(Happīawā di Ryūsuke Hamaguchi, 2015)
Happy hour è un film del 2015 distribuito in Italia con un certo ritardo e reso disponibile grazie al successo che il regista giapponese Ryūsuke Hamaguchi ha ottenuto un po' ovunque con il suo ultimo film, quel Drive my car che alla notte degli Oscar edizione 2022 vinse la statuetta come "miglior film straniero" piazzandosi davanti anche al nostro È stata la mano di Dio, meraviglia di Paolo Sorrentino. È una fortuna che alcuni premi festivalieri ci permettano di poter riscoprire opere del passato recente, magari ignorate fino alla premiazione di turno, occasione per portare questo o quel regista sotto i riflettori; nella fattispecie la possibilità di guardare questo Happy hour si trasforma anche nella possibilità di partecipare a un'esperienza visiva peculiare, che richiede tempo e pazienza ma che saprà ripagare lo spettatore capace di immergersi a pieno dentro un film, dentro una storia (o più storie come in questo caso) e finanche nei sentimenti di protagonisti che potrebbero essere per tutti noi dei conoscenti, degli amici, dei congiunti. Tempo e pazienza si diceva, ma anche impegno: Happy hour non è affatto un film difficile da seguire e comprendere, tutt'altro, la trama è lineare e affronta temi quotidiani che tutti conosciamo anche se magari non li abbiamo toccati con mano in prima persona (il divorzio ad esempio); la narrazione di Hamaguchi si dipana però per più di cinque ore (317 minuti), cinque ore assolutamente non pesanti ma che richiedono un minimo di dedizione, non fosse altro che per la mera durata complessiva del film che è comunque diviso in più parti, scelta che può agevolare la visione su più giorni, un po' come se fosse una miniserie.Siamo a Kobe nel Giappone odierno, qui Hamaguchi ci racconta la quotidianità di quattro amiche, due si conoscono dalle scuole medie (Jun e Sakurako), le altre due si sono unite al gruppo più avanti, insieme formano una piccola compagnia di donne vicine ai quaranta piuttosto affiatata: Jun (Rira Kawamura) al momento è disoccupata e vive con il marito Kohei, un biologo, Sakurako (Hazuki Kikuchi) è una casalinga anch'essa sposata e madre di un figlio adolescente, completano il gruppo Akari (Sachie Tanaka), un'infermiera divorziata ora single e Fumi (Maiko Mihara) che gestisce uno spazio culturale dove si tengono diversi incontri e con il quale collabora anche suo marito Takuya, una sorta di piccolo editore. Proprio nello spazio di Fumi le altre tre amiche decidono di partecipare a un seminario tenuto dal giovane Ukai che farà lavorare l'intero gruppo sulle connessioni interpersonali e sull'equilibrio individuale partendo dalla gestione del proprio baricentro. Il seminario sarà l'occasione per le quattro amiche, e non solo per loro, di andare più in profondità nei loro sentimenti e tirare fuori sensazioni e situazioni ancora non dette. Per Jun arriverà così il momento giusto per confessare alle amiche di essere in causa con il marito per ottenere il divorzio, una rivelazione che scuoterà un po' lo status quo del gruppo, Akari ad esempio si sentirà tradita dal silenzio dell'amica su una fatto così importante, ma l'amicizia tra le quattro donne è salda e il momento di difficoltà di Jun, il suo comportamento e la sua risolutezza saranno il motore per esami di coscienza e mutamenti di prospettive all'interno dell'intero gruppo.
Se pensiamo a questo Happy hour in rapporto al posteriore Drive my car probabilmente più conosciuto qui in occidente, è possibile notare come alcuni elementi ritornino e vengano esplorati poi con maggior profondità nel film successivo: si pensi al rapporto tra i protagonisti e l'arte, qui presente per Fumi, per suo marito, in senso più ampio anche per il personaggio di Ukai o per la giovane scrittrice Kozue; in Drive my car per il protagonista Yūsuke. Torna inoltre il tema centrale del tradimento e quello dei rapporti interpersonali, sviluppati in entrambi i film con ritmi lenti e con una narrazione che si prende tutto il tempo necessario per arrivare al cuore delle questioni con naturalezza e senza strappi. L'elemento che invece sembra essere stato sovvertito è quello del rapporto tra silenzi e parole: se in Drive my car sono i primi a prevalere qui sono proprio le confessioni, i confronti, le aperture, i discorsi, a mutare prospettive ed equilibri interiori, mutamenti che si rifletteranno anche all'esterno nei rapporti tra i vari protagonisti. Se, come disse Hitchcock, "il cinema è la vita senza le parti noiose", la sensazione che si prova guardando un'opera estesa come Happy hour è che questo film sia la vita compresa anche di quelle parti che potenzialmente potrebbero essere noiose ma che Hamaguchi è capace di farti apprezzare e vivere insieme ai suoi protagonisti. L'esempio più lampante potrebbe essere la sequenza del seminario incentrato su equilibrio e baricentro; in un altro film si avrebbe un sunto di questo incontro al quale le protagoniste partecipano con in evidenza qualche momento saliente, qui invece si ha proprio l'impressione di partecipare all'intero incontro, cosa molto insolita per un film. Eppure tutto è naturale nella gestione dei tempi dilatati di Hamaguci, la sua regia asseconda il momento presente, le sue scelte amplificano oltre misura la sensazione di reale e autenticità richiesta da film di questo genere portando lo spettatore a vivere un'esperienza di visone non così comune nel cinema odierno; pur non essendo girato in tempo reale (il rapporto non è 1:1 tra il tempo di visione e quello del racconto) si ha la sensazione di seguire appieno la vita di queste quattro donne interpretate meravigliosamente dalle quattro attrici che, anche questa cosa insolita, hanno vinto il Pardo d'oro al Festival di Locarno per la migliore interpretazione femminile tutte insieme, come collettivo. Un film molto significativo che arriva da un regista ancora giovane, con uno sguardo personale molto interessante, graziato da momenti di grande profondità e interpretazioni di ottimo livello; ogni tanto è richiesto un po' di impegno anche nel farsi un regalo. Fatevelo se potete.
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