di Kris, si conoscono in metro, la loro unione potrà diventare un'amplificarsi del trauma o, se i due si dimostreranno forti e fortunati, magari una cura per entrambi.

Carruth, tramite l'utilizzo di immagini e sequenze suggestive e avvolgenti, costruisce una (non) storia dalla difficile interpretazione. Da due situazioni di crisi, una sola ben esplicitata allo spettatore (quella di Kris) si arriva a quella che potrebbe essere vista o come una storia d'amore difficile e screziata di follia o come una cura, un sostegno da trovare (l'uno) nell'altro per affrontare e sconfiggere le difficoltà e le minacce poste dal mondo esterno, possibile metafora della società moderna in cui ci troviamo a vivere. Ma, sempre rimanendo nel campo delle elucubrazioni, anche una ritrovata libertà (Kris si libera dal verme) può essere solo apparente e qualcun altro per noi continua a tirare i fili del gioco (Kris è ancora in qualche modo legata al maiale e all'uomo dei maiali). E pure quando il male evidente può sembrare sconfitto, siamo poi proprio sicuri che i processi che stanno sopra di noi siano effettivamente debellati? (è finita davvero la minaccia del controllo esterno? Tema di grande attualità). Sono parecchie le tesi che possono accostarsi al film di Carruths: controllo, elaborazione del trauma, guarigione tramite relazione, caso e insondabilità degli eventi; ad ogni modo il film è godibile, forse profondo, forse solo paraculo, di certo affascinante, ben diretto e studiato. Vi piace interrogarvi su strutture poco limpide e significati reconditi? Upstream color è il film che fa per voi.

lunedì 26 febbraio 2024

DOLORES CLAIBORNE

(di Stephen King, 1993)

"Che cosa vuole una donna?"
Sigmund Freud

"R-E-S-P-E-C-T, scopri che cos'è per me."
Aretha Franklin

Anno 1993, decenni prima che il ruolo della donna finisse sotto i riflettori del dibattito pubblico, anche per quel che riguarda l'ambito della cultura (pop e non), Stephen King scriveva questo romanzo per sola voce femminile nel quale venivano sottolineate le difficoltà che dovevano affrontare le donne in un'America ancora rurale e operaia e non troppo scolarizzata, prendendo in esame un arco temporale che nei ricordi della protagonista Dolores Claiborne abbraccia un periodo che va più o meno dagli anni 50 fino alla contemporaneità d'uscita del romanzo, gli anni Novanta dello scorso secolo. Il "Re del brivido" non è nuovo nel mettere sotto accusa una società americana dove disparità e ingiustizie sono all'ordine del giorno e diffuse in tutti gli Stati del Paese, in questo caso al centro della narrazione c'è proprio la difficile condizione dell'essere donna in un mondo profondamente maschilista. All'epoca dell'uscita di questo romanzo il periodo d'oro del Re, quello durante il quale King non sbagliava un colpo (o quasi), era forse giunto al termine, ma anche nel decennio dei Novanta non è difficile trovare all'interno della bibliografia dell'autore di Bangor opere valide come questa che comunque si attestava tra gli scritti ben riusciti del Re trovandosi in buona compagnia: si ricordano infatti nello stesso decennio almeno Cose preziose, Quattro dopo mezzanotte, Cuori in Atlantide e Il miglio verde, tutte opere più che meritorie.

Little Tall Island nel Maine è una piccola comunità isolana, è in questa località che vive ed è cresciuta Dolores Claiborne, una donna che oggi ha passato la sessantina e che continua a occuparsi della sua datrice di lavoro, l'anziana Vera Donovan non più completamente autosufficiente. Quando Vera muore a causa di un incidente domestico le autorità locali sospettano qualcosa riguardo Dolores, così la donna si troverà a dover rilasciare una corposa dichiarazione lungo la quale dovrà ripercorrere il pluriennale rapporto che la lega e l'ha legata a Vera Donovan, nel far questo verrà rivangato anche il passato della famiglia di Dolores, il rapporto con un marito difficile, Joe St. George, e le circostanze, già sviscerate in altre occasioni, riguardo la sua morte accidentale, il legame dei due figli maschi con il padre e le vicende legate all'unica figlia femmina di Dolores, Selena St. George. Testimoni di questa fluviale confessione sono il capo della polizia di Little Tall Andy Bissette, l'agente Frank Proulx e la giovane stenografa Nancy Bannister.

Oltre a essere un ottimo romanzo con Dolores Claiborne Stephen King realizza anche un pregevole esercizio di stile che rende questo scritto un'opera originale all'interno della bibliografia del Re. Sono almeno due gli elementi che caratterizzano questo Dolores Claiborne: il primo consta nel fatto che l'intero libro si presenta come un unico flusso di coscienza della protagonista; è lei infatti che prende la parola fin dalla prima pagina del romanzo e ci accompagna raccontandoci la sua storia fino all'ultimo punto dell'ultima pagina. Nel mezzo non ci sono interruzioni, non ci sono stacchi, non ci sono capitoli, solo un unico flusso ininterrotto di ricordi che accompagna il lettore e lo spinge a rimanere sul libro fino alla sua naturale conclusione. Anche quando Dolores è impegnata in brevissimi scambi con i tre ascoltatori (agenti e stenografa) noi sentiamo solo le sue parole e al limite deduciamo gli interventi degli altri personaggi, ma anche queste situazioni sono molto limitate nell'economia del racconto. Altro elemento che conferma la grandezza di King (e qui c'è anche la mediazione del traduttore, Tullio Dobner per l'edizione in mio possesso) è lo stile di scrittura adottato dall'autore che con un linguaggio in parte sgrammaticato rende al meglio la condizione sociale e culturale di una donna semplice cresciuta con la fatica e non con i libri, il tutto rende la narrazione di Dolores ancor più credibile e avvincente. Sono pochi gli sprazzi concessi al sovrannaturale, giusto qualche piccola allusione, per il resto quella di Dolores Claiborne è una storia drammatica e concreta, fatta di soprusi, rapporti difficili, amore, coraggio e decisioni dure da prendere. Ancora una volta King dimostra di essere un ottimo scrittore indipendentemente dai generi, cosa che nonostante il successo planetario di vendite forse continua a non essergli riconosciuta al pari dei suoi meriti.

venerdì 23 febbraio 2024

I PREDATORI

(di Pietro Castellitto, 2020)

È un bell'esordio quello di Pietro Castellitto, film che ha diviso la platea tra chi ci ha visto un'opera prima fresca e vivace seppur nelle sue fondamenta non originalissima e chi l'ha bollata come un'accozzaglia di sequenze slegate o come un film ingiustamente premiato, anche a causa di un linguaggio poco comprensibile, problema che, pur non vantando origini romane, io non ho riscontrato. Forse un poco di verità trova spazio al di là di entrambi i lati della barricata, il fatto poi che il film divida e abbia fatto discutere è di per sé già un motivo d'interesse e sintomo di una volontà di discostarsi dalla media della nostra commedia, cosa che non può che esser vista con un certo favore. Il film in effetti non poggia su basi nuove, al centro c'è il contrasto tra una famiglia della borghesia benestante romana e una proletaria e fascistella con qualche aggancio criminale. Come in diversi hanno avuto modo di ricordare, l'accostamento più facile da fare per questo I predatori è quello con il più celebre Ferie d'Agosto di Paolo Virzì datato 1996, qui le due famiglie erano rappresentate da Silvio Orlando ed Ennio Fantastichini, tra l'altro con qualche punto in comune tra i due film (l'armeria). Ciò in cui I predatori si discosta dal suo predecessore sta nel fatto che i contatti tra i componenti dei due nuclei familiari, i Pavone (i borghesi) e i Vismara (i coatti), si riducono a pochi brevi (seppur importanti) momenti, il confronto non è mai diretto tra protagonisti ma sta più nella penna di Castellitto e nell'occhio e nella sensibilità dello spettatore, scelta che differenzia questa narrazione da altre e punto a favore della causa del Nostro simpatico figlio d'arte (Pietro è figlio di Sergio). Un'altra verità indubbia è che il film denoti una struttura (volutamente) slegata, fatta di tranches, momenti, suggestioni che vanno a costruire in maniera libera personaggi e comportamenti più che una storia, che comunque pur se strampalata c'è e non è poi difficile da seguire.

Federico Pavone (Pietro Castellitto) è cresciuto in una famiglia ricca della buona borghesia romana: il padre Pierpaolo (Massimo Popolizio) è uno stimato medico, la madre Ludovica è una regista affermata non troppo tenera con i suoi collaboratori. Claudio Vismara (Giorgio Montanini) è invece il proprietario di un'armeria, tipo un po' ignorante e sempre alle prese con i soldi e le spese in continuo aumento, è sposato e ha un figlio giovane già appassionato di armi. Quando l'anziana madre di Claudio, la signora Ines (Marzia Ubaldi) viene investita dopo essere stata truffata da un losco giovane (Vinicio Marchioni), sarà proprio Pierpaolo a salvarla; il lambirsi di queste esistenze porterà a una serie di eventi che coinvolgeranno le frustrazioni di Federico nei confronti del suo professore universitario (Nando Paone) che lo ha escluso dal progetto di riesumare il corpo di Friedrich Nice (!), la coppia di amici dei Pavone composta dal primario Bruno (Dario Cassini) e da sua moglie Gaia (Anita Caprioli) e il malavitoso Flavio Vismara (Antonio Geraldi), zio di Claudio.

Non si capisce bene se Castellitto con I predatori volesse ergersi a voce anti borghese, anti fascista, anti "radical chic" o anti commedia "troppo italiana" per dirla con La Rochelle, oppure se al giovane di tutto ciò non gliene fotta una beneamata minchia e nelle sue intenzioni prospettasse solo quella di creare una commedia diversa, libera, capace di scompigliare un poco le carte pur senza iniziare una rivoluzione, l'idea di divertirsi e divertire (e ci riesce parecchio bene) usando i toni del grottesco e a tratti dell'esagerazione mettendo in campo fin da questo esordio una capacità di dirigere, macchina e attori, tutto sommato da non sottovalutare e da tenere d'occhio per il prossimo futuro. Da queste parti si tende ad abbracciare la seconda ipotesi, più genuina, simpatica e anche più accogliente, adatta a un corpo attoriale comico, quello appunto di Pietro, capace di imbroccare al primo colpo momenti e tempi comici, situazione e quadro generale che, seppur slabbrato nei contorni e (solo) apparentemente senza direzione, alla fine funziona, intrattiene e ci fa ridere parecchio. Magari un po' fuori fuoco (che poi è pure il suo bello), I predatori mi sembra una bella opera prima che finalmente non puzza di muffa già dal principio, poi se proprio si deve ritoccare qualcosa c'è tutto il tempo per farlo, magari se ne riparlerà in merito al successivo Enea.

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