sabato 30 novembre 2024

IL SOL DELL'AVVENIRE

(di Nanni Moretti, 2023)

Il 4 novembre del 1956 l'esercito russo (la famosa Armata Rossa) varca i confini della città di Budapest di fatto invadendo la capitale dell'Ungheria, un Paese già inserito nella sfera d'influenza rossa ma i cui cittadini, le classi sociali più povere almeno, chiedevano a gran voce riforme e modifiche a un modello socialista che in quel periodo storico li affamava e che dettava condizioni di lavoro insoddisfacenti, scontentava studenti e intellettuali e promuoveva politiche sull'utilizzo dei terreni malviste da chi con quella terra ci doveva campare. L'idea di un socialismo nuovo, diverso e in parte distante dalla sua matrice sovietica, non piacque a Mosca; i russi si adoperarono per soffocare le proteste studentesche e i moti rivoluzionari affogandoli nel sangue. Gli eventi d'Ungheria scatenarono reazioni anche nei partiti italiani che alla Russia guardavano come a un faro illuminante: se il Partito Socialista si allontanò dalla decisione russa condannandola (e stiamo ovviamente semplificando il discorso), Il Partito Comunista, nel quale già militava l'ex presidente Napolitano, appoggiò l'intervento russo creando malumori e spaccature. È da questo contesto storico che parte Nanni Moretti per costruire il film nel film che sta all'interno del suo ultimo lavoro: Il sol dell'avvenire. Con questa premessa si potrebbe ora pensare che Moretti abbia costruito un film cupo, politico, intriso di delusione e pessimismo; in realtà, anche se il film politico lo è e non manca di momenti più "depressi", sia nella sfera privata dei personaggi che nel discorso pubblico, Il sol dell'avvenire gode di una simpatica leggiadria, anche di una voglia di ottimismo che va oltre lo stato (pessimo se non peggio) della nostra politica e va anche oltre le pesantezze del personaggio interpretato da Moretti stesso che può rivelarsi un gran rompipalle duro da sopportare (per chi gli sta attorno ma non per il pubblico); così il film sterza, riallinea nella maniera più positiva possibile le congiunzioni astrali che guidano i protagonisti e, con una mossa quasi tarantiniana (Bastardi senza gloria, C'era una volta a... Hollywood) si bea nel riscrivere la Storia per passare poi a un finale che la storia (questa volta personale, quella del cinema di Moretti) la rievoca con amore e partecipazione coinvolgendo gli amici di tante avventure.

Giovanni (Nanni Moretti) è un regista affermato che sta girando il suo nuovo film ambientato nel 1956; nel film una delegazione del Partito Comunista presieduta da Ennio (Silvio Orlando), con sede a Roma nel quartiere Quarticciolo, ospita i compagni ungheresi del circo Budavari proprio nel periodo immediatamente antecedente l'entrata russa a Budapest. Giovanni è sposato con Paola (Margherita Buy) che è anche una produttrice cinematografica. La donna è stanca del suo matrimonio, vorrebbe lasciare il marito ma non trova il coraggio di dirglielo, per superare questa impasse segue di nascosto un percorso con uno psicologo, nel frattempo produce filmacci pieni di violenza invisi al più raffinato Giovanni. Sua figlia Emma (Valentina Romani) intanto, che deve comporre le musiche del film, non si sente tanto apprezzata dal padre e porta avanti una relazione con un uomo molto più vecchio di lei (Jerzy Sthur). Quando scoppia il bubbone matrimoniale e il film di Giovanni sembra arenarsi per questioni economiche, l'uomo sembra rivedersi nella situazione drammatica vissuta dai personaggi del suo film a causa della delusione politica scatenata dalle malefatte russe; Giovanni riflette così sulla relazione tra i personaggi di Ennio e Vera (Barbora Bobuľová) che lui ha voluto molto distaccata, decidendo di cambiare il finale del suo film, possibilmente anche la sua vita, e aprirsi a un futuro più radioso e al sol dell'avvenire.

È un film "simpatico" questo Il sol dell'avvenire di Moretti. So che "simpatico" è un aggettivo che riferito a un film può sembrare non troppo lusinghiero, ma è proprio questa l'impressione che lascia Il sol dell'avvenire, quella di essere un film "simpatico", senza voler dare significati negativi al termine, è un film che alla fine ha la capacità di mettere di buon umore chi lo guarda. Dentro c'è un poco il ritorno a diverso cinema di Moretti con alcune delle sue fissazioni già viste in passato come quelle per le calzature femminili, per le canzoni cantate in auto, per i calci al pallone e per altre cose ancora, c'è anche un velato disappunto verso le moderne derive di un cinema cafone con i film dei giovani registi che propongono una violenza gratuita, banale, anche risaputa e soprattutto, quel che interessa a Moretti, poco etica, moralmente sbagliata; ci sono i rappresentanti di Netflix scontenti del suo film perché non possiede quel fattore tanto ricercato del "what the fuck!" e probabilmente richiesto categoricamente dall'algoritmo. Ci sono gli attori anarchici che vogliono cambiare i loro personaggi, il suo film, e che forse alla fin fine hanno pure ragione. C'è poi l'apertura, tra tanti mugugni e borbottii, a una positività e a una speranza illuminante che ben dispone al futuro protagonisti e spettatori, un po' come se il regista si lasciasse alle spalle le delusioni politiche, le difficoltà dei rapporti interpersonali per abbracciare a pieno le gioie che la vita potrà ancora regalargli, magari facendolo in compagnia delle persone a cui si vuole bene. È tutto molto leggibile in quest'ultima opera di Moretti, tutto alla luce del sole. È molto? È poco? È abbastanza? Questo potete deciderlo voi.

lunedì 25 novembre 2024

THE DELTA

(di Ira Sachs, 1996)

The delta, esordio nel lungometraggio del regista di Memphis Ira Sachs, esce nel 1996 quando è ormai conclamata la vitalità di quel movimento che dai primi anni Novanta è stato etichettato come New Queer Cinema, definizione coniata dalla giornalista Rudy Rich. La corrente del New Queer Cinema contribuisce a dar vita a una sorta di riconoscimento per la comunità LGBT, a crearne una più forte consapevolezza, una consapevolezza fortificata anche dalla possibilità di godere finalmente di una giusta rappresentazione con la quale riconoscersi e attraverso la quale portare al mondo conoscenza e ampliare i margini di un'accettazione ancor oggi da promuovere e normalizzare, questo nonostante la situazione con il tempo vada (molto) lentamente migliorando. A fenomeno già affermato, grazie a film di autori quali Gus Van Sant, Todd Haynes, Gregg Araki, Jennie Livingstone (del suo Paris is burning abbiamo parlato da poco), John Cameron Mitchell e altri ancora, alla corrente si unisce  anche la voce dell'allora trentenne Ira Sachs. Molti dei film ascritti al New Queer Cinema erano pellicole indipendenti girate con mezzi poveri, caratteristiche che identificano anche questo The delta di Ira Sachs realizzato con pochissimi mezzi e uguale consapevolezza, affidandosi per la sua buona riuscita in gran parte alle prove attoriali di attori non professionisti qui, per fortuna, felicemente indovinati.

Siamo a Memphis, nel Tennessee, sul finire degli anni Novanta. Lincoln (Shayne Gray) è un giovane che conduce la classica vita di molti ragazzi della sua età: famiglia borghese benestante, un gruppo di amici con cui passare il tempo, sballarsi un po', partecipare a qualche festa e con i quali andare in giro per Memphis, una bella ragazza, Rachel (Rachel Zan Huss), bionda, per bene e con la quale porta avanti un rapporto ancora da ben definire. Nei momenti in cui è solo Lincoln frequenta alcuni luoghi ritrovo di omosessuali; è in uno di questi che ha un primo incontro con un giovane di origini vietnamite ma con padre afroamericano, un incrocio di razze che dona a Minh (Thang Chan) parte del suo fascino naturale che l'uomo usa per avvicinare nuove conoscenze. Minh è un giovane aperto a nuove esperienze, spiritoso, schietto che non manca di fare colpo anche su Lincoln; dopo quel primo e fugace incontro Minh, invaghitosi di Lincoln, farà in modo di incontrarlo di nuovo e i due passeranno così del tempo insieme sulla barca di famiglia di Lincoln, in una fuga di pochi giorni da tutto e tutti lungo le acque del Mississipi. Non tutto però è sempre semplice come una piccola fuga, soprattutto in un Paese così sfaccettato e multiculturale come quello degli Stati Uniti d'America.

Come sottolineato dallo stesso Ira Sachs in occasione di alcune interviste, The delta propone diversi elementi autobiografici se non altro nella scelta dei luoghi che sono gli stessi dove, alcuni anni prima, effettivamente crebbe il regista; anche le tematiche omosessuali appartengono al vissuto di Sachs, gay dichiarato, sposato e padre di due figli. È, per sua stessa ammissione, un Sachs ancora molto inesperto a girare questo The delta, un regista ancora immaturo, acerbo, tutto da farsi e che gira senza idee precise e con i pochi mezzi a sua disposizione. La grana grossa da cinema indipendente, underground, viene fuori già dalle primissime sequenze: immagini sporche, realistiche, notturni assoluti dove il buio è vero buio, illuminato solo a sprazzi da rari lampioni o dai fanali delle automobili di passaggio, non c'è luce artefatta, la messa in scena è povera, naturale, rende però molto bene una Memphis fatta di ritrovi, locali, luci vaghe sullo sfondo, un mondo notturno che ritorna a più riprese e che contrasta con i diurni non proprio puliti ma che sicuramente danno un'impressione di maggior ordine, quasi una dicotomia tra la vita alla luce del sole del protagonista e le sue scorribande notturne. In questo contesto Sachs racconta il rapporto estemporaneo tra questo ragazzo bianco e benestante e l'affascinante immigrato dalle origini miste, lo fa con una certa grazia ma anche con pochi passaggi realmente interessanti, c'è una bella spontaneità che tratteggia luoghi e personaggi, manca un poco di struttura, nonostante il film sia stato "molto scritto" come ha dichiarato il regista si sente la mancanza di qualche passaggio più forte o di un maggior coinvolgimento emotivo. Considerando The delta nel suo essere un esordio il risultato finale può anche essere considerato sufficiente, c'è già una buona direzione degli attori, non semplice in quanto trattasi di ragazzi non professionisti e, nel caso di Thang Chang, neanche scolarizzati. Sotto questo aspetto Sachs porta a termine un buon lavoro, un'attitudine tutta da esplorare nelle sortite in sala successive a questa.

venerdì 22 novembre 2024

ENEA

(di Pietro Castellitto, 2023)

Giunto al suo secondo lungometraggio il figlio d'arte Pietro Castellitto sembra confermarsi regista divisivo con un lieve disequilibrio, nel caso di questo Enea, pendente dalla parte di pubblico che potremmo inquadrare come detrattore dell'opera del Nostro. Enea sembra essere sviluppo coerente di ciò che Castellitto ci ha già mostrato in occasione del suo esordio nel 2020 con I predatori, si possono infatti ravvisare in questa seconda prova sprazzi di quegli stessi pregi e di quegli stessi difetti che sono già stati attribuiti e ben evidenziati nelle discettazioni a riguardo del film precedente. Il giovane regista sta seguendo un percorso, una formazione, che seppur ancora da mettere a fuoco mostra già diversi segnali di stile, magari anche questi da affinare, e soprattutto lascia risuonare una voce che nel panorama spesso asfittico del nostro cinema suona quantomeno come fresca e vitale, magari qua e là un poco stonata, sopra le righe in alcuni momenti, ma nel complesso interessante e anche, diciamocelo, parecchio divertente. Insomma, a parer di chi scrive, parere inscritto in una corrente di minoranza, il ragazzo sembra essere promettente, un giovane regista ancora da scoprire e da seguire con un certo interesse, più nel ruolo di direttore/sceneggiatore che non in quello di attore, veste nella quale peraltro Castellitto non sembra essere affatto fuori posto. Ci sono idee, c'è già una buona tecnica, manca un poco di legante tra le due cose e forse questo a breve verrà, l'impressione è che questa ulteriore possibile evoluzione non sia da affrettare né da ricercare con troppa insistenza, per ora godiamoci l'afflato libero di Pietro.

Enea (Pietro Castellitto) è il primogenito di una coppia della buona (buonissima?) borghesia romana. Papà Celeste (Sergio Castellitto) è uno psicologo capace (forse) di aiutare gli altri ma non così bravo con i propri figli, e poi pure lui non è che stia troppo bene. Mamma Marina (Chiara Noschese, altra figlia d'arte) conduce un programma televisivo nel quale intervista delle personalità come lo scrittore Oreste Dicembre (Giorgio Montanini), un lavoro che Marina nel profondo non sopporta proprio più, un'insoddisfazione che la donna però non lascia mai affiorare in superficie. Enea ha anche un fratello minore, Brenno (Cesare Castellitto, e dagli...), al quale è molto affezionato, un ragazzo di sedici anni che dorme ancora nel lettone con i genitori e che cerca ogni scusa per non andare a scuola, ambiente nel quale non sembra perfettamente inserito. Insieme all'amico fraterno Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio in arte Tutti Fenomeni), più pacato di lui, Enea vive la sua esistenza borghese tra feste e festini, piccolo spaccio e consumo di droghe, la gestione di un ristorante di sushi e le riflessioni un tanto al chilo su società e umanità (nemmeno tutte da buttare). Grazie al contatto con il vissuto e ben immanicato Giordano (Adamo Dionisi) per Enea e Valentino arriva il momento della possibile svolta, uno di quei turning point che possono far cambiare o deragliare un'esistenza.

Ci sono diverse cose dentro l'Enea di Pietro Castellitto, aspetti e temi che vanno a costruire una narrazione dalle maglie larghe, libera e capace di spargere idee e sensazioni senza trovar loro un vero centro, cosa già accaduta con il film precedente che affrontava già alcune delle tracce composte dal regista romano. Tornano le chiacchiere a tavola, in apparenza pretenziose, artificiose e vuote, in occasione dei pranzi della famiglia borghese, gli incontri con i parenti, le condanne a un mondo in cui il protagonista (come il regista) è immerso e del quale in fondo si bea, c'è ancora una generazione che fa i conti con uno spaesamento esistenziale, con rapporti non sempre all'apparenza così profondi, come quello di Enea con Eva (Benedetta Porcaroli), c'è forse meno ironia che in passato ma il tono usato da Castellitto oscilla ancora tra il divertito e il surreale, deriva che prende qui una valenza anche distruttiva (la scena della palma). C'è anche una costruzione che potrebbe guardare al crime romano, a quelle storiacce da Roma Capitale espresse meglio altrove e che qui rimangono solo una (sotto)traccia, un espediente per portare avanti una trama immersa in altro, una traccia impreziosita dalla presenza di un ottimo Adamo Dionisi scomparso purtroppo pochissimo tempo fa. Dopo due soli film Castellitto sembra andare già verso la costruzione di un suo stile che in diversi hanno accostato a quello di un Sorrentino in chiave minore; le affinità in effetti si possono intravedere nell'attenzione alla composizione, nella cura dell'immagine, nelle sentenze declamate da personaggi che elargiscono perle (?) dettate spesso da un'infinita tristezza, ne è l'esempio un (doppio) padre tanto rassicurante quanto lacero e contuso. Se davvero si vuole accostare Castellitto a questa attitudine a un certo tipo di cinema lo si può fare considerandolo ancora come un allievo, non certo un maestro, ma pur sempre un ottimo allievo, uno di quelli promettenti. Se la seconda prova per un artista è spesso fondamentale in questo caso Enea sembra una bella conferma di qualcosa di ancora incerto, è possibile che in questo caso il verdetto possa essere spostato all'opera terza, un qualcosa che attendiamo con una certa curiosità.

martedì 19 novembre 2024

BLACKBIRD BLACKBIRD BLACKBERRY

(di Elene Naveriani, 2023)

È con estremo piacere che torno al cinema georgiano, dopo diverso tempo devo ammettere, memore di quella magnifica scoperta che fu per me il What do we see when we look at the sky? di Alexandre Koberidze. Diciamo subito che questo Blackbird blackbird blackberry della regista nata a Tbilisi Elene Naveriani non raggiunge le vette di poesia toccate dal collega Koberidze, non gli si avvicina nemmeno, riesce comunque a proporre con pochissimi mezzi un cinema che si avvale di una visione personale e originale dell'atto del narrare, proponendo temi non troppo battuti e abusati e una sensibilità genuina e singolare dovuta probabilmente più al fatto che la regista è una giovane donna che non a quello di essere georgiana di nascita; in realtà sono diversi anni che la Naveriani vive e lavora in Svizzera. Quello della Naveriani è un cinema che potremmo definire "festivaliero", rinnegando della definizione ogni attributo negativo che le si potrebbe accostare, un cinema "piccolo", fatto spesso di inquadrature fisse o poco mobili, lontano da virtuosismi, lussi scenografici, scene madri e grandi spiegamenti di forze. I film della regista, questo è il terzo suo lungometraggio, si sono fatti notare in festival come quello di Rotterdam, poi Locarno, infine Cannes, senza che la sua autrice sia arrivata ancora a essere un nome riconosciuto a livello internazionale presso il grande pubblico (per dirne una non vanta una pagina Wikipedia a lei dedicata in lingua italiana). Elene Naverani è riuscita però a suscitare l'interesse di molti addetti ai lavori e di buona parte del pubblico che ha potuto scoprirne il lavoro non solo grazie ai sopra citati festival ma soprattutto grazie alla distribuzione su piattaforma.

In un piccolo paesino della Georgia, non quella statunitense, Etero (Eka Chavleishvili) gestisce un piccolo negozio di prodotti per la casa. Etero è una donna sola e libera, non ha legami di sorta, non ha figli, si avvicina ormai alla cinquantina e sembra non aver mai avuto un uomo nella sua vita né rapporti con l'altro sesso. Le giornate di Etero trascorrono tra il lavoro al negozio, monotono piuttosto che no, e le passeggiate all'aria aperta durante le quali la donna va spesso a caccia delle sue amate more che crescono spontanee vicino al fiume del piccolo villaggio. Di tanto in tanto Etero si incontra con le amiche, un gruppo di donne anche loro non più giovanissime che non perdono occasione di criticare lo stile di vita solitario (ma forse più sereno e felice) della loro compaesana, non risparmiandosi anche qualche sporadica cattiveria. Nel passato della donna c'è un infanzia fatta di controllo e repressione da parte di due uomini possessivi, il padre e il fratello, segnata anche dalla prematura scomparsa della madre. Una volta alla settimana Etero incontra Murman (Temiko Chichinadze), un uomo gentile che rifornisce il negozio con le sue consegne; in un momento di vicinanza, tra i due scatta una passione sentimentale che porterà Etero, a 48 anni suonati, a perdere la sua verginità e l'uomo ad aprirsi a un nuovo amore nonostante la sua famiglia lo aspetti a casa. Questa nuova relazione scombinerà un po' gli equilibri di un'esistenza che sembrava ormai dovesse viaggiare per sempre su binari noti e posati già da tempo.

La Naverani ci racconta una donna indipendente, libera, all'interno di una comunità che magari la denigra un poco ma un poco pure la invidia. L'avvento dello streaming ci permette finalmente di poter godere di visioni femminili, delle idee di autrici, magari provenienti da altre latitudini come in questo caso, che con orgoglio non si conformano allo stile di narrazione più "mainstream" ma osano qualcosa di diverso e più genuino. La scintilla di un sogno di un amore di mezza età è qui esplorata con una sincerità senza filtri che profuma d'onestà e noncuranza (di quel che possano pensare gli altri); senza mai uscire dal buon gusto la regista mette in campo una passione e un erotismo tra corpi in fase decadente (se decadente può definirsi un corpo che in maniera naturale invecchia) senza preoccuparsi dell'ostacolo del pudore né di quello del giudizio, offre corpi tozzi e pubi lanosi in un'epoca di intimità accuratamente rasate e culto dell'immagine. In un film che potrebbe virare spedito verso la storia romantica, seppur non convenzionale, la protagonista invece mantiene dritta la barra e non rinuncia a un'indipendenza per lei assodata e che, all'età di ormai quasi mezzo secolo, si rivela essere irrinunciabile e non accantonabile nemmeno per una possibile storia d'amore, fosse pure la prima, l'unica e forse l'ultima di una vita che, come dice Murman, si avvicina al suo autunno. Blackbird, blackbird, blackberry sembra un film fermo nei movimenti e nel tempo, impastato nei suoi colori e nei suoi ritmi di provincia, ci mostra una vita dove non si corre ma dove un risveglio è sempre possibile e la svolta può trovarsi davvero dietro l'angolo, cosa questa porti però non è dato sapersi.

venerdì 15 novembre 2024

PROSPETTIVE DI UN DELITTO

(Vantage point di Pete Travis, 2008)

Il regista inglese Pete Travis è in giro ormai dalla seconda metà degli anni Novanta, decennio durante il quale Travis si divide tra la realizzazione di cortometraggi e quella di progetti per la televisione, alternando film e serialità e ottenendo anche qualche riscontro da critica e colleghi. Bisogna aspettare il 2008 per vederne l'esordio su grande schermo e nel lungometraggio proprio grazie a questo Prospettive di un delitto, film che, a dispetto del nome non di primissimo piano del regista, raccoglie un cast di un certo rilievo nel quale compaiono attori e attrici come Dennis Quaid, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Matthew Fox, William Hurt e Forest Whitaker. A oggi, tre lungometraggi e parecchia televisione dopo, non possiamo di certo dire che Pete Travis "si sia fatto un nome", eppure almeno dal punto di vista squisitamente registico Prospettive di un delitto non era neanche malaccio, magari poco originale, con l'obiettivo più di costruire per benino le singole sequenze che non quello di raccontare una buona storia, ma tutto sommato non malaccio. Paga forse una certa ripetitività e lo scotto di una struttura magari gradevole da seguire ma anche piuttosto risaputa e prevedibile. Comunque in giro si vede di peggio...

Salamanca. In Plaza Mayor è stato allestito un palco che ospiterà un intervento del Presidente degli Stati Uniti (William Hurt) in occasione di un summit volto a combattere la minaccia del terrorismo internazionale; le ferite dell'undici settembre e quelle degli attentati alla stazione di Atocha sono ancora aperte. A occuparsi del servizio di sicurezza, tra gli altri (il dispiegamento di forze è importante), ci sono gli agenti Kent Taylor (Matthew Fox) e Thomas Barnes (Dennis Quaid), quest'ultimo rientra in azione dopo un periodo di riposo forzato dovuto al trauma subito solo un anno prima quando venne ferito da un colpo di arma da fuoco mentre era in servizio attivo. La piazza è ovviamente gremita di gente; ci sono i turisti come Howard Lewis (Forest Whitaker), gli inviati delle reti televisive come Angie Jones (Zoe Saldana) e i loro superiori nei camioncini delle emittenti come la regista Rex Brooks (Sigourney Weaver). Tra la folla si muovono anche il poliziotto in incognito Enrique (Eduardo Noriega) e Veronica (Ayelet Zurer), una donna con la quale Enrique sembra avere un legame di qualche tipo, e tutta una serie di altri personaggi. L'intervento del Presidente ovviamente non filerà liscio (altrimenti non ci avrebbero fatto un film), immancabile arriva il tentativo di omicidio nei confronti dell'uomo più potente del mondo e il conseguente mettersi in moto dei protocolli di sicurezza. In uno scenario più che caotico i punti di vista dei vari protagonisti si riveleranno preziosi per poter ricostruire la dinamica dell'attentato e assicurare i colpevoli alla giustizia.

Pete Travis gira Prospettive di un delitto in un momento storico in cui gli attentati alle Torri Gemelle a New York e quelli alla stazione di Madrid sono ancora freschi nella memoria collettiva ma in cui già si affaccia la crisi economica che di lì a poco inizierà a tenere banco nelle cronache mondiali. Gli elementi per creare qualcosa di significativo e stratificato ci sono quindi tutti, Travis decide però di non approfondire nessun discorso ma di costruire invece il suo film sul ritmo e sulla forma. Come accennato sopra il lavoro svolto non è neanche male, il ritmo è sempre altissimo e parecchie sequenze sono ben coordinate, dal punto di vista tecnico Travis se la cava bene e anche in fase di montaggio mi sembra che Stuart Baird abbia portato a casa un buon lavoro. Al netto di qualche possibile ingenuità in fase di sceneggiatura stride qualcosa nel meccanismo e soprattutto nella narrazione. Prospettive di un delitto è strutturato su ripetuti rewind che riportano il racconto al momento dell'attentato (o poco prima) offrendone una nuova prospettiva e adottando di volta in volta il vissuto del momento di un personaggio diverso. L'affastellarsi di punti di vista aggiunge uno dopo l'altro ulteriori tasselli del mosaico, purtroppo il gioco diventa presto ripetitivo e l'impressione che si sia abusato un poco dell'espediente narrativo inizia a farsi largo in maniera prepotente, mettiamoci anche che nella storia non viene a palesarsi nulla di così interessante e il gioco è bello che fatto. Prospettive di un delitto è un film discretamente realizzato, con un buon ritmo e nel complesso nemmeno malvagio da guardare, certo è che ne rimarrà poco nel ricordo e nessuna traccia in un'eventuale memoria della settima arte.

lunedì 11 novembre 2024

TOKYO SONATA

(di Kiyoshi Kurosawa, 2008)

Pur non essendo tra i registi asiatici più noti in occidente, almeno avendo in mente come riferimento il grande pubblico, Kiyoshi Kurosawa si porta sulle spalle una carriera ormai lunga e costellata da numerose opere che prese il via già negli anni 70 quando Kurosawa trovò i primi impieghi in veste di assistente alla regia per poi prendere una direzione più indipendente nel decennio successivo quando il regista esordì nel lungometraggio con un film erotico, uno di quelli che in Giappone vengono definiti pinku eiga. Con il passare degli anni il regista nato a Kōbe nel 1955 si sposterà sul dramma e soprattutto sull'horror, genere nel quale Kurosawa si guadagnerà una certa fama presso il pubblico di appassionati. Alla sessantunesima edizione del Festival di Cannes il regista presenta questo Tokyo sonata, un dramma familiare dai risvolti sociali che verrà riconosciuto con il Premio della giuria nella sezione Un certain regard; tra festival asiatici e riconoscimenti ottenuti oltreoceano Tokyo sonata si ritaglia il suo spazio all'interno del mare di opere meritorie che arrivano dalla terra del Sol Levante. Inoltre il film, uscito in anni di piena e totale crisi economica (la Grande Recessione), si giova di un'attinenza con l'attualità del momento e con la situazione contingente che permette dello stesso una lettura non limitata alla sola situazione nipponica offrendo bensì una più ampia riconducibilità alle difficoltà affrontate dalle classi medie (e povere) di tutto il mondo.

Tokyo, anni di crisi economica; le grandi imprese iniziano ad approfittare della manodopera e delle professionalità a basso costo formatesi in Cina delocalizzando così interi rami d'azienda per abbattere i costi di gestione e aumentare i ricavi per i vertici. In una di queste grandi ditte viene tagliato in toto il reparto amministrativo, è così che Ryuhei Sasaki (Teruyuki Kagawa), un uomo di mezza età con moglie e due figli a carico, si trova dalla mattina alla sera senza lavoro e senza mezzi di sostentamento per mantenere la propria famiglia. Imbevuto di quel senso dell'onore che caratterizza molti giapponesi, Ryuhei non trova il coraggio di confessare alla moglie Megumi (Kyōko Koizumi) quello che a conti fatti vede come un fallimento personale. Inizia così per l'uomo una vita di menzogne nella quale Ryhuei si alza al mattino, si veste e finge di andare a lavoro, per poi passare le giornate alle mense per i poveri frequentate da tanti ex impiegati come lui vestiti di tutto punto, altri umiliati che non hanno il coraggio di affrontare con sincerità la loro nuova condizione. Nel frattempo il figlio minore Kenji (Inowaki Kai), refrattario alle autorità che stanno perdendo credibilità ai suoi occhi (il padre, il professore) vorrebbe iniziare a prendere lezioni di piano, il figlio più grande, Takashi (Yû Koyanagi), stufo di lavori inconcludenti come la distribuzione di volantini, cerca ingenuamente soluzioni alternative senza soppesarne a fondo le conseguenze.

Con Tokyo sonata Kiyoshi Kurosawa fonde il dramma pubblico a quello privato, ci mostra il lato duro di una Tokyo, qui sineddoche per il Giappone tutto, che si concede a un sistema del capitale prettamente occidentale (americano) introiettandone di conseguenza anche le falle e l'esecrabile tendenza a porre l'uomo in posizione sussidiaria al capitale; questa sorta di colonialismo liberale si avverte anche nella contraddittoria permissività di un Paese che vieta la guerra a partire dalla sua Costituzione ma permette ai suoi giovani di arruolarsi tra le fila dell'esercito Statunitense, ormai "compagno di capitalismo". Questa situazione diffusa viene esplorata in Tokyo sonata attraverso le vicissitudini della famiglia Sasaki sulla quale si riversano le conseguenze della crisi economica. Kurosawa filma una Tokyo abitata da fantasmi, sono questi persone in carne e ossa, ex impiegati che vagano per la città schiacciati tra la vergogna del fallimento e il nuovo bisogno, una condizione prima a loro sconosciuta, vagano vestiti di tutto punto in zone periferiche, vicino i raccordi, rassegnati, quasi invisibili sullo sfondo di una città e di un contesto che li fa riconoscere allo spettatore come anime vaganti sulla stessa barca del protagonista. Oltre alla crisi economica il regista pone attenzione alla crisi dei rapporti e della famiglia; i Sasaki non comunicano tra loro, vivono di una convivenza quasi sempre educata, formale ma, soprattutto nella figura della madre, intimamente infelice. La crisi è solo l'occasione per mostrare la fallacità di un sistema (Paese, famiglia) che non si regge più: figure autorevoli in crisi e delegittimate, dal lavoro, dai loro stessi figli, un sistema patriarcale a volte ottuso e orgoglioso fino al parossismo, in alcuni casi fino a un'esiziale e tragica conclusione. La rigidità, la vergogna del diventare (nella propria autostima e auto considerazione) meno di quel che finora si è stati porta altra infelicità, porta al disastro. A strattonare regole assurde solo un ragazzino che vuole suonare il piano, che vuole seguire un suo desiderio, che vuole rompere questo sipario d'infelicità sceso sull'esistenza della sua famiglia suonando il Clair de lune dalla Suite Bergamasque di Debussy, magari aprendo gli occhi a un padre, riempiendo il cuore di una madre, consolando un fratello scottato dalla dura realtà. O forse è solo un momento, una nostra illusione destinata a bruciare nel tempo.

venerdì 8 novembre 2024

LA TEMPESTA DEL SECOLO

(Storm of the century di Stephen King, 1999)

La tempesta del secolo (o la tormenta del secolo come viene spesso definita nella miniserie per la televisione) è un libro di Stephen King pubblicato nel 1999 e pensato dal Re come sceneggiatura per il cinema, una sceneggiatura che poi, vista la mole imponente dello scritto, è diventata un progetto per uno show televisivo per il canale tv statunitense ABC. Nella traduzione italiana di questo Storm of the century edita da Sperling è presente, nelle pagine precedenti il racconto approntato da King, un'interessante introduzione dello stesso autore che spiega in poche parole la genesi di questo progetto che avrebbe potuto benissimo diventare un romanzo e che, a conti fatti, tutto sommato ne mostra già il passo e lascia facilmente intuire come sarebbe stato possibile da questa base di partenza arrivare a uno scritto finale che avrebbe potuto far mostra di tutte le migliori caratteristiche di scrittura alle quali King ci ha da sempre abituati. È vero, La tempesta del secolo sarebbe stato un buon romanzo, non lasciamoci però ingannare dalla forma atipica dell'opera (almeno per chi la affronta su carta) perché questa è comunque in grado di avvincere e appassionare il lettore anche in forma di sceneggiatura; il tocco del Re si sente tutto, alcune situazioni e ambientazioni riportano chiaramente allo stile di King che nel lavorare per la televisione non snatura per niente tutti i pregi della sua scrittura, ne è la dimostrazione il fatto che la sua sceneggiatura si riveli in definitiva migliore dell'opera che poi ne è stata tratta, ovvero la miniserie omonima in tre episodi diretta da Craig R. Baxley, regista al cinema di film non proprio indimenticabili (Action Jackson, Arma non convenzionale e cose così...). Ma di cosa narra La tempesta del secolo?

Little Tall Island è una piccola isola sita di fronte alle coste del Maine sulla quale vive una comunità ristretta e apparentemente affiatata, i fan più addentro all'opera di King la riconosceranno facilmente come lo scenario legato all'ormai anziana Dolores Claiborne protagonista di vicende qui apertamente citate. Siamo in inverno e verso l'isoletta si sta dirigendo quella che promette essere una delle perturbazioni più violente che si possano ricordare in zona a memoria d'uomo; inizialmente la popolazione tenterà di minimizzare l'evento, in fondo di tempeste ne hanno viste tante nel corso degli anni, ma ci vorrà molto poco per capire che questa sarà molto diversa dalle precedenti. Insieme al maltempo sull'isola arriva anche l'ambiguo André Linoge (Colm Feore), un non troppo simpatico straniero che come gesto di presentazione regala alla popolazione locale l'omicidio di un'anziana concittadina. Sarà compito dello sceriffo locale Mike Anderson (Timothy Daly) e del suo "vice" Hatch (Casey Siemaszko) rinchiudere l'assassino e garantire l'incolumità di una comunità ormai tagliata fuori dal mondo e dalla terra ferma. In realtà Mike e Hatch non sono proprio uno sceriffo e un vice, il primo gestisce un minimarket, il secondo nella vita fa altro ancora, Little Tall non ha nemmeno una prigione, non è mai servita, c'è giusto il retro chiuso per benino del market di Mike a far da contenimento a Linoge, almeno per quel che può servire. Si, perché Linoge non è proprio un uomo come gli altri, sembra più essere l'incarnazione di un male antico, capace di compiere gesti atroci anche standosene comodamente seduto rinchiuso all'interno di un facsimile di cella. Tra la tormenta, gli omicidi, gli strani comportamenti che iniziano a serpeggiare tra gli abitanti dell'isola e la sorveglianza di Linoge, Mike, Hatch e gli altri abitanti di Little Tall avranno il loro bel da fare per garantirsi un futuro che possa guardare oltre quei pochi e funesti giorni di maltempo.

Credo di aver già fatto trapelare la mia preferenza per la sceneggiatura rispetto all'opera che poi ne è scaturita in video: la prosa di King, anche se limitata da tutti gli stacchi che necessariamente devono descrivere inquadrature e sequenze, presenta una ricchezza immaginifica e descrittiva che in molti aspetti nella trasposizione viene persa, primo fra tutti proprio l'entità della tempesta incombente che nella sceneggiatura di King ne esce molto più minacciosa di quel che poi accade nella serie, probabilmente anche per una questione di costi e di effetti speciali che nel 1999 non erano ancora allo stato dell'arte come possono essere oggi. L'esperienza di lettura, superato il primissimo e solo eventuale spaesamento iniziale, si rivela piacevole e soprattutto scorrevolissima nonostante l'impostazione per forza di cose più "tecnica" che ci presenta passaggi del tipo: 

Atto 1 

Dissolvenza in apertura: 

1) Esterno: Main Street, Little Tall Island - Tardo pomeriggio 

(qui King inserisce una descrizione della situazione metereologica e delle strade della cittadina che per esigenze di brevità non riporto). 

MIKE ANDERSON - parla con lieve accento del Maine: 

MIKE ANDERSON (voce fuoricampo):

Mi chiamo Michael Anderson e non sono quello che verrebbe definito un erudito. 

E via di questo passo...

La struttura non è ovviamente quella del romanzo ma la differenza con l'incedere della lettura finisce quasi per non essere più percepita, La tempesta del secolo per il lettore diventa presto puro King, né più né meno. Quello che ne esce è uno scritto assolutamente valido che chi scrive consiglia senza indugi agli amanti del Re che ancora non lo avessero letto. Probabilmente se lo scrittore di Bangor non fosse stato tormentato dall'idea che la tormenta sarebbe dovuta diventare un film avremmo semplicemente tra le mani un altro ottimo romanzo a firma Stephen King, invece è andata così e il risultato mi sembra comunque ottimo. I temi poi sono di casa tra i fan di King: la piccola comunità chiusa e isolata da un evento esterno, l'evolversi dei rapporti all'interno della stessa, l'elemento di fastidio, il male e l'orrore, il sovrannaturale, i bambini, i segreti, contrasti tra concittadini ma anche solidarietà, la vita di provincia lontana dai grandi centri. La serie tv, nonostante il buon budget stanziato, perde un po' (parecchio?) la magia della penna di King. Uno dei motivi potrebbe essere imputato a un cast privo di nomi di richiamo e di interpretazioni capaci di donare la giusta enfasi e partecipazione nei momenti salienti; nonostante l'investimento fatto si respira un poco l'aria da prodotto di seconda fascia, soprattutto se la miniserie viene rivista oggi quando siamo abituati a ben altre produzioni anche in televisione. In fondo non è il primo progetto tratto da King che in tv non riesce a convincere appieno. Il consiglio è quindi quello di preferire la lettura della sceneggiatura, poi se si volesse ampliare il discorso la serie è presente su Prime (senza noleggio, basta l'abbonamento), le puntate sono solo tre e alla fine non si ha neanche modo di pentirsi del tempo investito per la visione.

domenica 3 novembre 2024

HANNO UCCISO L'UOMO RAGNO - LA LEGGENDARIA STORIA DEGLI 883

Ancora non si è smorzata l'eco generata dagli ultimi due episodi della serie ideata da Sydney Sibilia (e soci) caricati su Sky qualche giorno fa che già è partita la spasmodica ricerca su news e anticipazioni riguardo la possibilità di una seconda stagione per questo show già di grande successo. Sembra proprio che questa seconda annata si farà, anche perché l'ottimo esito della serie sugli 883 sembra ormai assodato, sia sotto il punto di vista qualitativo sia nei riscontri da parte di un pubblico quasi adorante; Sibilia sembra aver dichiarato che il prosieguo della serie è ancora in fase di scrittura quindi è lecito pensare che quantomeno un lasso di tempo di attesa ci sarà, ad ogni modo i fan della serie (che suppongo oggi siano anche più numerosi di quelli degli 883, o di Max Pezzali per essere più precisi) possono stare tranquilli e iniziare a fremere per l'attesa. Sul progetto in sé c'è poco da dire, Sibilia si conferma come uno degli autori con le idee più vincenti nell'attuale panorama cinematografico (e ora televisivo) italiano, la partecipazione della casa di produzione Groenlandia, gestita insieme al sodale Matteo Rovere, è ormai sinonimo di garanzia e con questa serie il gruppo non solo conferma e consolida la sua reputazione ma riesce addirittura a portarla a un livello superiore entrando a gamba tesa nel mondo della serialità guardando a un pubblico potenzialmente immenso e centrando ancora una volta (e più che in precedenza) l'obiettivo su un qualcosa che avrebbe potuto avere una grande presa su un'audience quantomeno trasversale. Si gioca molto con la nostalgia, non solo per quei primi passi degli 883 e per la loro musica che ebbe la capacità di arrivare a una platea vastissima, anche a quella formatasi su ben altri ascolti musicali (pare che anche Pezzali sia partito dal punk), ma anche, e forse soprattutto, su quella per i 90, per quegli ultimi anni analogici ancora capaci di restituirci un mondo completamente diverso da quello di oggi, un mondo nel quale se succedeva qualcosa e avevi un contrattempo magari non riuscivi ad avvisare tua madre e tuo padre e poi erano cazzi...

La storia degli 883 inizia a Pavia già negli anni 80 quando, folgorato dalla musica punk, un giovane Massimo Pezzali (Elia Nuzzolo) inizia a dedicargli troppo tempo trascurando lo studio e facendosi di conseguenza bocciare all'ultimo anno del liceo scientifico Copernico. Questo infausto evento non mette certo di buonumore mamma Alba (Roberta Rovelli) e papà Sergio (Alberto Astorri) che costringeranno Max a passare l'estate lavorando nel negozio di fiori di famiglia facendosi per giunta tutti i funerali per i quali i Pezzali sono fornitori floreali. In fondo, però, non tutto il male vien per nuocere, perché se la punizione impedirà a Max di andare in vacanza con l'amico di sempre Cisco (Davide Calgaro), favorirà l'incontro tra il giovane e Silvia (Ludovica Barbarito), una delle ragazze più belle di Pavia con la quale Max passerà una bella serata promettendole, esagerando sulle sue competenze musicali, di comporre per lei una canzone (in realtà Max non sa suonare nessuno strumento e non ha nessuna competenza musicale). Un'altra tegola però sta per abbattersi sulla testa di Max; i suoi genitori infatti, preoccupati per il suo avvenire, decidono di fargli cambiare scuola e iscriverlo, separandolo dai suoi amici, al Taravelli, un'istituto che gode di migliore fama del precedente e dove Max, ripetente, farà l'incontro che gli cambierà definitivamente la vita: quello con Mauro Repetto (Matteo Oscar Giuggioli).

Sydney Sibilia e i suoi collaboratori (Filippi, Capaldo, Agostini, Laudani, Nerone) riescono nell'intento di creare un prodotto nazionalpopolare ripulendo il termine da tutte le accezioni negative che gli si possano conferire. Hanno ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883 è un prodotto davvero per tutti, certo, meglio ancora per i fan del duo e soprattutto per chi ha vissuto in diretta quegli anni (più che il fenomeno 883 che in Italia comunque era impossibile schivare), ma in fondo anche per i non amanti resta comunque una bellissima narrazione sull'amicizia tra due ragazzi, un racconto di formazione, un percorso sentimentale, un viaggio verso il successo, un movimento di crescita personale e uno spaccato d'epoca che muove le corde della nostalgia e che evita accuratamente di mostrarci le brutture delle realtà circostante (praticamente viene esclusa qualsiasi cronaca di quegli anni, ne vediamo solo ciò che interessa i protagonisti e tutti quegli aspetti utili appunto a veicolare slanci nostalgici per un tempo vissuto in passato). Nel narrare le vicende di Pezzali e Repetto il team di Sibilia lavora molto bene nel dosare proprio le canzoni degli 883 nell'economia della serie, i pezzi arrivano a poco a poco, una alla volta, nell'esatto momento in cui i due li compongono (con l'unica eccezione di Con un deca che è la sigla della serie), creando così nel pubblico un effetto di maggior interesse nel seguire il dipanarsi della vicenda. Il punto di forza più grande della serie è però la scelta dei due protagonisti, attori giovani ancora in divenire ma già molto bravi e soprattutto molto adatti nei ruoli di Pezzali e Repetto e soprattutto capaci di creare una bellissima alchimia "di coppia" nella costruzione di due caratteri diversi, con un Pezzali sempre molto trattenuto, timido e diffidente nei confronti delle sue stesse capacità e un Repetto più vivace, intraprendente e spudorato nel lanciarsi a testa bassa in un qualcosa che finalmente avrebbe potuto farlo uscire da un'odiata medietà. Nuzzolo e Giuggioli sprigionano una simpatia (s)misurata alla quale non si può resistere, basti guardare alcuni dei loro video su Instagram che confermano la bellezza della loro attitudine nei confronti di questo progetto. Non c'è poi molto altro da dire su questo Hanno ucciso l'Uomo Ragno, la serie non sarà un progetto rivoluzionario ma alla fine funziona tutto e tutto molto bene. Ora non fateci aspettare troppo per la seconda stagione!

sabato 2 novembre 2024

AFTERSUN

(di Charlotte Wells, 2022)

Dopo aver girato tre cortometraggi, nel 2022 la regista scozzese Charlotte Wells si cimenta nel lungo esordendo con questo Aftersun, un film semplicemente magnifico, così denso e avvolgente che sembra quasi impossibile sia potuto scaturire da una regista ancora giovane e alla sua prima esperienza su ampio minutaggio. È un racconto in qualche modo doloroso quello della Wells che ci lascia intuire un'assenza e una mancanza (della figura paterna) senza mai mostrarcela; sembra che, non sappiamo bene in quali termini, ci sia nella storia messa in scena dalla regista un forte elemento autobiografico non completamente esplicitato. Presentato al Festival di Cannes 2022 il film ha generato riscontri positivi pressoché unanimi, un consenso ampiamente meritato per un film che riesce a ritagliarsi una nicchia d'originalità accompagnata da una qualità non così semplice da trovare in un'opera prima che vuole uscire dai soliti sentieri battuti da innumerevoli produzioni in passato. La Wells gioca molto con ciò che non si vede e con ciò che non si dice, lascia le deduzioni più importanti (e più dolorose) allo spettatore che avrà il compito di interpretare (soprattutto) le immagini e dare una conclusione alla storia (non un senso, quello è molto chiaro), un perché ad uno status quo sofferente del quale non si conoscono origini e motivazioni che sembrano però essere facilmente intuibili.

Un lungo flashback. Attraverso stralci di filmini amatoriali, girati con una di quelle prime videocamere alla portata di tutti, veniamo proiettati ai giorni di una vacanza di tanti anni fa che la piccola Sophie (Frankie Corio), undici anni, passò con il giovane padre Calum (Paul Mescal), trent'anni, in un villaggio vacanze in Turchia che a dire il vero offre ai suoi ospiti un intrattenimento non troppo esaltante. Calum è davvero molto giovane per essere padre già da più di dieci anni, è un uomo non ancora risolto che non sta più con la madre di Sophie pur essendo rimasto con la donna in buoni rapporti, ora sembra conviva con un amico con il quale ha anche qualche progetto lavorativo in ballo, ma queste sono tutte informazioni appena accennate, poco esplorate e approfondite. Quello che sappiamo per certo è che Calum ama di un'amore profondo Sophie, sappiamo che non deve passarsela molto bene economicamente e che nella sua vita, forse meglio dire nella sua anima, nel suo io più profondo, c'è qualcosa che non va, un disorientamento, un sentore d'inadeguatezza, una tristezza di fondo che ci fa guardare alla Sophie adulta (Celia Rowlson-Hall) con apprensione e dolorosa vicinanza; ora Sophie è una giovane donna che per ragioni anche qui non spiegate e che ci fanno temere il peggio, quel padre non lo vede più, non lo ha più vicino a sé.

Aftersun è un film capace di far provare dei piccoli cedimenti al cuore, dei vuoti, dei mancamenti quasi inspiegabili provocati da momenti infinitesimali, da stralci di indicibile tristezza realmente difficili da trasmettere con le parole. È un'esperienza di visione straniante e diversa, originale, quella costruita con evidente sincerità dalla Wells che lascia al fuoricampo le conseguenze di un dolore inespresso e non chiarificato da parte di un padre che probabilmente tenta di proteggere una figlia alla quale donare serenità e, se possibile, felicità, in uno dei rari momenti passati insieme, nonostante i suoi moti di disagio interiore siano (allo spettatore) evidenti. La Wells, anche sceneggiatrice, scrive due personaggi bellissimi, un padre fragile e una bambina nel passaggio tra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza, qui resa in maniera sublime dalla piccola Frankie Corio, un volto bellissimo per fermare in video l'apertura verso una nuova età: l'interesse per le dinamiche dei ragazzi più grandi, per la compagnia dei coetanei dell'altro sesso. La tragedia in potenza, di cui non avremo mai contezza, si ammanta di sentori di depressione, fallimento, scarse finanze che affliggono un padre giovanissimo e che la Wells ci lascia costruire a poco a poco facendo crescere nello spettatore delle quasi certezze senza conferma. La Wells crea un film dove l'immagine dice moltissimo, il gesto, gli sguardi vengono esplicitati più dalla colonna sonora (parlante) che non dalle stesse parole. La narrazione è intrisa di una vitalità ovattata che veicola la sensazione di vita reale, vissuta, e allo stesso tempo di dimensione onirica (in fondo siamo nel campo del ricordo), eppure ogni passaggio diventa vitale, fondante. Come accade con i ricordi c'è frammentarietà, spazio vuoto, dubbio, ci sono cose che rimangono fuori, al di là. C'è ripetizione, come le giornate che scorrono uguali a loro stesse all'interno del villaggio, ci sono sprazzi di repentino dolore, quasi impercettibili, c'è la compressione del tempo, c'è il bello della vita, il meglio che ora non c'è più. Il ballo sul finale sulle note di Under pressure è semplicemente straziante. Sui titoli di coda si consolida l'impressione di aver assistito a qualcosa di davvero prezioso.

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