giovedì 23 maggio 2019

BLACKkKLANSMAN

(di Spike Lee, 2018)

Spike Lee torna sotto i riflettori dopo diversi anni che lo hanno visto impegnato in lavori che almeno qui da noi non hanno attirato l'attenzione del grande pubblico: un pugno di progetti passati sotto silenzio, lo scarso entusiasmo per Miracolo a Sant'anna e per il remake di Old boy, se poi consideriamo che il valido Inside man è stato per Lee un film poco personale seppur riuscito, per rintracciare il graffio dell'alfiere del Popolo Nero ci tocca tornare al 2002, anno di uscita de La 25a Ora; certo Lee è stato impegnato in un sacco di altre cose nel frattempo (documentari, televisione), ciò non toglie che il salto nel passato alla ricerca di qualcosa di realmente importante non sia proprio un salto da poco. Nonostante Blackkklansman non si possa considerare tutta farina del sacco di Lee e la sceneggiatura (vincitrice del premio Oscar) non sia originale ma tratta dal libro scritto dallo stesso protagonista della vicenda, i temi sono quelli da sempre cari al regista di Atlanta e la costruzione del film è studiata per appagare palati di diverso tipo. Il film non è perfetto e risulta incline a qualche calo di ritmo, ma la percezione che si ha lungo le due ore di visione è quella di un regista tornato finalmente ad alti livelli con un progetto di primissimo piano.

Il materiale offerto dalla vera e incredibile storia di Ron Stallworth (qui interpretato da John David Washington, figlio di Denzel) è di quello nel quale Spike Lee può sguazzare a suo piacimento per cercare di modellarlo al meglio e ottenere qualcosa che porti ben evidente il suo marchio di fabbrica. Si torna agli anni 70, al movimento delle Pantere Nere e a un'America schifosamente razzista che ricorda molto da vicino quella odierna, soprattutto quella dell'era Trump (non che con Obama le cose andassero tanto meglio per le minoranze), un parallelo che Lee con la sua caustica ironia non manca di sottolineare. Ron Stallworth è il primo agente di polizia afroamericano in forza al dipartimento di Colorado Spring. Primo incarico in archivio, vita con i colleghi non troppo facile, il razzismo viene fuori in maniera evidente e Stallworth incassa: "negro", "rospo" e via di questo passo. Lo step successivo è quello di agente in incognito con il compito di spiare proprio i fratelli neri, sotto copertura a un convegno del leader Kwame Ture (Corey Hawkins), Ron incontra l'attivista Patrice Dumas (Laura Harrier) con la quale inizierà una relazione sentimentale. Ancora avanti: l'intelligence. Ron si adopera per ottenere informazioni sulle cellule locali del Ku Klux Klan, stringe un legame con il presidente della sezione di zona fingendosi a telefono un suprematista bianco; segue una proposta di incontro al quale Ron non potrà presentarsi data la sua bella faccia nera, ragion per cui sarà il collega bianco e vagamente ebreo Flip Zimmermann (Adam Driver) a dover interpretare questa sorta di controfigura di Ron, prendendosi tutti i rischi del caso e lavorando sulla voce e sul linguaggio per risultare il più credibile possibile. Con questo espediente la squadra cercherà di arrivare a David Duke (Topher Grace), Gran Maestro del Klan.


Quello di Stallworth è un bel personaggio, combattuto tra il suo retaggio nero e il conseguente desiderio di un'esistenza egualitaria per la sua razza, e il ruolo di tutore dell'ordine (in un dipartimento molto bianco) contrario a ogni forma di protesta violenta. Il protagonista si muove all'interno di una ricostruzione dei 70 decisamente riuscita, Spike Lee fa ottimo uso della musica d'epoca andando a pescare suoni che molto ricordano le pellicole del filone blaxploitation, una corrente cinematografica verso la quale il regista avrà sicuramente uno sguardo critico (Cinema ai neri, sì, ma i soldi veri ai bianchi) e che invece è stata valorizzata da altri nomi, Tarantino ad esempio, che nel film di genere, blaxploitation inclusa, ha sempre trovato sollazzo. In maniera molto ironica anche Lee gioca con l'argomento, e quindi citazioni di Shaft, Coffy, Cleopatra Jones, Superfly e di vere e proprie icone nere d'epoca come Pam Grier, non a caso rilanciata in epoca più recente proprio da Quentin Tarantino (la Grier è niente meno che la Jackie Brown nell'omonimo film). Il tono, nonostante i temi siano più che seri, rimane sempre ironico e divertito, i membri del Klan sono dipinti come degli idioti totali e anche nei momenti più tesi che comunque non mancano, il livello di drammaticità non arriva mai alle stelle. È sul finale che Lee assesta il pugno allo stomaco dello spettatore, perché i suoi film sono volti ad aprire occhi e coscienze, e allora il passato si confonde con il presente, la narrazione con la storia recente e, ancora una volta, tutta la nostra pochezza è sotto gli occhi di tutti, in maniera semplice e incontestabile. È inutile nascondersi dietro un dito, Blackkklansman è un film divertente, pieno di quell'ironia bastarda che Spike Lee maneggia con grande maestria, il fatto, e Lee ce lo dice a gran voce, è che non c'è davvero più niente da ridere.

4 commenti:

  1. Poco da aggiungere, grande film. Si ride ma si resta anche interdetti da certi discorsi e certe scene.. sicuramente più che mai attuale!

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    1. Finalmente Spike Lee torna alla ribalta, io pian piano cercherò di recuperare anche le cose minori.

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  2. L'ho visto ieri e mi è piaciuto, ma non dico altro, dirò tutto quando lo recensirò ;)

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