venerdì 25 luglio 2025

I GANGSTERS

(The killers di Robert Siodmak, 1946)

Robert Siodmak è un regista tedesco di origine ebraica nato a Dresda ed emigrato negli Stati Uniti (via Parigi) per sfuggire all’ondata nazista. Una volta giunto in America Siodmak, almeno per gli esiti più riusciti del suo cinema, tenta (riuscendoci) di coniugare al meglio la tradizione espressionista del cinema del suo Paese natale ai generi in voga negli U.S.A., il thriller su tutti, creando un impasto che sfocia nel noir e che ha dato vita ad alcune pellicole ricordate da storici e pubblico ancora oggi, parliamo di titoli come La scala a chiocciola (1946), questo I gangsters (1946) o L’urlo della città (1948). Proprio The killers è considerato uno dei punti fermi del noir classico statunitense, un film che amalgama al meglio alcune caratteristiche dell’espressionismo tedesco agli stilemi del genere. Si pensi, prendendo in esame la sola scena d’apertura, ai neri avvolgenti che lasciano poco spazio a quegli squarci di luce che aprono varchi netti e limitati nel buio, alla scenografia d’insieme che ha il sapore del teatro di posa, all’incedere cadenzato di quelli che scopriremo essere due dei gangsters ai quali il titolo allude, all’atmosfera nebbiosa, sospesa, quasi irreale del luogo (siamo all’esterno del diner dove entreremo a breve, anche questo poco illuminato). Tra l’altro non sono neanche le sei del pomeriggio è c’è già un buio da eclissi totale. Il dialogo tra i due criminali e il gestore del diner ha quel sapore a tratti grottesco che potrebbe benissimo essere un prodromo di quelli che ascolteremo molto più avanti in tanto cinema postmoderno.

Pete Lunn detto “lo svedese” (Burt Lancaster) è un uomo condannato; in apertura di film lui stesso lo sospetta anche se non ha la certezza di quando e come la sua condanna arriverà davvero a compimento. L’uomo ha commesso in passato degli errori immischiandosi in affari poco puliti con il gangster Big Jim Colfax (Albert Dekker) e soprattutto con la bella Kitty Collins (Ava Gardner), amante dello stesso Colfax, una donna al cui fascino l’ingenuo Pete non è stato in grado di resistere. La morte di Pete arriverà prestissimo. Avendo lasciato attiva una polizza sulla vita da 2.500 dollari, toccherà all’investigatore dell’assicurazione Jim Reardon (Edmond O’Brien) indagare sulla morte di Lunn. Durante le indagini, ricostruendo pezzo dopo pezzo la storia dello svedese, Reardon verrà a conoscenza di una vecchia rapina da 500.000 dollari nella quale, insieme ad altri, furono coinvolti proprio Lunn, Colfax e Kitty. Seguendo le scoperte dell’investigatore anche lo spettatore viene condotto, un poco alla volta, nelle vicende del protagonista, scoprirà come un suo errore, mosso dalla passione per una donna impossibile, lo ha portato a trovarsi riverso sul letto di una squallida camera in affitto, in un paesino da niente, con diverse pallottole in corpo esplose dai due killers visti nella sequenza iniziale.

The killers prende il via da un breve racconto di Ernest Hemingway contenuto nella raccolta I quarantanove racconti, uno scritto che descrive solo la prima sequenza del film, quella ambientata nel diner di cui sopra. Questa scena è stata poi ampliata fino a diventare la sceneggiatura finale del film firmata Anthony Veiller alla quale collaborarono non accreditati anche John Huston e Richard Brooks, non proprio gli ultimi due arrivati. Il lavoro fatto da Siodmak e da Woody Bredell con la fotografia, grazie a un bianco e nero corposo, minaccioso e avvolgente, ha contribuito a inscrivere I gangsters nell’empireo del noir anni Quaranta; l’incipit teso e coinvolgente e il piano sequenza della rapina hanno fatto il resto. Il film però si ricorda principalmente per la sua struttura a flashback a incastro grazie alla quale lo spettatore riuscirà a scoprire l’intera storia di Pete lo svedese un pezzo alla volta, un errore alla volta, un colpo di testa alla volta. Tenendo fede alla tradizione dell’espressionismo tedesco, Siodmak lavora molto sulle psicologie dei personaggi mostrandoci come non si può scappare dal passato che torna a bussare alla tua porta, a quegli errori che affondano nei giorni andati e che all’improvviso, quando meno te lo aspetti, tornano a morderti i calcagni. Il resto lo fanno una splendida Ava Gardner, tipica femme fatale da noir, e un nervoso Burt Lancaster qui all’esordio. Magari non continuo nel tenere altissima l’attenzione per l’intera durata del film, I gangster riesce comunque a offrire qualcosa di significativo in un’epoca in cui il cinema che sperimentava (si ok, c’era già stato Quarto potere) ancora lasciava segni indelebili e tracce da seguire per le epoche a venire. Tutto sommato non è cosa da poco.

domenica 20 luglio 2025

TARDO AUTUNNO

(Akibiyori di Yasujirō Ozu, 1960)

Con il suo quarto film a colori Yasujirō Ozu confeziona quella che può essere considerata una sorta di summa di tutto il suo cinema più maturo. È questa una considerazione che si giustifica facilmente osservando come in Tardo autunno ritornino, con lievi variazioni e nuovi approfondimenti, non solo i temi cari al regista (che sappiamo essere più o meno sempre gli stessi) ma anche singole situazioni già esplorate in precedenza e finanche gli stessi attori che hanno preso parte ai film precedenti del regista giapponese e che qui tornano a sfilare, con ruoli più o meno importanti, pressappoco tutti. Tardo autunno è anche una sorta di remake di uno dei più alti capolavori di Ozu, quel Tarda primavera nel quale la giovane Noriko (l’immancabile Setsuko Hara), ormai in età da marito, rifiuta ogni relazione per poter continuare a vivere in casa con il padre Shūkichi Somiya (Chishū Ryū) vedovo ormai da diverso tempo, un uomo con il quale la figlia ha un ottimo rapporto e che non vuole lasciare solo. Qualche anno più tardi Ozu ricrea la stessa situazione adottando qualche piccolo cambiamento: richiama così Setsuko Hara e le cuce addosso il ruolo della vedova ancora giovane con una figlia, Ayako, che non vuole sposarsi per non lasciare sola la madre con la quale conduce una vita felice e serena. Continua quindi il lavoro di cesello del regista per affinare il suo racconto sulla famiglia, sulla società in mutamento, sulle nuove generazioni, sull’ammodernamento e sull’occidentalizzazione di un Giappone in bilico tra il nuovo che avanza e la nostalgia per le tradizioni.

Alla commemorazione per il settimo anniversario dalla morte dell’amico Miwa, i signori Mamiya (Shin Saburi), Taguchi (Nobuo Nakamura) e Hirayama (Ryuji Kita) si ritrovano per ricordare il vecchio compagno insieme alla sua vedova Akiko (Setsuko Hara) e alla di lei figlia Ayako (Yoko Tsukasa). In gioventù tutti e tre gli uomini nutrivano dei sentimenti per l’allora giovane Akiko, una donna tutt’ora molto bella, una sorta di benevola rivalità messa poi a tacere proprio dall’arrivo dell’amico Miwa che ebbe la meglio su tutti e riuscì a convolare a nozze con la sua futura moglie. Volendo tutti e tre molto bene alla donna ed essendo sinceramente affezionati a sua figlia Ayako, anch’ella molto piacente, il trio di uomini adulti si mette in testa di dare una mano alla famiglia cercando un valido pretendente per la mano della giovane, una ragazza ormai in età da marito. Durante la ricerca, soprattutto grazie alle gaffes del signor Taguchi, i tre combineranno diversi pasticci, creando equivoci e malumori per appianare i quali questi uomini maturi dovranno ricorrere all’aiuto delle nuove generazioni. Se da principio Ayako non vuol sentir parlare di matrimonio desiderosa di continuare a vivere con la madre, una volta conosciuto uno dei pretendenti presentatogli dai tre, il giovane Goto (Keiji Sada), un piccolo tarlo inizia a farsi strada nei suoi pensieri. Ma mentre Ayako inizia a considerare l’idea di sposarsi, resta il nodo irrisolto della madre Akiko: lasciarla sola o rinunciare alla propria indipendenza?

Tardo autunno si apre su uno dei simboli di quella che allora era la modernità giapponese, la Torre di Tokyo, inaugurata un paio di anni prima è che qui è perfetto emblema di tutte quelle inquadrature esterne con le quali Ozu ha puntellato e messo in pausa per qualche istante le narrazioni di tutti i suoi film del periodo. È il primo segnale di continuità con quanto fatto dal regista negli anni e nei film precedenti; dal punto di vista stilistico infatti non si notano evoluzioni significative se non un perfezionismo formale sempre più sicuro e marcato, acuito anche dall’uso del colore a impreziosire costumi, arredi e scenografie. Come sempre la gestione delle situazioni è ammantata da una serenità che anche nel conflitto porta sempre a una risoluzione pacifica, visione forse indotta dalle tragedie che i giapponesi hanno vissuto sulla loro pelle a causa dei conflitti, conflitti che ora giustamente tendono a evitare, anche nel quotidiano, dando sempre più spazio ai punti di vista e ai desideri delle generazioni più giovani, forse più aperte e pronte per il mondo che giorno dopo giorno, anche in Giappone, si sta costruendo. In questo senso non mancano le vedute su stradine che ci sembra di aver già visto e che presentano sempre più insegne dai caratteri occidentali, segno di forte mutamento, si cita Elvis, si vedono comparire prodotti esteri. In un periodo storico in cui il Paese affrontava proteste, tumulti e la nascita di un nuovo cinema Ozu non manca di guardare al passato attraverso la solita onda nostalgica, attraverso i ricordi di gioventù dei tre amici ad esempio, nel ritornare al loro amore per Akiko, nell’omaggio all’amico scomparso, tutto sempre con un tono lieve, talvolta anche comico e disteso (la cerimonia del ricordo di Miwa è tutt’altro che triste, si scherza, si ride). Sono presenti anche i conflitti sul matrimonio, tema principe per Ozu, e questi sono diversi: contrasto tra matrimonio combinato e matrimonio d’amore, le seconde nozze viste come tradimento al precedente marito defunto, la paura del matrimonio come chiusura verso altri affetti e via di questo passo, tutti elementi dettati forse dal fatto che il regista non si sposò mai e preferì vivere con la madre fino alla fine della sua esistenza, scelta che potrebbe aver provocato in Ozu rimpianti e ripensamenti. C’è molto di privato nei film di Ozu ma c’è anche molto di pubblico, di universale, a dimostrazione di ciò il fatto che il cinema del maestro sia ancora apprezzato e godibile anche ai giorni nostri.

giovedì 17 luglio 2025

UNSANE

(di Steven Soderbergh, 2018)

Steven Soderbergh non è nuovo alle sperimentazioni, ai cambi di registro né alla centralità dei ruoli femminili all'interno delle sue storie. In merito a quest’ultimo aspetto si pensi alla battagliera Erin Brockovich interpretata da Julia Roberts, giovane segretaria di uno studio legale che si batte contro il potere dell’azienda inquinante Pacific Gas and Electric Company, o alla tostissima Gina Carano nell’action Knockout. Per questo Unsane, film del 2018, Soderbergh ci presenta una donna vittima di stalking (e quindi, purtroppo, anche dei nostri tempi), una donna la cui sanità mentale vacilla e i cui comportamenti inizieranno a provocarle parecchie noie. Soderbergh ibrida quello che potrebbe essere un dramma moderno sulla difficile situazione che vivono tante donne, con il thriller psicologico e in parte con il film di denuncia, mettendo sotto accusa il sistema di sostegno sanitario e il relativo funzionamento legato alle coperture assicurative, prassi ormai obbligatoria negli U.S.A. se si vuole sperare in un minimo di cure in caso di malesseri fisici o mentali. Per quanto riguarda la voglia di continuare a sperimentare con il mezzo “cinema” Soderbergh sembra essere uno di quei registi mai appagati, sempre curiosi di spingersi un po’ più in là e di provare qualcosa di nuovo. Unsane è infatti realizzato completamente usando un comune IPhone 7 Plus e mettendo a budget un costo complessivo di circa un milione e mezzo di dollari, per un ritorno che alla fine ha sorpassato i quattordici milioni di dollari, cifra che in virtù della spesa e delle ambizioni del film è un risultato di tutto rispetto.

Sawyer Valentini (Claire Foy) è una giovane donna che lavora per una grande compagnia in ambito finanziario. Sawyer non sembra del tutto serena sul posto di lavoro, nella relazione con la madre né nei rapporti con l’altro sesso che si riducono a incontri fugaci e occasionali, magari mandati a monte dalle ossessioni della stessa Sawyer. Il malessere della donna deriva dal fatto di essersi dovuta trasferire da un’altra città per sfuggire a uno stalker che la perseguitava. Scossa e turbata, Sawyer affronta momenti di crisi che la destabilizzano, proprio per questo motivo decide di chiedere aiuto a un centro medico specializzato nella speranza di ottenere sollievo per la sua delicata situazione mentale. Dopo un rapido consulto con il personale della clinica, a Sawyer vengono fatti firmare alcuni moduli e le viene imposto un ricovero di 24 ore al quale lei non ha dato alcun consenso. Con quelle firme estorte e la copertura sanitaria attiva, la clinica si sente autorizzata a non rilasciare Sawyer, motivando la decisione con l’instabilità della donna, una tesi che sembra confermata quando Sawyer, spaventata, reagisce con veemenza al ricovero forzato. Come ciliegina sulla torta, rassegnata a passare queste 24 ore in clinica (che diverranno molte di più), tra il personale infermieristico Sawyer sembra riconoscere David Strine (Joshua Leonard), lo stalker dal quale è fuggita nella sua città d’origine.

Soderbergh, che ancora una volta si dimostra regista intelligente, riesce a lavorare su forma, sostanza e genere in maniera davvero felice. L’esperimento del costruire un intero film affidandosi completamente ad un IPhone sembra riuscito in toto: i colori spinti, come fossero filtrati, del blu della foresta e della prevalenza gialla in ospedale contribuiscono, insieme alle inquadrature mobili e ai piani ravvicinati, a creare il giusto grado di tensione che va a giovare anche alla tenuta del genere, quel thriller psicologico che richiede una buona dosa di ambiguità e di incertezza che è qui ben presente, soprattutto nella prima parte di Unsane, e che torna a far capolino a più riprese sino al finale che, come da tradizione, instilla ancora l’ultimo dubbio nello spettatore. Forma, genere (e quindi intrattenimento) ma anche contenuto, anzi contenuti, con un doppia possibilità di riflessione, la prima sul versante psicologico di una protagonista che sembra poco a poco cadere a pezzi a causa di uno dei grandi temi dei nostri giorni (la violenza sulle donne), la seconda su un sistema corrotto che costringe al ricovero pazienti che magari non ne avrebbero necessità, il tutto per  attingere alle coperture assicurative degli stessi massimizzando i profitti per la struttura ospitante. In fondo è pur sempre la cara vecchia America. Resa in maniera egregia, grazie anche all’interpretazione di un'indovinata Claire Foy, la condizione instabile della protagonista che si porta sulle spalle un trauma che appare irreversibile, aggravato dalla mancanza di ascolto a cui la donna si trova di fronte, gli unici consigli che le vengono dati (il cameo di Matt Damon) sono quelli che prevedono la cancellazione di tutta la sua vita social e sociale. Non tutto è perfetto (Strine, se è davvero lui, come ha fatto a farsi assumere in ospedale?), non tutto è chiarificato (alcuni dubbi restano, e questo è un bene), però visto il budget e i mezzi tecnici adoperati Soderbergh riesce a chiudere e portarsi a casa un altro buon film, vera dimostrazione che anche con poco le cose buone e valide si possono comunque costruire.

lunedì 14 luglio 2025

UNA STELLA DI NOME HENRY

(A star called Henry di Roddy Doyle, 1999)

Rispetto ad altre opere precedenti scritte da Roddy Doyle, la storia del protagonista di Una stella di nome Henry, Henry Smart, incontra la Storia con la maiuscola, con più precisione quella fetta di Storia che nei primissimi decenni del 1900 vede nascere i movimenti indipendentisti sorti dal malcontento di parte delle genti d’Irlanda nei confronti di quello che la popolazione vedeva come l’invasore inglese. Se in alcuni dei titoli più celebri dell’autore irlandese le vicende narrate vivevano di una dimensione più familiare, di vicinato, “di quartiere” se vogliamo, in quest’opera, nata probabilmente con un’ambizione diversa rispetto ad altre, le vicende del protagonista incrociano quelle di gente come James Connolly, uno tra i principali fautori della Rivolta di Pasqua del 1916, fino ad arrivare all’ancor più celebre Michael Collins, la figura più in vista ed elemento fondamentale della guerra civile irlandese. Doyle sembra qui abbandonare, almeno in parte, l’ironia domestica e il tono colloquiale che caratterizzavano opere come Bella famiglia o Paddy Clarke ah ah ah!, per cimentarsi con una narrazione più epica e in qualche modo più densa. È questo solo il primo passo dello scrittore nato a Dublino del suo racconto sulla storia recente del suo Paese, una narrazione che riprenderà in mano successivamente con Una faccia già vista del 2004 e ancora con Una vita da eroe, romanzo del 2010.

Sono diversi gli Henry Smart protagonisti di questo Una stella di nome Henry. Il primo in ordine di tempo è un uomo menomato con una gamba di legno sulla perdita della quale ha l’abitudine di cucire storie sempre diverse, una sorta di scherzo prolungato con il quale allieterà le giornate di sua moglie Melody e quelle di suo figlio Henry, proprio l’Henry Smart che diverrà il protagonista principale di questo libro. Ma tra questi due Henry, meno presente nel romanzo ma con un posto inamovibile nella mente e nel cuore della povera Melody, c’è stato un terzo Henry, quello che diverrà la stella che compare nel titolo del libro. Siamo nei primi anni del secolo, l’Irlanda è un Paese molto povero, alcune zone di Dublino (molte in realtà) possono sembrare dei veri e propri gironi infernali tra miseria, sporcizia, dolore, povertà, delinquenti, prostitute, fame e soprattutto malattie. Sembra che tutta Dublino abbia la tosse o abbia comunque un motivo più che valido per soffrire. Non è raro che i bambini nati da poco muoiano; è questa la sorte toccata a quello che per il “nostro” Henry sarebbe stato un fratello maggiore, un fratello che la madre Melody idealizza a tal punto tanto da averne trasformato il ricordo in una stella che ogni notte brilla lassù nel cielo. Ma per il nostro Henry e per quello che sarà il suo fratellino minore Victor, nascerà presto la necessità di lottare con le asperità della vita, il bisogno di trovare un modo per mangiare e sopravvivere con un padre non sempre presente, buttafuori nel bordello di Dolly Oblong, assassino su commissione, e una madre ormai partita per la tangente. Nonostante le condizioni di vita miserevoli e la sua famiglia d’origine tutt’altro che esemplare, Henry riuscirà comunque a crescere forte e sano, tanto da avere una parte importante nelle vicende legate allo sviluppo dell’indipendenza del suo Paese, un’indipendenza alla quale Henry forse non tiene nemmeno poi così tanto.

Una stella di nome Henry rappresenta per Roddy Doyle un cambio di passo rispetto alle sue opere precedenti: l’ironia brillante e il ritmo frizzante lasciano spazio a una narrazione più compatta, più densa e decisamente meno leggera, un cambio di passo che il lettore avverte di fronte alla minor immediatezza del testo. Il romanzo si carica di un peso storico e umano che rende la lettura meno scanzonata e più impegnativa. Henry non è il protagonista spumeggiante delle commedie di Doyle; pur non mancando momenti di distensione più leggera Doyle mette in evidenza quanto la scelta rivoluzionaria sia non tanto una liberazione delle genti d’Irlanda dall’oppressore inglese quanto piuttosto una sorta di cambio di padrone, perché se sulla carta quello della rivoluzione è un concetto bello e popolare, nella realtà c’è pur sempre da mandare avanti un Paese e soddisfare le richieste di benessere di quei capi della rivoluzione che, a giochi fatti, iniziano a pensare che la detenzione del potere non è poi così male. Spietata la visione dei rivoluzionari come provocatori, pronti ad alimentare la risposta inglese, a costo di vite irlandesi, pur di mettere in cattiva luce l’esercito avversario agli occhi dell’opinione pubblica. Nel mezzo le storie personali di Henry che è un bel ragazzone grande e robusto e che piace molto alle donne, a partire da quella signorina O’Shea che in gioventù fu per un brevissimo tempo la sua maestra elementare. Una stella di nome Henry è un romanzo disilluso, meno lieve ma più ambizioso di altre opere di Doyle, uno scritto onesto che non esalta le storture rivoluzionarie di un movimento nato magari per fini nobili, per perseguire un sogno giusto e poi, come tante cose di questo mondo, corrotto nel momento della sua realizzazione.

sabato 12 luglio 2025

MEMORIA

(di Apichatpong Weerasethakul, 2021)

Con Memoria il regista thailandese Apichatpong Weerasethakul lascia per la prima volta il suo paese per girare un film in parte recitato in inglese e in parte in spagnolo. Il cambiamento di location, siamo a Bogotà in Colombia, non altera la visione e l’approccio al cinema del regista di Bangkok come è capitato in passato ad altri suoi colleghi (per citarne uno si pensi all’Hirokazu Kore’eda de Le verità). L’opera di Weerasethakul continua a essere un’esperienza sensoriale, un viaggio nelle possibilità, in quello che può essere relegato al campo dell’inconoscibile, un avvicinarsi a ciò che non si può comprendere e spiegare ma che forse, in determinati momenti e a certune condizioni, si può riuscire a sentire, a lambire e infine, se si è fortunati, ad accettare. Quella dell’accettazione e dell’abbandono all’esperienza, tutt’altro che semplice peraltro, è la condizione minima che viene richiesta per poter apprezzare il cinema di Weerasethakul, un cinema che non vi verrà a cercare per raccontarvi una storia ma al quale voi, da spettatori, dovete andare incontro per vivere un’esperienza che, attenzione, potrà appagarvi o meno, la conclusione non è affatto scontata. A questo proposito chi vi scrive è uno di quelli che anni fa, al primo impatto con il lavoro del regista, non apprezzò la Palma d’oro Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti, forse il film più noto di Weerasethakul e del quale mi sono prefissato di affrontare nuovamente la visione, in quanto con le visioni di Memoria e ancor più del precedente Cemetery of splendour il giudizio sul cinema dell’autore thailandese è cambiato di parecchio. In meglio ovviamente.

Per Memoria, come per altri film di questo autore, non è cosi semplice sintetizzare una trama. La nostra protagonista, Jessica, interpretata da Tilda Swinton, è una floricoltrice che si reca a Bogotà per far visita a sua sorella malata. Una notte Jessica viene svegliata da uno strano rumore del quale non riuscirà a individuare la provenienza e che senza preavviso alcuno continuerà a ripresentarsi all’improvviso nei giorni a venire, inudibile alle orecchie degli altri. Questa esperienza priverà Jessica del sonno. Nei giorni seguenti, con l’aiuto di un tecnico del suono di nome Hernan (Juan Pablo Urrego), Jessica cerca di ricostruire con precisione quel suono misterioso. Nel frattempo sua sorella, ancora in un letto d’ospedale, le racconta un sogno che ha fatto su un cane poliziotto investito da un’auto; la sera tornando a casa Jessica ha un incontro con un cane che sembra seguirla. Tornata nello studio di registrazione a cercare Hernan la donna scopre che lì pare non aver mai lavorato nessuno con quel nome. Nel tentare di dare un senso a questi eventi misteriosi Jessica si reca in una zona forestale dove incontra un altro Hernan (Elkin Diaz), più vecchio del precedente, un pescatore e contadino che sembra essere in contatto con una percezione più amplia dell’esistenza, una sorta di vettore per ricordi ed esperienze con il quale Jessica sembra entrare in risonanza.

Qual è il senso di un’opera come Memoria? Difficile dirlo. Il senso ultimo, forse la lettura più semplice da dare ai temi e alla sensibilità di Weerasethakul, sostiene che ognuno di noi è solo una piccola parte di un qualcosa più grande, una piccola parte però interconnessa al resto, o almeno a parte di esso, in un modo per noi quasi sempre inspiegabile e ignoto. È questa una sorta di conoscenza, forse una verità per il regista, che si può solo arrivare ad accettare, magari lambendola e toccandola con mano (esperienza riservata solo ad alcuni), senza mai riuscire a capirla davvero fino in fondo. È un mistero il cinema di Apichatpong Weerasethakul, un mistero non sempre sostenuto dalla nostra distribuzione (Memoria è solo il secondo film su undici del regista ad arrivare nelle nostre sale), un mistero fatto di silenzi, di sequenze molto lunghe, di camera fissa e pochi movimenti di macchina, di sguardo sulla natura e sull’ambiente e di un’attenzione maniacale per le prospettive e per la costruzione delle inquadrature. Prendiamo come esempio la sequenza in cui Jessica torna a cercare Hernan e si trova in un corridoio con diversi vetri a specchio che ne duplicano l'immagine, struttura costruita perfettamente che casualmente, durante la personale visione di chi scrive, si rifletteva sullo specchio nero del mio cellulare poggiato sotto il video in cui passava il film raddoppiando ulteriormente lo straniamento della ripresa costruita da Weerasethakul, cosa che probabilmente non sarebbe successa con una sequenza meno studiata di quella in questione. Questo è solo un esempio ma il regista thailandese sembra non lasciare davvero nulla al caso. Torna anche il tema del "sonno" presente in diverse altre opere del regista, la mancanza del sonno, il sonno del vecchio Hernan che ricorda e in qualche modo condivide con Jessica ricordi di che cosa? Vite passate? Vite di altri? Inconscio collettivo? Realtà aliene come la sequenza finale potrebbe suggerire? A questo proposito occhio che tra i produttori compare anche Jia Zhangke, e chi conosce il suo cinema di elementi alieni ne sa qualcosa. La messa in discussione dell'ordinario, la comparsa del rumore misterioso, si propone con la messa in discussione delle abitudine (Jessica si trova in un altro Paese) e sembra potersi risolvere solo grazie all'incontro con l'altro (i due Hernan), solo il contatto con l'altro può portarci a una pacificazione, almeno alla serenità dell'accettazione se non proprio alla totale comprensione. È un cinema che esula dal nostro sentire quotidiano quello di Weerasethakul, che pone dubbi al nostro vivere ordinato, metodico e ripetitivo; e se ci fosse altro prima di noi e dopo di noi al quale abbiamo preso parte/parteciperemo senza averne ricordo o conoscenza? E se ci fosse altro nei nostri sonni? Nei nostri sogni? E se vivessimo altre vite dormendo? Se invece il ricordo in qualche modo ci limitasse e ci impedisse di cambiare? Domande affascinanti da un cinema ostico e abbordabile solo per chi porta a ogni visione la curiosità della scoperta, di qualcosa di nuovo, di qualcosa di diverso.

mercoledì 9 luglio 2025

L’INFERNALE QUINLAN

(Touch of evil di Orson Welles, 1958)

L’infernale Quinlan, uno dei capi d’opera di Orson Welles, si apre sulle musiche di un ispirato Henry Mancini e con un famoso piano sequenza che occupa i primi tre minuti e rotti del film. Siamo in una cittadina di confine tra Messico e Stati Uniti, lato messicano per la precisione. La mano di un uomo punta un timer montato su alcuni candelotti di dinamite. Alle sue spalle si ode una risata femminile, la camera fa un movimento repentino e inquadra una coppia a piedi che presto scompare alla vista dietro un fabbricato. Sull’altro lato l’uomo, di corsa, raggiunge un’auto parcheggiata, ne apre il cofano e nasconde l’ordigno. La camera si alza, la coppia prende l’auto e si immette in strada, la camera si sposta in posizione frontale, ci mostra l’avanzare dell’auto, il traffico in strada, gli incroci, a uno di questi la camera abbandona l’auto per seguire un’altra coppia a piedi, un uomo distinto e una bella donna, sembrano molto affiatati, all’incrocio successivo i due superano l’auto di prima bloccata da un gruppo di capre, tutti gli elementi si muovono ora in parallelo nel traffico, arrivano finalmente al posto di controllo sul confine. Qui i funzionari messicani riconoscono nell’uomo il signor Vargas, noto esponente delle forze dell’ordine locali, con la sua neo sposa: chiacchiere cordiali, commenti sulla famiglia di criminali dei Grandes, poi anche la coppia seduta in auto chiede di poter passare il confine mentre la donna, inascoltata, afferma di sentire un ticchettio nella testa. La camera torna sui Vargas che amoreggiano, qui arriva il primo stacco, un botto e vediamo l’automobile di prima che in fiamme ripiomba a terra dopo l’esplosione. Questa sequenza d’apertura, tanto efficace quanto elegante, ci introduce nel migliore dei modi a quello che sarà non solo un ottimo film di genere ma anche una lezione su come possa mostrarsi grandiosa una regia e su come cesellare i caratteri dei personaggi, il Quinlan del titolo su tutti.

Dopo la sequenza sopra descritta viene coinvolta anche la polizia statunitense, d’altronde l’auto esplode in territorio yankee, e così che si farà carico dell’indagine il capitano Hank Quinlan (Orson Welles) con l’assistenza di Vargas (Charlton Heston) il quale vede sfumare la sua luna di miele con la giovane e bella moglie Susan (Janet Leigh). Nel frattempo altri grattacapi arrivano a preoccupare Vargas; la famiglia Grandes, nella persona di Joe Grandes in primis (Akim Tamiroff), cerca vendetta sul poliziotto messicano colpevole di aver fatto incarcerare il fratello di Joe, l’obiettivo delle ritorsioni da parte della famiglia di delinquenti sarà purtroppo la giovane Susan. Nel frattempo Quinlan trova un sospettato sul quale inizia ad accanirsi senza avere in mano prove certe della sua colpevolezza; è proprio durante l’indagine che Vargas, una sorta di osservatore privilegiato, si rende conto che i metodi del collega statunitense non sono del tutto leciti e inizia a sospettare che dietro la faccenda si nasconda del losco. Intanto la situazione di Susan, in attesa che il marito sbrogli la matassa innescata dall’esplosione, si complica sempre più fino a quando le trame tessute dei vari personaggi non si incroceranno in maniera piuttosto tragica.

Ne L’infernale Quinlan Orson Welles si dimostra un gigante sia dietro che davanti la macchina da presa (e non solo metaforicamente); il protagonista che mette in scena è quanto di più ambivalente si possa trovare nel cinema di quegli anni: un corrotto, una rappresentazione del male convinta di agire nel giusto, almeno in una certa qual misura, eppure un uomo solo, legato ad un vecchio amore e al personaggio di Tanya, tenutaria di un bordello interpretata con sguardo magnetico da una Marlene Dietrich che quando è in campo riempie la scena, un uomo che porta sulle spalle il senso di colpa schiacciante per non aver assicurato alla giustizia l’omicida di sua moglie, Quinlan è un poliziotto piegato, imbolsito traviato. Il protagonista è ben immerso in un ambiente che fa con lui il giusto paio: le scene notturne, il buio sono tanto minacciosi quanto gli interni in ombra e alcuni dei coprotagonisti (tutti i Grandes), il capofila dei quali è caricato anche di una figura grottesca in contrapposizione (o a compendio) della sua interessata malvagità. Il senso di minaccia incombente è acuito dalle scelte stilistiche di Welles che con inquadrature sghembe, prospettive distorte (riprese dal basso), grandangoli e uso frequente della profondità di campo riesce a donare dinamismo e atmosfera a un film di ineccepibile fattura. La luce (o la mancanza di essa), la gestione degli spazi (spesso riempiti da Welles), il bianco e nero espressionista, il cast di gran levatura, le sequenze di apertura e chiusura, tutto contribuisce a rendere L’infernale Quinlan un episodio memorabile del genere noir e del cinema degli anni Cinquanta che anticipa in qualche modo il cinema moderno a venire.

domenica 6 luglio 2025

BUON GIORNO

(Ohayo di Yasujirō Ozu, 1959)

Dopo aver sperimentato con l’avvento del colore l’anno precedente, nel 1959 Yasujirō Ozu torna in qualche modo al proprio passato confezionando una divertente commedia che scombina un poco le carte del suo cinema più recente andando a ripescare un suo lavoro risalente all’epoca del muto (Sono nato, ma… del 1932). Con questo Buon giorno Ozu crea una sorta di remake della sua vecchia opera, almeno in maniera parziale. In realtà lo spunto che qui viene riproposto è la centralità di due bambini in veste di protagonisti che in qualche modo si ribellano all’autorità dei genitori. Se in Sono nato, ma… il motivo della contesa era un comportamento del padre da loro ritenuto umiliante, cosa che scatenava nei pargoli addirittura uno sciopero della fame, in Buon giorno la pietra dello scandalo è molto più venale: i due giovani pretendono infatti l’acquisto da parte dei genitori di un apparecchio televisivo, il rifiuto del quale porta i due ragazzi ad assumere un totale mutismo, non solo nei confronti della famiglia ma in opposizione alla società degli adulti nel suo complesso (insegnanti, vicini di casa, conoscenti). Seppur nei film precedenti, con riferimento a quelli di fine anni 40 e decennio successivo, i toni della commedia facevano capolino di quando in quando, qui l’adesione al genere si fa decisamente più spazio andando a presentare in questo Buon giorno elementi di commedia classica, umorismo scatologico, commedia degli equivoci e tutta quella gamma di situazioni divertenti innescate dalla presenza dei bambini che in Ozu ancora non si era vista in maniera così marcata (rimanendo nel periodo preso in esame dalla retrospettiva presente su Raiplay). È questo un alleggerimento dei toni, peraltro sempre sereni, che non impedisce al regista giapponese di occuparsi come sempre di alcuni dei temi a lui cari come il confronto tra generazioni, l’occidentalizzazione del Paese, l’avvento della modernità e via discorrendo.

Tokyo, quartiere residenziale periferico con case tutte uguali, qui vive la famiglia Hayashi composta da papà Keitarō (Chishū Ryū), mamma Tamiko (Kuniko Miyake) e dai due bambini Minoru (Kōji Shitara) e Isamu (Masahiko Shimazu). I due ragazzini frequentano altri amici del vicinato, si trovano per andare a scuola tutti insieme, si intrattengono con esibizioni proprie dell’età, flatulenze, riti goliardici, troppo spesso saltano qualche lezione per andare a guardare gli incontri di sumo sfruttando una delle prime televisioni arrivate nel quartiere a casa della signora Midori (Kyōko Izumi). Dopo essere stati ripresi per aver saltato le lezioni del professor Fukui (Keiji Sada) i due ragazzi si mettono in testa di volere una televisione tutta per loro, così non saranno costretti ad andare dalla vicina a guardarla, ma mamma Tamiko non è affatto dell’idea nonostante la società dei consumi stia prendendo sempre più piede anche in Giappone con il diffondersi nelle case di lavatrici, aspirapolvere, televisioni. Dopo i primi rifiuti da parte dei genitori il maggiore dei due fratelli, Minoru, decide di iniziare uno sciopero delle comunicazioni, chiudendosi in uno sdegnato silenzio seguito a ruota dal piccolo Isamu che istituisce una specie di segnale per poter parlare almeno con il fratello. La situazione si sbloccherà solo dopo che i due bambini si allontaneranno da casa per un certo periodo di tempo.

Buon giorno è una commedia leggera e divertente che poggia su quella grazia che da sempre contraddistingue il cinema di Ozu. Anche negli episodi scatologici legati alla passione dei ragazzini presenti nel film per le scoregge, la narrazione rimane sempre elegante e non scade mai nel triviale al quale molte commedie più recenti ci hanno abituati. Inoltre la scelta del mutismo adottata dai due protagonisti genera nelle signore del vicinato una serie di equivoche incomprensioni che danno vita a un sottogenere della commedia, quella degli equivoci appunto, spesso frequentato dagli americani e che anche qui riesce a creare dei siparietti divertenti basati su alcuni piccoli fraintendimenti che le protagoniste alimentano a inizio del film (questioni di soldi, pagamenti apparentemente non effettuati e cose del genere). Tutte le sequenze comiche sono supportate con estro perfetto dalla scelta delle musiche di accompagnamento di Toshirō Mayuzumi che con particolare efficacia sottolineano e amplificano i passaggi divertenti del film. Intorno alla vicenda legata alla televisione si innestano anche le storie del vicinato: le sortite del venditore ambulante, la gestione del club delle signore, l’amore non esplicitato tra il maestro e Setsuko (Yoshiki Kuga), il vicino sempre ubriaco (vizio proprio anche di Ozu), un affresco che contribuisce a rendere più vivace la narrazione. Scelto il tono lieve e umoristico, Ozu non rinuncia a riflettere sul suo presente, sotto i riflettori i rapporti tra generazioni, con due bambini che non hanno più quel rispetto timoroso verso i genitori che apparteneva alle generazioni precedenti, di contro i genitori, pur se con qualche ritrosia, sono più propensi a viziare i propri pargoli. Interessante anche il discorso sulla comunicazione, nell’azzerarla i due bambini rinfacciano ai genitori la vacuità di molte loro formule di cortesia, quel parlare degli adulti senza dirsi nulla di davvero significativo e sincero, tema ripreso anche dalla reticenza del maestro Fukui e di Setsuko nel confessarsi il loro reciproco amore. Lampante il focus sul consumismo e su una società sempre più volta al capitale della quale la questione sulla televisione è solo uno dei simboli che ne rappresentano il cambiamento. Le scelte di stile rispecchiano ciò che già abbiamo visto nei precedenti film di Ozu: la telecamera ad altezza tatami, avendo qui per protagonisti dei bambini, è semplicemente perfetta, la gestione dei movimenti degli attori nelle sequenze iniziali (quelle con la sopraelevata) dettano il ritmo sereno e studiato che accompagnerà tutto il film, così come fanno i già noti stacchi tra interni (con le sequenze vivaci) e gli esterni (momenti di “riposo”). Nonostante il cambio di genere si può quindi ammirare comunque un “classico” di Ozu, magari ancor più leggero del solito ma affatto privo di interessanti spunti di riflessione.

mercoledì 2 luglio 2025

LA STANZA ACCANTO

(The room next door di Pedro Almodóvar, 2024)

La stanza accanto è al momento l’ultimo lungometraggio della lunga carriera del regista spagnolo Pedro Almodóvar che a oggi conta ben ventiquattro titoli in filmografia. È chiara la differenza di approccio alla settima arte che passa tra la vivacità trasgressiva degli esordi e quest’opera decisamente più ragionata, pensata, messa in scena con ordine geometrico, in alcuni passaggi definibile anche come “fredda” se non fosse per i temi trattati, spinosi e tutti da regolamentare, e per la presenza carismatica di due attrici di peso a offrire, in particolar modo per quel che riguarda la Swinton, un’interpretazione di quelle capaci di portare valore aggiunto a un’opera. Per il suo primo film girato in inglese un Almodóvar newyorkese sceglie di adattare il romanzo Attraverso la vita della statunitense Sigrid Nunez, una fonte letteraria che si percepisce in maniera distinta in diversi momenti di questo La stanza accanto nel quale aleggia un sentore di “carta stampata” che dà l’impressione che il film sia fatto tanto d’inchiostro quanto di immagini in movimento, una vicinanza a un’idea di cultura propria del regista e reiterata nelle citazioni dal Gente di Dublino di Joyce e che si amplia con la presenza del cinema (Viaggio in Italia di Rossellini, Buster Keaton sul finale), dell’arte, con il dipinto di Edward Hopper Gente al sole e la biografia sulla pittrice Dora Carrington che il personaggio interpretato dalla Moore ha intenzione di scrivere. Almodóvar sembra guardare anche a un cinema diverso dal suo con una storia nella storia, presentata per brevi passaggi, come quella del padre di Martha, reduce traumatizzato dal Vietnam e poi morto da eroe per salvare i suoi fantasmi inesistenti. Sono molteplici gli elementi a ruotare attorno a questa storia che ci parla di morte.

Durante la presentazione del suo ultimo libro alla libreria Rizzoli di New York (luogo molto cinematografico), la scrittrice Ingrid Parker (Julianne Moore) incontra una vecchia conoscenza che le comunica che la loro amica comune Martha Hunt (Tilda Swinton) sta combattendo da qualche tempo con un cancro alla cervice che sembra non lasciarle molte possibilità di guarigione. Ingrid si reca così in ospedale per passare un po’ di tempo con Martha e riallacciare un rapporto perso ormai da diverso tempo. Nella sua vita Martha è stata lontana per anni, giornalista e inviata di guerra è sopravvissuta a molte situazioni pericolose e si trova a dover affrontare ora la più pericolosa di tutte, una minaccia che arriva dai capricci del proprio corpo. Dopo un graduale riavvicinamento, sessioni di confidenze tra le due donne, ricordi di uomini “condivisi” come il Damian Cunningham (John Turturro) che Ingrid ancora vede ogni tanto, e riflessioni sul cattivo modello di madre che Martha probabilmente è stata, ecco arrivare la ferale richiesta. Appurato che probabilmente non uscirà viva dall’esperienza, che le cure sperimentali alle quali si sta sottoponendo non stanno funzionando, Martha chiede a Ingrid di accompagnarla nel suo ultimo viaggio, un soggiorno tranquillo in una casa moderna immersa nel verde, non lontana dalla civiltà, dove la donna ha deciso di togliersi la vita (illegalmente) ingerendo una pillola acquistata sul dark web. Martha chiede all’amica di stare con lei per qualche giorno, un mese al massimo, di stare nella stanza accanto alla sua, Martha ha il desiderio di non morire completamente sola; Ingrid, donna timorosa della morte, non è entusiasta dell’idea, come potrebbe?, però è forse l’unica persona al mondo che potrebbe esaudire l’ultimo desiderio della sua vecchia amica.

Come già detto Almodóvar confeziona un film molto formale, misurato, pensato, finanche algido nonostante la presenza di colori pastello, anche accesi (in contrasto con la locandina monocroma), che non restituiscono mai però la sensazione di calore, anche perché le situazioni descritte forse non lo consentono. Perché, volente o nolente, trattasi comunque di un film funereo nei temi, anche se non nell’approccio vitale in più di un passaggio, la citazione da Joyce in fondo parla chiaro: “E l’anima gli si velava a poco a poco mentre ascoltava la neve che calava lieve su tutto l’universo, che calava lieve, come a segnare la loro ultima ora, su tutti i vivi e i morti”. Almodóvar, grazie al rapporto tra le due donne, alla forza d’animo di Martha, una donna che ne ha viste tante e che proprio per questo non vorrebbe morire, cesella i momenti che precedono l’inevitabile passaggio con grande dignità e grazia, con una delicatezza che a volte chiederebbe maggior struggimento ma che diventa sintomo di una comprensione del dolore e del destino che ci attende realmente sentita. Quello che si potrebbe rimproverare a La stanza accanto è la scelta di non ricercare mai una forte emotività, cosa che di per sé potrebbe non essere nemmeno sbagliata, come se lo spettatore, di fronte a temi così importanti, dovesse cercare dentro di sé il giusto approccio a questa storia personale e alla materia. Il film va poi fuori fuoco su alcuni elementi: il personaggio di Turturro (un po’ sprecato) sembra non troppo approfondito, ci si sofferma poco su riflessioni non di poco conto come l’aspetto ancora illegale dell’eutanasia e dai protagonisti forse poco affrontato e dibattuto, le stoccate al capitale, alla questione ambientale, tutte sacrosante, lasciano un po’ il tempo che trovano, sono offerte allo spettatore e poi abbandonate. Film non perfetto quindi, un po’ troppo “preciso” nel cuore della storia, comunque efficace nel rapporto tra queste due donne e tra la vita e la morte incombente, da vedere e giudicare secondo la propria sensibilità.

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