(di Roberto Andò, 2013)
Portare la politica sul grande schermo non dev'essere facile, Roberto Andò lo fa con grazia lieve ricorrendo all'espediente narrativo del doppio, approccio sicuramente poco originale e risaputo che il regista però riesce a gestire nel migliore dei modi. E il migliore dei modi in questo caso porta il nome di Toni Servillo, attore che da solo è in grado di innalzare di qualche gradino il livello medio del cinema italiano, qui aiutato dall'ottimo lavoro effettuato da Andò in fase di stesura del soggetto e di sceneggiatura.
Se il tono della narrazione risulta leggero, quasi elegante, la vicenda in sé presenta invece spunti di riflessione importanti, accostamenti alla realtà politica italiana attuale che non lasciano nessun motivo per stare allegri. Fortunatamente si è scelta la via della sdrammatizzazione ma soprattutto quella dell'introspezione, infatti tra la figura pubblica e quella privata è quest'ultima a emergere prepotente, come a dire che a fare la differenza deve essere l'uomo prima che il politico, sono gli uomini a doversi riappropriare di concetti quali dignità, altruismo, servizio e sincerità. Fatto questo, traslare tutto nella gestione pubblica dovrebbe essere un passaggio lineare e trasparente.
La sinistra italiana è allo sbando, perde consenso anche a causa di un'interpretazione immobile e usurata della politica da parte di Enrico Oliveri (Toni Servillo), segretario del principale partito d'opposizione. In seguito a contestazioni sempre più accese che provocano una crisi interiore nel segretario, Olivieri decide di sparire, si dà alla macchia come un qualsiasi latitante. Sarà il suo assistente Andrea Bottini (Valerio Mastandrea) a dover arginare il problema, mentendo, tranquillizzando i vari esponenti del partito, cercando Olivieri. Ma Olivieri non si trova. Così, nell'evolversi degli eventi, Bottini ha un'idea folle, quella di sostituire il segretario con il fratello gemello Giovanni (sempre Toni Servillo) che, piccolo incidente di percorso, è appena stato dimesso da una casa di cura psichiatrica.
Mettere il partito nelle mani di un pazzo quindi, sì, ma un pazzo con del metodo, oltretutto anche spiritoso, come afferma lo stesso Bottini. E funziona, perché dove non arriva più il politico, scollato, distaccato in maniera insanabile dai sentimenti e dai bisogni della gente comune, entità ormai aliena per una classe politica ottusa e riversata su sé stessa, arriva l'uomo. Anche quello un po' folle, dotato però ancora di empatia, della capacità di dar valore alla dignità di ogni individuo, in grado di far viaggiare in parallelo testa e cuore e non necessariamente in quest'ordine. E la gente risponde, torna ad appassionarsi, partecipa, perché forse quello che serve è un'uomo, sono gli uomini.
Mentre l'uomo si traveste da politico per regalare la sua umanità alla collettività, il politico scompare, si rintana lontano dalla vita pubblica, ricorre a una ex fiamma (Valeria Bruni Tedeschi), a una bambina, alla manualità di un lavoro comune, ricorre agli uomini per tornare a essere uomo. E finalmente apre gli occhi su una politica dall'uomo sempre più distante, dell'uomo sempre più disinteressata; a sottolineare il concetto Andò utilizza una viscerale intervista a Fellini che si scagliava contro la continua deriva della società verso l'indecenza e la barbarie: "come può uno rispettare sé stesso continuando a ricevere schiaffoni, sputi in faccia e insulti?". Federico Fellini moriva nel '93, ad oggi sono passati più di vent'anni e la politica più o meno ci riserva le stesse cose: schiaffoni, sputi in faccia e insulti; andando a pescare filmati di repertorio di un remoto passato, Viva la libertà si conferma tragicamente attuale.
Nonostante le considerazioni scaturite dalla visione possano sembrare pessimistiche (e in gran parte lo sono), il film ci presenta comunque un messaggio di speranza, di una redenzione ancora possibile, e riesce a farlo anche divertendo lo spettatore che si porterà a casa la soddisfazione di aver visto un bel film e diversi spunti sui quali riflettere.
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