sabato 30 novembre 2019

LA STANZA DELLE MERAVIGLIE

(Wonderstruck di Todd Haynes, 2017)

Brian Selznick è un noto scrittore di libri per ragazzi, vincitore di diversi premi di settore, dai suoi libri sono stati tratti anche un paio di film ai quali lo stesso autore ha collaborato in fase di soggetto e sceneggiatura: Hugo Cabret di Martin Scorsese e questo La stanza delle meraviglie a firma Todd Haynes. Premetto fin da subito che come non mi aveva entusiasmato il film di Scorsese, seppur valido per diversi aspetti, anche La stanza delle meraviglie non è riuscito a interessarmi più di tanto, fatto salvo per l'ultima ventina di minuti durante i quali Haynes tira i fili delle vicende presentate fino a quel momento e il destino dei personaggi arriva finalmente a toccare il cuore. Proprio come nella precedente trasposizione, anche qui si gioca molto con l'immagine e con la meraviglia che il Cinema può procurare nei suoi spettatori, in taluni casi soprattutto in quelli più giovani che qui come in Hugo Cabret trovano protagonisti alla loro altezza con i quali misurarsi (a mia figlia ad esempio sono piaciuti entrambi i film). Lavoro impeccabile nella forma, qui meno sfarzosa e rutilante che nel film di Scorsese, altrettanto pulita e patinata, messa in scena indubbiamente più interessante seppur ancora non troppo genuina.


Haynes decide di adoperare due piani narrativi paralleli per raccontare la storia dei suoi personaggi. Nel 1927, gli anni che stavano per vedere la Grande Depressione, Rose (Millicent Simmonds) è una bambina sorda che vive nel New Jersey, il padre distante, la madre assente, un fratello lontano. Rose ama tenere dei ritagli e lavorare con la carta, ad attrarla maggiormente sono le notizie su Lillian Mayhew (Julianne Moore), un'attrice del Cinema muto che Rose ama molto. Un giorno, senza dire niente a nessuno, Rose abbandona la sua solitudine per recarsi a New York, alla ricerca del fratello e della sua beniamina del grande schermo. Cinquant'anni più tardi, 1977, Ben (Oakes Flegley) è un pre-adolescente che ha perso la mamma. In seguito a un incidente il ragazzino perde anche l'uso dell'udito, sconvolto dalla sua situazione, decide di scappare a New York alla ricerca di un padre che non conosce, unico indizio l'indirizzo di una libreria, porterà con se un libro della madre che racconta l'origine dei primi musei, quelle che venivano chiamate "le stanze delle meraviglie". Proprio in un museo, quello del Queens, le due storie sembrano trovare un punto di contatto.


Il 1927 è raccontato con un bel bianco e nero fin troppo laccato, interessante la scelta di girare questo segmento come fosse un film muto, con il duplice aggancio al Cinema di quegli anni e alla sordità della piccola protagonista; questo espediente consente allo spettatore di calarsi meglio nei panni di Rose in quanto insieme a lei anche lo spettatore si trova sordo, forse non a caso in un'epoca dove il passaggio al Cinema sonoro è a un passo. Il 1977 è girato su tonalità ocra, in maniera vivace rispecchiando i ritmi e il fermento di un decennio non facile. La confezione c'è e si vede, regala anche spunti interessanti, il film però risente di un bilanciamento che fa decollare la vicenda troppo tardi, non bastano la storia d'amicizia tra Ben e Jamie (Jaden Michael), le meraviglie del museo, le strizzate d'occhio ai cinefili per catturare l'attenzione dello spettatore che si risveglia solo quando le carte si scoprono, le relazioni tra i personaggi diventano chiare (per lo spettatore più volenteroso sono anche intuibili) e finanche commoventi, ma è il classico caso del "troppo poco, troppo tardi". Data la fattura molto buona e l'apprezzamento di parte della critica, non fatevi frenare dalla mia idiosincrasia verso le pellicole tese a una meraviglia un poco plastificata, magari a qualcuno La stanza delle meraviglie potrebbe piacere sul serio.

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