sabato 14 settembre 2024

DON'T WORRY DARLING

(di Olivia Wilde, 2022)

Devo ammettere che la curiosità per l'opera seconda di Olivia Wilde in veste di regista non era poca, questo soprattutto in virtù di uno degli esordi nella commedia più divertenti e ben dosati degli ultimi anni; con La rivincita delle sfigate la Wilde affrontava con piglio sciolto e diretto una commedia adolescenziale al femminile che metteva in scena situazioni e temi che il pubblico è stato abituato negli anni a vedere al cinema declinati in chiave maschile, lo faceva con intelligenza, senza troppe remore né timore reverenziale e soprattutto con un film che si rivelò divertente nella maniera più schietta possibile, una bellissima sorpresa. Con questa seconda opera che cambia completamente genere e registro la Wilde si conferma regista capace e dotata di un certo gusto per la messa in scena e per la confezione del prodotto, qui meno diretto e più "pensato" del precedente. Ciò nonostante Don't worry darling, pur affascinando e inanellando punti a favore non trascurabili, risulta meno a fuoco e riuscito del precedente lavoro della regista e attrice newyorkese, vuoi per un genere magari a lei meno congeniale (e derivativo in maniera netta e lampante), vuoi per alcune scelte in fase di sceneggiatura non completamente azzeccate nonostante alla scrittura compaia la stessa Katie Silberman già presente al tavolo de La rivincita delle sfigate. L'attesa è stata poi fomentata anche dalla curiosità "gossippara" del vedere diretto dalla Wilde la sua all'epoca nuova fiamma, il cantante Harry Styles (nulla di memorabile la sua prova a dir la verità, meglio come cantante).

America anni 50. Jack (Harry Styles) e Alice Chambers (Florence Pugh) sono una bella coppia di sposini che da qualche tempo si è trasferita nel paesino di Victory, una sorta di piccola comunità idilliaca sorta nel bel mezzo del deserto e che sembra soddisfare molte di quelle caratteristiche che il sogno americano di quegli anni spingeva allettando uomini e donne dell'epoca del boom economico a farne parte godendosene tutti i vantaggi. Ed è così che Jack e Alice si sono trasferiti a Victory, lui per far parte del progetto Victory, azienda di quella specie di guru futurista di Frank (Chris Pine) che dà anche nome alla cittadina, lei per seguire il suo amato maritino e sostenerlo nel perseguire i suoi sogni. I due sono inseriti in un contesto florido: belle case, vicini di casa che presto sono diventati amici come Dean (Nick Kroll) e Bunny (Olivia Wilde), auto prestanti e colorate, feste e gratitudine da parte del capo Frank, alcol, piscine, chiacchiere e per Jack (e per gli altri uomini) un lavoro entusiasmante e segretissimo. Ma sotto la superficie di questa utopia perfetta e ristretta cova qualche inquietudine. Una delle mogli di Victory, Margaret (Kiki Layne), contravviene a una delle regole basilari dettate da Frank: mai avventurarsi nel deserto per andare a curiosare dalle parti della sede dell'azienda. Nel suo peregrinare Margaret perde nel deserto suo figlio in quello che agli occhi degli altri pare essere un incidente; per la donna la scomparsa del bambino è la punizione per non aver rispettato le regole di Frank. Poco a poco Margaret viene esclusa dalla vita comune e solo Alice sembra dispiacersi per l'amica. Quando sarà proprio Alice a inoltrarsi nel deserto le cose diverranno complicate anche per lei, all'apparenza e in tempi diversi anche per Jack che si troverà in una situazione di imbarazzo nei confronti del leader della comunità e dei suoi vicini e amici. Ma Alice non mollerà, vorrà venire a capo dei misteri di Victory.

Per la sua seconda opera la Wilde sceglie di  mettere in scena un film che, senza svelarvi nulla, solo all'apparenza sembra rientrare nel genere che potremmo definire "retro fantascienza distopica". Nel ricreare l'ambiente dei 50 la Wilde ricorre a un décor impeccabile, indovinato e realizzato in maniera meravigliosa. I colori, gli abiti, i giochi di luce, alcuni momenti coreografati (gli uomini che vanno a lavoro in auto al mattino), alcune abitudini reiterate, riportano al sogno americano di quell'epoca, un salto all'indietro per un film intriso di istanze contemporanee legate in particolar modo (unicamente?) al ruolo della donna e alla sopraffazione del maschio. A Victory gli uomini lavorano, fanno parte di un progetto ambizioso e misterioso, importante: alla domanda "cosa facciamo qui?" Frank risponde "cambiamo il mondo". Niente meno, però nessuno, nemmeno lo spettatore, sa di preciso cosa facciano questi uomini a Victory. E di certo non lo sanno le loro mogli che non possono lavorare, non possono nemmeno avvicinarsi all'azienda, non si devono preoccupare degli strani tremori che si sentono ogni tanto nella cittadina; loro, le donne, possono però rifare i letti, essere perfette, vedersi con la amiche, tenersi in forma, bere whisky, preparare dei bei pranzetti e organizzare feste, tutto nell'ottica di un'organizzazione domestica e di vicinato volta a supportare il lavoro così importante dei loro mariti. Quando sono fortunate possono contare su una bella sessione di sesso orale. La Wilde mette chiara sul piatto la sua istanza femminista che prende ancor più corpo su un finale che aggrava ancor di più la situazioni di questi uomini (a questo punto tutti terribili immaginiamo, almeno per quel che si può intuire dal plot twist presentato), distruttori del libero arbitrio femminile e orchi di questa idea nostalgica di (micro)mondo che ahiloro si sgretola come oggi si sta sgretolando la virilità maschile. Ora, tralasciando la sensazione di già visto sia nella struttura del film sia nei sottotesti lampanti e davvero poco sottili, all'interno di un film peraltro per una buona parte ben costruito, ciò che lascia perplessi è una costruzione che dà l'impressione di essere non conclusa e chiarificata nonostante lo svelamento finale che invece di dare soddisfazione allo spettatore lascia un po' delusi con la voglia di tornare a quelle vaghe e pindariche supposizioni che ognuno di noi spettatori si era costruito nelle prime battute del film. Non un brutto film nel complesso, la regia della Wilde è solida l'attrice si conferma interessante forse più dietro la macchina che davanti (anche perché qui è eclissata da una Florence Pugh ancora una volta stupenda nell'inquietudine come già in Midsommar), perde un po' il polso della narrazione lungo la via, come se andando per quel deserto avesse anche lei subito un senso di smarrimento, proprio come capitato (forse) al figlio (forse) di Margaret.

martedì 10 settembre 2024

PARIS IS BURNING

(di Jennie Livingston, 1990)

Nel 1990 esce questo Paris is burning, documentario di una giovane Jennie Livingston, una testimonianza molto potente nel portare alla luce, spiegando e dando la meritata dignità (non che vivendo nell'underground non ne avesse), al movimento culturale denominato ball culture o drag ball. Siamo a New York, tra gli anni Settanta e Ottanta; la scena ballroom nasce nella comunità gay newyorkese a prevalenza afroamericana e ispanica, in un contesto di emarginazione e discriminazione ancora forte e molto sentito che in più, in quegli anni, faceva i conti con il dilagare della piaga dell'AIDS che come è noto reclamò molte vite in particolare proprio tra la comunità omosessuale. Gli appartenenti a queste realtà erano spesso ragazzi scappati di casa, soli, costretti a vivere una realtà di disagio economico e con molti rischi derivanti dalla situazione contingente esterna e da un momento storico generale che nella New York di quegli anni non era affatto facile. In questo contesto, appunto non semplice né roseo, le ballroom rappresentavano un vero e proprio rifugio e avevano la funzione non solo di luogo di aggregazione ma anche quella di viatico nel creare un'appartenenza che tanti ragazzi gay, giovani, giovanissimi e meno giovani, a volte non trovavano nelle famiglie d'origine o nel tessuto sociale nel quale erano nati, al quale (non) appartenevano e dal quale venivano spesso finanche respinti.

Il fulcro del documentario della Livingston verte sulle gare di ballo che si tenevano in queste ballroom: erano esibizioni che poco avevano a che spartire con ciò che avveniva nelle discoteche o in altri locali al di fuori della comunità gay. I drag ball erano più vicini a delle sfilate di moda ibridate con la danza; uno degli stili che poi si affermò anche presso il grande pubblico grazie a Malcolm McLaren e a Madonna che se ne appropriarono (Madonna anche tradendolo) con i video rispettivamente di Deep in Vogue e Vogue, fu proprio il Vogueing, uno stile nato e cresciuto nelle ballroom dove ballerini non professionisti imitavano, esasperandoli e coreografandoli, i movimenti e le pose (strike a pose) delle top model in passerella o delle fotomodelle, spesso veri e propri modelli di vita e icone da imitare per questi ragazzi ingabbiati in un'esistenza difficile. Le ballroom non ospitavano solo esibizioni di Vogueing, le singole competizioni erano divise in tante categorie dove di volta in volta si poteva premiare l'eleganza e il portamento dei partecipanti, il confezionamento degli abiti, la perizia del gesto, la naturalezza con la quale questi ragazzi si immedesimavano nel genere femminile e via discorrendo. I vincitori di questi balli ottenevano nella comunità riconoscimento e popolarità; i primi vincitori di queste competizioni rimasti poi nella storia del movimento fondarono a loro nome (parliamo di nomi d'arte) delle "house" alle quali i giovani potevano affiliarsi e all'interno delle quali spesso ragazzi in difficoltà trovavano una vera e propria famiglia, quell'appartenenza e quell'amore che faticavano a trovare al di fuori dei loro "confini gay". La Beija, Xtravaganza, Dupree (Paris Dupree ispira il titolo del documentario), House of Ninja, sono alcuni dei nomi più famosi di queste house delle quali molti affiliati mutuavano anche il "cognome".

Paris is burning è un documento coinvolgente in quanto costruito in prima persona dai protagonisti di quell'epoca e di quel movimento; la Livingston si defila e lascia spazio alle testimonianze, a stralci d'esibizione, al contesto, alla narrazione diretta e a una serie di immagini di grande fascino che riescono a suscitare allo stesso tempo curiosità per un fenomeno culturale forse ancor poco indagato ma soprattutto empatia e tenerezza per i suoi protagonisti, alcuni dei quali andranno incontro alla tragedia mentre altri riusciranno a uscire da un confinamento imposto per arrivare finalmente alle stelle e al successo davanti ai media. Ciò che di più toccante ci presenta il documentario è il desiderio di alcuni di questi ragazzi di avvicinarsi a modelli che nel loro intimo sanno essere inarrivabili (per qualcuno poi in realtà qualcosa si muoverà davvero), un desiderio di lusso, di "bella vita" che forse nasce come compensazione di esistenze spesso molto povere e difficili, esistenze dove essere per una volta la "regina del ballo" poteva regalare una gioia immensa. C'è indubbiamente competizione, rivalità tra le varie house ma si intuisce anche una profonda solidarietà tra esclusi che nasce da un bisogno comune di amore, sicurezza, affetto, appartenenza, tutte cose che in qualche modo questo fenomeno culturale aiutava a soddisfare e fortificare. La Livingston sembra riuscire a ottenere da questi ragazzi una confidenza e un'apertura totale, almeno all'apparenza molto diretta e sincera; la sensazione di immergersi con una certa verità all'interno di una cultura che per molti spettatori si rivelerà magari sconosciuta o poco più è il grande punto di forza di un documento agile (77 minuti) ma molto vivo e toccante.

mercoledì 4 settembre 2024

IL PARADISO PROBABILMENTE

(It must be Heaven di Elia Suleiman, 2019)

A tutt'oggi Il paradiso probabilmente risulta essere l'ultimo lungometraggio di Elia Suleiman; presentato al Festival di Cannes ormai cinque anni orsono, a differenza di altre sue opere delle quali abbiamo già parlato in passato come Intervento divino (2002) o Il tempo che ci rimane (2009), Il paradiso probabilmente è ambientato solo in minima parte in Palestina, terra d'origine del regista di Nazareth. Per questo film Suleiman mantiene molte delle caratteristiche del suo cinema ampliandone la geografia e allestendo un movimento itinerante che da casa sua porterà il regista (attore nei panni di sé stesso) prima a Parigi, roccaforte europea, e poi a New York, città dove il regista ha risieduto per oltre dieci anni dopo aver terminato gli studi a Nazareth. Se il tono comico surreale permane con lo stesso tocco lieve ma allo stesso tempo tragico che già Suleiman aveva adottato nelle sue opere precedenti, questo ultimo lungo sembra un pochino perdere il suo centro, come se il cinema del regista, sempre e anche qui comunque apprezzabile, perdesse un poco di forza lontano da casa, anche quando i temi ricorrenti di Suleiman restano gli stessi di sempre magari solo spostati ad altre latitudini come in questo caso. Non mancano motivi di interesse nei tratteggi grotteschi che il regista per esempio offre di Parigi e New York, ciò non toglie che opere quali Intervento divino e Il tempo che ci rimane risultassero a conti fatti più ficcanti e finanche divertenti (sempre in senso lato visto ciò che sta dietro al messaggio del regista).

Elia Suleiman, in qualità di protagonista del suo stesso film, non parla quasi mai, reagisce a ciò che gli accade intorno con l'osservazione, con lo sguardo. Così assiste alla quotidiana invasione del suo giardino da parte di un arrogante vicino di casa che con tutta la naturalezza del mondo gli ruba i limoni; costui però si prende anche cura dei suoi alberi e alla fine è anche bravo a farlo. Durante le sue passeggiate Suleiman si imbatte in gruppi di giovani scalmanati armati di bastoni sempre in cerca di qualcuno da picchiare, sopporta gli sfoghi verbali del suo vicino di casa un po' fuori dalle righe, vaga per il cimitero, assiste a una discussione dove due fratelli ipocritamente si ergono a consiglieri della vita della sorella e alle noncuranti malefatte della polizia. Poi parte, come a cercare una nuova dimensione altrove, prima a Parigi, poi a New York. Tra situazioni surreali e grottesche quello che Suleiman trova però continua a ricordargli la Palestina, le storture di casa sua. Allora, seppur con i dovuti distinguo, non resta che prendere atto di come stanno le cose e tornare indietro, alla sua casa, al suo giardino di limoni che il vicino (Israele?) ha depredato pur continuando a gestirlo e farlo crescere.

Ovunque si volti, che sia a casa sua, a Nazareth, in Palestina come lo stesso Suleiman dichiara a un tassista di New York con le uniche parole pronunciate nel film (ufficialmente però Nazareth è in Israele), il regista viene a confrontarsi con situazioni assurde, alcune realmente ben orchestrate e divertenti come l'arrivo di Suleiman a Parigi dove l'intera popolazione sembra muoversi per le strade della città come in un'interminabile sfilata di moda (compare anche la Delevigne) o come l'inseguimento di un piccolo malfattore in una città deserta da parte di poliziotti in monociclo che si muovono come se fossero parte di un balletto urbano. Ovunque a Parigi c'è un presidio militare, sempre divertito nella rappresentazione di Suleiman, intento in ogni tipo d'attività; tutto ciò richiama un'atmosfera che chi è stato a Parigi dopo i famosi attentati di qualche anno fa ha potuto in effetti toccare con mano. Ricorre anche il desiderio trattenuto, in patria di certo frustrato, per la figura di una donna libera e indipendente, in Europa ancora possibile; a ogni modo a Parigi il film che Suleiman sta cercando di mettere in piedi e per il quale è alla ricerca di fondi non interessa a nessuno. Quando giunge a New York, in America, il Paese delle libertà, Suleiman trova solamente persone armate fino ai denti, in un crescendo assurdo che purtroppo ci ricorda quanto gli States siano attaccati alla loro violenza atavica e al culto delle armi e della difesa personale (e dell'offesa non solo personale). Ancora una volta Suleiman tratta con tocco leggero temi scottanti dettati dalla sua geografia, dalla nascita in un territorio martoriato: Il paradiso probabilmente (che pare a questo punto non esistere, almeno non in Terra), seppur arguto e riuscito, risulta meno efficace dei film precedenti, il peregrinare del regista forse disperde un poco di energie che altrove sembravano meglio focalizzate; oltre a questa vaga sensazione di maggior debolezza il film rimane assolutamente godibile, un altro pezzo di percorso di un regista di ottima caratura.

lunedì 2 settembre 2024

FRINGE

(di J. J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci, 2018/2013)

Fringe arriva sugli schermi televisivi quando Lost iniziava la sua corsa conclusiva con la messa in onda della penultima stagione; i due serial presentano diversi punti di contatto il più importante dei quali è l'avere in comune uno degli ideatori, quel J. J. Abrams che, insieme ad altri, è diventato uno dei simboli della rinascita della serialità televisiva negli anni duemila, riuscendo a portare sul piccolo schermo proposte qualitative e innovative dando vigore e importanza a una narrazione orizzontale capace, come capitato per Lost, di incollare milioni di persone alle proprie poltrone e divani in un'epoca in cui per guardarti la nuova puntata del tuo serial preferito dovevi aspettare una settimana: niente piattaforme, niente binge watching, solo tanta passione e moltissima pazienza. Che tempi quando dopo un cliffangher pazzesco partivano i titoli di coda e fino alla settima successiva (o all'anno successivo se si era in finale di stagione) te ne dovevi star lì appeso e pazientare, pregustare, fomentare l'hype. In questo Lost è stata un'esperienza illuminante, una vera e propria storia d'amore che nemmeno il finale un po' così è riuscito a intaccare nel ricordo; è probabile che in molti all'epoca riposero in Fringe le speranze di un'esperienza di visione totalizzante come fu quella con il più noto predecessore. Sembra però che non per tutti sia andata proprio così, sia tra gli spettatori della prima ora sia tra chi, come chi scrive, ha effettuato il recupero proprio grazie alle moderne piattaforme solo in tempi recenti, magari con la speranza di ritrovare quella scintilla che J. J. seppe accendere così bene anni addietro.

Anche con Fringe siamo nel campo della narrazione fantastica: se in Lost l'aspetto che scardinava le regole della realtà per come la conosciamo verteva su una base più filosofica o metafisica, l'approccio di Fringe all'inspiegabile si muove in direzione delle pseudoscienze qui declinate nella maniera più fantasiosa possibile ma sviluppate da Abrams e soci in modo che queste mantengano sempre un'aura di credibilità nel rispetto delle basi tracciate per la costruzione di questo nuovo mondo (di questi nuovi mondi) finzionale/i. La serie inizia con gli agenti dell'F.B.I. Olivia Dunham (Anna Torv) e John Scott (Mark Valley) coinvolti nell'indagine di un caso singolare, quello su un volo di linea (non l'815 della Oceanic) atterrato a Boston con tutti i passeggeri in stato di decomposizione. Lo sviluppo di questa situazione inspiegabile porterà la Dunham a richiedere l'aiuto del dottor Walter Bishop (John Noble), esperto in scienze fuori dal comune; l'uomo è però ricoverato in una clinica psichiatrica dato il suo stato mentale non del tutto lucido. Per avere il permesso di far uscire il paziente/dottore Olivia rintraccerà il figlio Peter (Joshua Jackson), altra mente brillante al momento impegnata in affarucci poco puliti in Iraq. Vista l'ottima prestazione investigativa della Dunham e dei due Bishop, padre e figlio, l'agente dell'F.B.I. Phillip Broyles (Lance Reddick) proporrà ai tre l'inserimento nella Sezione Fringe, un ramo occulto del Bureau nato proprio per indagare su casi che non trovano spiegazione nel razionale, una tipologia di eventi in costante aumento negli ultimi anni, almeno nella realtà che nella prima stagione il serial Fringe inizia a illustrarci.

Dopo l'innovazione portata da Lost, la nuova serie di Abrams si prefigge di fare un piccolo passo indietro per abbracciare una narrazione dove gli episodi (troppi se rivisti oggi) volevano essere, almeno in parte, meno concatenati alla trama orizzontale per risultare più fruibili anche per lo spettatore che non riusciva a star dietro a ogni singola messa in onda. Il parallelo che viene più naturale fare, anche se scontato, per temi e impostazione è quello con il seminale X-Files che vide protagonisti gli ormai storici Mulder (David Duchovny) e Scully (Gillian Anderson). Questo per diverse ovvie ragioni. La prima è la propensione al fantastico che si concentra in Fringe, dalle battute finali della prima stagione, verso una teoria degli universi paralleli con la possibilità di alcuni punti di contatto tra loro laddove invece per X-Files imperava la presenza di vita extraterrestre (I want to believe) e il complotto governativo per tenerla nascosta. La seconda è proprio la struttura della narrazione che richiama da vicino quella di X-Files con l'alternarsi di episodi più centrati sulla trama degli universi paralleli ad altri invece più slegati rispetto al tema principale ma sempre ben inseriti nelle coordinate fantastiche pensate per lo show. La terza è la creazione graduale di quel rapporto d'attrazione tra la Dunham e Bishop che in effetti, come accadeva in maniera molto più trattenuta e quindi più efficace tra Mulder e Scully, regala alcuni tra i momenti migliori della serie che rivaleggiano con quelli, ancor più intensi, che sviluppano un rapporto padre/figlio per forza di cose complesso tra i due Bishop (momenti di alta commozione sul finale). Nella parte iniziale della corsa durata cinque stagioni (100 episodi) Fringe si muove molto bene solleticando su più fronti la curiosità dello spettatore: i personaggi sono ben scritti e interpretati molto bene soprattutto dalla Torv e da un John Noble che a dispetto di un volto apparentemente granitico e scolpito nella pietra gode di una gamma espressiva efficacissima e variegata, capace a più riprese di farci commuovere con facilità, il suo personaggio è inoltre dotato di una comicità non cercata che si rivela essere in molte occasioni irresistibile. Gli indizi sui casi inusuali si affastellano uno sull'altro a partire già dalla creazione della sigla conflagrano in un finale di prima stagione notevole. I problemi iniziano a venir fuori con il passare delle stagioni e con quell'abitudine al tempo ancora abusata di inanellare più di venti episodi l'anno, cosa che, soprattutto in relazione alle abitudini di visione e produzione odierne, rischiano di fiaccare la tenuta dello show e la pazienza degli spettatori. Diversi episodi non riescono a mantenere i sufficienti livelli di interesse anche se nella struttura gli scarti di trama e situazioni non mancano. Nelle ultime stagioni il progetto globale sembra perdere un poco la strada e andare fuori fuoco soprattutto nella gestione del personaggio di Peter dal quale ci si aspettavano cose diverse e un ruolo più da deus ex machina o quantomeno da nodo focale, cosa che si è poi rivelata fallace (in maniera non positiva). Alla fine per arrivare a termine della quinta stagione si arranca un poco; spesso si sottovaluta, soprattutto nelle serie, il grande potere della brevità; le lungaggini, quando non utili allo sviluppo di trama e personaggi, raramente ripagano. Un po' un peccato perché l'iconografia legata allo show (la mano con sei dita, il fiore con l'ala d'insetto al posto del petalo, la mela con i feti al posto dei semi, etc...) e la gestione di universi multipli e personaggi doppi è molto intrigante e per diverso tempo ha funzionato molto bene; rimane un poco l'impressione che si sia buttata via l'occasione di creare qualcosa di realmente riuscito. Magari in un altro universo J. J....

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