domenica 29 settembre 2024

CAPITALISM: A LOVE STORY

(di Michael Moore, 2009)

Recupero indubbiamente tardivo ma non fuori tempo massimo questo di Capitalism. A love story del regista Michael Moore dato l'argomento purtroppo ancora tragicamente attuale. Moore arriva a questo documentario sui mali perpetrati dal capitalismo e dai suoi seguaci oltranzisti dopo aver mosso i suoi primi passi giusto venti anni prima in quel di Flint, la città dove il regista classe 1954 è nato e cresciuto, raccontandone le allora coeve vicissitudini legati all'ondata di licenziamenti messa in atto nel locale stabilimento dalla casa automobilistica General Motors nonostante l'azienda godesse all'epoca di ottima salute (è il capitalismo, baby!). I temi che stanno a cuore al regista del Michigan, soprusi aziendali a scapito dell'occupazione, delocalizzazione, prevaricazioni, tornano anche in Downsize this! e The Big One. Nel 2003 per Moore arriva anche il premio Oscar nella categoria "miglior documentario" per Bowling a Columbine; prendendo come motore scatenante la tragedia di Columbine, la quale mosse anche Gus Van Sant per il suo Elephant, Moore mette alla gogna il disagio tutto americano della fascinazione per le armi e la violenza che la loro diffusione porta nelle strade, peggio ancora nelle scuole, degli Stati Uniti d'America. Con Fahrenheit 9/11 Moore si scaglia contro la guerrafondaia amministrazione Bush e ottiene la Palma d'oro a Cannes, risultato storico per un documentario. Nel 2007, solo due anni prima di questo Capitalism. A love story il regista mette sotto accusa l'intero sistema sanitario americano con Sicko, ne tratteggia l'immoralità e la mancanza di etica che peraltro contraddistingue numerosi aspetti del Grande Paese. Capitalism. A love story è soltanto l'ultimo tassello che arriva a mettere in luce la stortura di un sistema che si vorrebbe esportare identico in tutto il mondo (il capitalismo, non la democrazia) per mantenere saldi controllo e benessere in mano a pochi eletti.

Dopo vent'anni Michael Moore ritorna a Flint, perché cos'era la vicenda del suo paese natale se non una delle tante storie di sciacallaggio aziendale tipiche e finanche perseguite dal sistema del capitale spinto così in voga negli U.S.A. almeno dai primissimi anni 80 in avanti? Moore esplora i fondamenti del capitalismo, le sue storture e le conseguenti aberrazioni prodotte ai danni dei cittadini statunitensi (e di riflesso del mondo, pensiamo solo a Lehman Brothers); per farlo parte dall'antica Roma e dai suoi privilegi per pochi eletti fino a chiudere su un commosso Franklin Delano Roosevelt, ormai malato, che propone una nuova carta dei diritti basata sul diritto alla casa per le famiglie, su un mercato libero da monopoli e giochi di forza, equo e dignitoso, su un sistema sanitario garantito, su un sistema garante delle pensioni e dell'istruzione che potesse mettere i cittadini al riparo dalla malattia, dagli eventuali infortuni e dalle perdite di lavoro. Roosevelt morì l'anno successivo, ovviamente della sua carta dei diritti non se ne fece più nulla. Quello che Moore ci mostra sono le ricadute di un sistema ormai traviato e corrotto, astratto per molti versi, sulla vita reale, sulle persone, sui loro affetti e sulle loro esistenze, mette in relazione le grandi tragedie personali con la propaganda politica e finanziaria che bombarda in America persone spesso non preparate a capire cosa stanno realmente facendo con i loro soldi, con le loro case (pensiamo a tutti i prodotti sub-prime, agli incentivi a ipotecare le case per ottenere liquidità, etc...). Sembra assurdo poi vedere come questi alfieri del capitalismo spinto, bravissimi nel farlo, abbiano nel corso dei decenni inculcato nella testa degli americani il terrore per parole come socialismo, comunista e cose del genere, probabilmente anche del colore rosso, mi chiedo se negli U.S.A. qualcuno di sua spontanea volontà si compri un'auto o un maglione di colore rosso senza cagarsi addosso o provare vergogna. E così case pignorate, disoccupazione, lavori di responsabilità pagati con sacchetti di noccioline e via discorrendo.

Quello di Moore è un documentario di parte, quando guardi un lavoro di Moore sai cosa stai andando a vedere, con tutti i dovuti distinguo è un po' come guardare un film di Ken Loach, sai più o meno la direzione che prenderà il vento anche senza essere un meteorologo. Moore non condanna in toto il capitalismo, mostra alcuni esempi virtuosi dove gruppi di imprenditori/lavoratori portano avanti aziende remunerative e in attivo che credono nella redistribuzione della ricchezza a vantaggio di tutti, come sempre non è lo strumento in sé a essere sbagliato, è come lo si usa. E come lo si usa oggi nel mondo è il modo sbagliato (e spesso lo si fa con dolo in maniera criminale). Il regista come sempre mantiene un tono leggiadro e ironico che alleggerisce la visione anche quando gli argomenti trattati dovrebbero farci incazzare tutti (e spesso lo fanno, alcuni passaggi sono dolorosi, altri sono tragicomici per l'idiozia e la mancanza di vergogna che il sistema del capitale può arrivare ad assumere). Così assistiamo a esperti di finanza che non riescono a spiegare il funzionamento dei prodotti derivati (in fondo come fanno a condannarti se nessuno capisce un cazzo di quello che hai fatto?), al tentativo di Moore di andare a recuperare nelle banche i soldi dei contribuenti con tanto di sacchetti per la raccolta, lo vediamo sigillare con il celebre nastro giallo con la scritta "Crime scene do not cross" l'edificio della Citibank, ovviamente le banche e la finanza sono insieme a Wall Street l'obiettivo principale di Moore in questo Capitalism. A love story. Non c'è molto da dire, quello che ci racconta il regista è sotto gli occhi di tutti da un sacco di tempo, Moore chiude con un appello a impegnarsi nel fare tutti qualcosa al riguardo e con una dichiarazione d'intenti: "Mi rifiuto di vivere in un Paese del genere. E non me ne vado".

martedì 24 settembre 2024

ACTUAL PEOPLE

(di Kit Zauhar, 2021)

Con Actual people, opera prima della regista oggi ventinovenne Kit Zauhar, torniamo al cinema indipendente americano, quello realizzato con budget risicati, mezzi poveri e fatto principalmente di discorsi e scambi di battute tra personaggi; il film della Zauhar, nata negli States da madre cinese, può ascriversi facilmente al genere del mumblecore, questo in virtù di una vicenda portata avanti senza ricorrere alla rappresentazione di grossi eventi ma basata sulla costruzione di personaggi e situazioni visti in una quotidianità ottenuta facendoli parlare, portandoli a esprimere i loro dubbi e i loro malesseri, seguendoli mentre tentano di percorrere nuove strade sentimentali, mentre rimuginano sulla loro esistenza, il tutto sotto l'occhio dello spettatore che ha l'impressione di assistere in toto a uno stralcio di vita della protagonista, qui interpretata dalla stessa regista. Forse per offrire più facilmente un'impressione di realtà, forse per questioni di praticità e budget, la Zauhar sceglie un approccio autobiografico per il suo esordio nel lungo, l'assetto familiare della protagonista richiama infatti in maniera precisa quello reale della regista, la sorella per esempio è interpretata da Vivian Zauhar, facile ipotizzare sia realmente la sorella di Kit, così come nel film la madre è cinese e il padre presumibilmente americano. Girato in una decina di giorni con una spesa di circa 10.000 dollari Actual people è l'esempio di come si possa realizzare qualcosa di interessante senza dover per forza muovere somme di denaro pari al PIL di un piccolo Stato magari situato ai margini dell'impero del capitale.

Riley (Kit Zauhar) è una giovane ragazza giunta alle ultime settimane d'università; il momento della laurea si avvicina ma per lei c'è ancora lo scoglio di quell'ultimo esame che non è andato troppo bene e che potrebbe rallentare le cose garantendo una sicura delusione ai suoi genitori. A New York, città dove frequenta i suoi corsi di studi, Riley condivide un appartamento con un ragazzo con il quale una volta ha fatto sesso ignorandolo subito dopo e che ora non la vorrebbe più tra i piedi, frequenta un gruppetto di amiche con le quali partecipa a diverse feste durante le quali Riley cerca di sondare il terreno per un possibile nuovo aggancio sentimentale, il suo vecchio ragazzo (Randall Palmer) con il quale era stato per i primi anni di università l'ha lasciata per un altra, cosa che Riley non ha ancora dimenticato né probabilmente perdonato. A una di queste feste Riley incontra Leo (Scott Albrecht), come lei anche lui originario di Philadelphia, se ne invaghisce, ci finisce a letto e inizia a fantasticare su una relazione duratura al quale lui non sembra essere troppo interessato. Con l'avvicinarsi della fine del percorso scolastico Riley inizia a essere assalita da dubbi e ansie riguardanti il futuro: è davvero giunto il momento di diventare adulti? Con chi dividerà il suo tempo e soprattutto cosa farà da grande? Dove vivrà, a New York o a Philadelphia? A tutte queste domande Riley non sa dare nessuna risposta.

Con un film molto semplice e portato a casa con il minimo dispendio di fondi Kit Zauhar tratteggia in maniera efficace e diretta almeno una buona fetta della sua generazione ("sei proprio una millenial" la insulta il suo coinquilino). Emerge su tutto quell'incertezza e quell'ansia per il futuro, ma anche solo per la quotidianità prossima ventura, che colpisce molti giovani d'oggi: il senso di inadeguatezza, la paura di ciò che ancora non è dato, la fragilità dei rapporti sono tutti elementi d'insicurezza che ben si condensano nella scena della seduta con la psicologa messa a disposizione dall'istituzione scolastica che per Riley sembra essere un forte punto di riferimento, almeno temporaneo, nonostante la precarietà di questa relazione professionale. E questo è solo uno degli elementi che vanno acostruire una situazione d'insieme sempre pronta a propendere verso la disperazione o il panico. Quella della Zauhar si pone quindi come una voce interessante e schietta nel panorama cinematografico giovane, più stratificata di quel che può sembrare a un primo impatto e a una prima visione, la regista racconta con naturalezza ciò di cui ha evidentemente conoscenza e consapevolezza. Non ci sono grandi segnali di stile, si predilige un approccio naturale e spontaneo, molta camera a mano, nulla di troppo studiato (almeno all'apparenza, poi chissà), la narrazione è inframezzata da qualche video che richiama i metodi di relazione e contatto in voga oggi, pratica che in realtà non sembra essere poi così integrata al resto del film né realmente funzionale. Nulla di rivoluzionario ma almeno Actual people gode di quella freschezza e del giusto piglio necessari per mantenere vivo l'interesse per la scena indipendente U.S.A. alla quale ogni tanto fa piacere tornare.

domenica 22 settembre 2024

TRANSAMERICA

(di Duncan Tucker, 2005)

Unicum per quel che riguarda il lungometraggio, questo Transamerica è il solo film a firma Duncan Tucker, regista che dal 2005 a oggi non ha girato altro, un po' un peccato perché questo on the road sulle strade degli Stati Uniti d'America non era (non è tuttora) affatto male costituendo a tutti gli effetti un esordio davvero convincente e che dava adito a diverse speranze. E invece... e invece sembra che Tucker, dopo aver raccolto diversi riconoscimenti per la sua opera prima, si sia poi dedicato ad altre forme d'arte come la pittura e la fotografia per le quali tiene diverse mostre negli Stati Uniti. È un esordio spontaneo quello di Tucker che affronta un tema delicato, quello dell'identità transgender, in maniera diretta e senza troppe sovrastrutture, costruendo una storia in movimento dove il racconto sulla strada è catalizzatore se non proprio di una subitanea crescita almeno di un graduale e difficoltoso cambiamento, assecondando un poco il ritmo di come gli eventi della vita si muovono nella realtà. Si apprezza dell'approccio alla narrazione di Tucker la sobrietà e la volontà di non cadere nell'eccesso pur non risultando mai serioso, anzi, donando a una storia nella quale è presente una bella dose di sofferenza un piglio divertente che alleggerisce con naturalezza situazioni tese e difficili. Nel far quanto appena descritto il regista di Kansas City inserisce molti degli scenari propri del film di viaggio americano: spazi sconfinati, abitazioni isolate, posti di passaggio, aree di servizio e tutta quella mitologia geografica che proprio il cinema ci ha insegnato ad amare nel corso dei decenni.

Bree Osbourne (Felicity Huffman), nata Stanley Osbourne, è una transgender che sta seguendo un percorso psicologico e fisico (pastiglie di ormoni) al fine di arrivare all'operazione che le permetterà di cambiare definitivamente sesso e coronare il sogno di essere donna in maniera completa, assumendo quell'identità di genere che ha sentito sua fin da tenera età. L'ultimo ok per l'operazione deve darlo la sua psicoterapista (Elizabeth Pena) finora molto contenta del percorso effettuato da Bree. Poco tempo prima dell'intervento Bree viene contattata dal carcere dei minori di New York da un certo Toby Wilkins (Kevin Zegers), un ragazzo in stato di arresto per prostituzione e possesso di stupefacenti che dice di essere il figlio di Stanley; Bree reagisce mentendo al ragazzo dicendogli che Stanley non abita più lì. È così che Bree scopre di aver avuto un figlio da quell'unica relazione eterosessuale consumata in gioventù; quando anche la psicoterapeuta viene a conoscenza del fatto impone a Bree di affrontare il ragazzo, pena il mancato ok per l'operazione, cosa alla quale Bree tiene più che a tutto il resto. Bree si recherà così a New York e pagherà la cauzione al ragazzo senza però dirgli mai chi lei sia in realtà e nemmeno parlandogli della sua condizione in mutamento, facendosi invece passare per il membro (niente battute, please) di una chiesa che si opera per aiutare i ragazzi bisognosi. Toby non è un cattivo ragazzo nel profondo ma di certo è uno sbandato a cui mancano i legami e una famiglia (nel frattempo la madre è morta); l'interazione tra i due all'inizio non sarà facile ma il viaggio verso Los Angeles, dove Bree deve operarsi e dove Toby vorrebbe sfondare nel cinema cercando inoltre di rintracciare un padre che ha mitizzato (e che al limite ora potrebbe essere una madre), servirà ai due per conoscersi e per contribuire a dare un giro di vite, non semplice, alle loro vite che potrebbero aprirsi a un futuro migliore.

Nel costruire questo Transamerica Tucker ha l'intuizione felice di affidarsi a una perfetta Felicity Huffman per il ruolo di Bree; l'attrice nota più che altro per il ruolo di Lynette in Desperate Housewives interpreta magnificamente un uomo che a fatica cerca la sua voce vera (in tutti i sensi), quella femminile, lo fa guardando a un modello di donna antico, pulito e ricercato, una ricerca che rispecchia la profondità del desiderio di femminilità di una protagonista che avrebbe potuto scegliere una via più semplice verso l'accettazione collettiva. È fuor di dubbio lei/lui il personaggio portante di Transamerica nonostante le difficoltà di suo figlio non siano da trascurare, soprattutto in quella fantasia fanciullesca su un padre benestante che potrebbe accoglierlo in quel di L.A. (Bree tra l'altro non gode di un gran conto in banca), un padre che Toby idealizza mentre egli sta diventando una potenziale madre. Nel loro percorso, classico e sicuramente nemmeno troppo trasgressivo a livello narrativo, lungo il loro viaggio, i due affronteranno il loro rapporto ma anche quello con la famiglia d'origine di Bree (in realtà è quella di entrambi a insaputa di Toby), un nucleo familiare che per la donna non è mai stato un nido, un porto sicuro, con una madre (Fionnula Flanagan) che continua a non accettare le predisposizioni del suo Stanley e una sorella un poco stronza (Carrie Preston). Così l'aprirsi a un futuro forse migliore passerà per forza di cose dal confronto con un passato e un presente di ingombranti tensioni. Ci si muove poi verso un'inevitabile rivelazione e un finale che non può essere altro che un inizio. Tucker dirige con mano convenzionale ma sempre mettendo in campo una giusta misura, un equilibrio magari prevedibile ma anche sincero, affronta un tema spinoso con il rispetto e la delicatezza che sicuramente non sempre accompagnano la realtà ma di cui in fondo ci sarebbe davvero bisogno.

giovedì 19 settembre 2024

L'UOMO CHE CADDE SULLA TERRA

(The man who fell to Earth di Nicolas Roeg, 1976)

Che cos'è L'uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg? Certo, è un film, ma che tipo di film è L'uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg? È questa una domanda alla quale non è semplice fornire una risposta netta; è un oggetto strano quello di Roeg, difficile da inquadrare e ancor meno da incasellare in un genere (fantascienza?), ancor meno semplice è ricavarne significati e sottotesti univoci, sembra invece necessario per film come questo lasciarsi trasportare dalle immagini, dalla storia (che tra divagazioni varie è ben presente), dai personaggi, dall'interpretazione di un David Bowie all'esordio davanti alla macchina da presa in un lungometraggio e soprattutto dalle scelte tecniche operate dal regista (ed ex direttore della fotografia) e dai suoi collaboratori, su tutti Anthony Richmond alla fotografia, Graeme Clifford al montaggio e Stomu Yamashta alle musiche (che in origine avrebbero dovuto essere composte dallo stesso Bowie, soluzione poi accantonata). Ne esce un film di indubbio fascino, rafforzato dalla presenza di un Bowie straniante; la sua figura è la personificazione perfetta dell'alieno, del bizzarro: il suo pallore, la sua eterocromia, il colore vivo dei capelli, l'aspetto emaciato, donano al personaggio di Thomas Jerome Newton quella credibilità ultraterrena che regala una marcia in più all'ottimo lavoro visivo messo in campo da Roeg e dalla sua squadra.

Thomas Jerome Newton (David Bowie) è un uomo (?) caduto dal cielo, un alieno che arriva sul nostro mondo con uno scopo ben preciso. Tra i suoi primi atti sulla Terra ci sono quello di racimolare qualche dollaro impegnando un anello e quello di contattare l'avvocato newyorkese Oliver Farnsworth (Buck Henry) e depositare presso di lui tutta una serie di brevetti rivoluzionari, ottenuti grazie alle conoscenze aliene di Newton, che cambieranno per sempre alcuni settori come quello della fotografia e dell'elettronica e che faranno fare a Newton un sacco di soldi con i quali fonderà una sua azienda, la World Enterprises, impresa che gestirà con l'aiuto tecnico e finanziario di Farnsworth. L'obiettivo finale di Newton è quello di aprire un suo programma spaziale per costruire una navicella con la quale tornare a casa, un mondo arido e ormai morente, un pianeta con un disperato bisogno d'acqua sul quale Newton ha lasciato una moglie e due figli. Per realizzare il suo progetto l'alieno chiede aiuto allo scienziato Nathan Bryce (Rip Torn) il quale, come tutti gli altri, da principio ignora la provenienza extraterrestre del suo nuovo datore di lavoro. Durante la sua permanenza sulla Terra il visitatore stringerà una sorta di relazione con la cameriera Mary-Lou (Candy Clark); le cose per lui si complicheranno quando qualcuno inizierà a intuire la sua vera natura, la sua azienda, i suoi programmi e i suoi capitali attireranno anche l'attenzione della C.I.A., tutti elementi che metteranno a rischio il suo progetto di tornare a casa con delle soluzioni per il suo pianeta.

Al centro di questa storia mutuata dal romanzo omonimo di Walter Tavis, potremmo dire ci sia sopra a tutto la solitudine di un visitatore che nel nostro mondo non trova né conforto né relazioni alle quali riesca mai davvero ad aggrapparsi. Nel vagare sperso e discontinuo di questo alieno, che solo dopo buona parte del film si rivelerà nelle sue reali fattezze, risalta l'aderenza viscerale di un Bowie all'apparenza non decifrabile al suo personaggio, il senso di spaesamento e a volte di ineluttabilità ("se foste venuti voi sul nostro mondo probabilmente vi avremmo trattati allo stesso modo"), conferiscono a Thomas Jerome Newton un'aura di verità inconoscibile e allo stesso tempo indiscutibile. L'approccio alla narrazione è ondivago, non schematico né diretto, L'uomo che cadde sulla Terra è un film che va assorbito per essere apprezzato e interiorizzato, è una sensazione, un trasporto in uno strano altroquando che nasce parallelo alla New Hollywood, porta in sé un che di sperimentale e molta scelta registica, raffinata ed eclettica che apre su paesaggi e fotografie illuminanti e appaganti. Tornando alla solitudine del protagonista, lontano da casa, non capito e osteggiato, il contatto con l'altro prende forma a più riprese in sessioni di sesso esplorativo, in rapporti ambigui (quello con Bryce ad esempio), in una fragilità disarmante, fino a cedere a una rassegnazione alcolica e deteriore che nessuno potrà frenare. A conti fatti si potrebbe quasi azzardare come, con la benedizione di Roeg (fondamentale), Newton e Bowie siano il film.

lunedì 16 settembre 2024

GLI ULTIMI FUOCHI

(The last tycoon di Francis Scott Fitzgerald, 1941)

Francis Scott Fitzgerald muore di attacco cardiaco (il suo secondo) nel dicembre del 1940, l'anno precedente l'uscita del suo ultimo, postumo e incompiuto romanzo: Gli ultimi fuochi, The last tycoon in originale poi editato anche come The love of the last tycoon (L'amore dell'ultimo milionario in italiano). De Gli ultimi fuochi quello che rimane è una prima stesura di sei capitoli (l'ultimo incompleto) che Fitzgerald avrebbe quasi sicuramente rivisto se ne avesse avuto la possibilità, apportando chissà quali modifiche, e ampliato con capitoli successivi, episodi il cui contenuto, più che la struttura, si può solo ipotizzare grazie agli appunti e alle idee che Fitzgerald stesso lasciò su carta prima della sua dipartita. Per quel che riguarda i capitoli già scritti sono rimasti note e stralci a margine con i quali Fitzgerald esprimeva dubbi e fissava idee per eventuali modifiche da sviluppare in fase di revisione o quantomeno al momento di una ulteriore stesura; nelle intenzioni dello scrittore Gli ultimi fuochi doveva essere il romanzo della definitiva maturità, che poi dopo aver già scritto cose come Il grande Gatsby o Tenera è la notte non è che avesse ancora grandi cose da dimostrare. Sembra che Fizgerald si fosse imposto un romanzo di lunghezza non troppo estesa ma già con questi primi sei capitoli, non sufficienti ad avvicinarsi alla conclusione del romanzo, sembra avesse già superato i limiti ipotizzati dalla sua idea iniziale. Ambientato nel mondo del cinema Gli ultimi fuochi vede come protagonista il produttore Monroe Stahr, un personaggio già ben definito in questa versione del romanzo che chissà cosa sarebbe potuto diventare se a Fitzgerald fosse stato concesso il tempo materiale per lavorarci sopra come lui avrebbe voluto.

Cecilia Brady, pur non avendo a che farci direttamente, è cresciuta a stretto contatto con il mondo del cinema e degli studios di Hollywood, suo padre è difatti l'importante produttore Pat Brady. La giovane sembra consapevole che quella del cinema potrebbe non essere l'industria più salubre del mondo, la ragazza però la accetta per quella che è, ha fiducia nel padre e soprattutto nel di lui socio Monroe Stahr, uomo più grande di lei e per il quale Cecilia si è presa una discreta sbandata. Stahr però è un uomo completamente assorbito dal suo lavoro tanto che nell'ambiente si è creata attorno a lui quasi un'aura mitologica, la diffusa convinzione che sul set, così come fuori da esso, Stahr sarebbe stato capace di risolvere qualsiasi problema per portare a termine un film, a volte salvandolo dal disastro, altre portandolo a conclusione consapevolmente in perdita, forte di una lungimiranza che altri avrebbero potuto vantare solo con un senno di poi completamente inutile al momento di dover prendere decisioni così su due piedi. E alla fine Stahr dimostra di aver quasi sempre ragione. Un giorno, durante un terremoto nel quale vengono coinvolti anche gli studios, Stahr salva due fanciulle da una situazione difficile. Una di queste, l'inglese Kathleen Moore, ricorda all'uomo la sua defunta moglie, l'attrice Minna Davis. Forse proprio a causa di questa somiglianza Stahr idealizza Kathleen e si propone di conoscerla meglio aprendosi dopo tanto tempo dedicato unicamente al lavoro a un nuovo amore. Ma la vita non sempre è benevola, alla fine solo il lavoro rimane lì a riempire le giornate di questo produttore dal tocco magico.

Già nelle edizioni ormai vecchiotte de Gli ultimi fuochi (ho sottomano un'edizione semidistrutta del 1959 della collana Il Bosco - Arnoldo Mondadori Editore) è possibile leggere oltre ai capitoli nella stesura di Fitzgerald anche il materiale da lui abbozzato e non ancora usato, riordinato dal critico, scrittore e amico di Fitzgerald Edmund Wilson. Si prosegue quindi con appunti e annotazioni che danno un'idea di quelle che erano le intenzioni dell'autore per il prosieguo del romanzo, e ancora schemi di struttura e approfondimenti tematici su personaggi e situazioni o sviluppi, tutto dedotto da ciò che Fitzgerald ha lasciato scritto o anche da intenzioni riferite a collaboratori e amici. Ciò che si può osservare in merito a questo Gli ultimi fuochi, a differenza di ciò che avveniva per altri romanzi dello scrittore, è come Fitzgerald abbia delineato (o abbia iniziato a delineare) un personaggio all'interno di un mondo ben preciso che non è quello all'apparenza superficiale e festaiolo di Gatsby o di Dick Diver (Tenera è la notte) bensì quello di Hollywood che, seppur ambiente anche questo che richiama il faceto e il mondano, trova in Stahr un vero lavoratore tuttofare e stakanovista della settima arte. I ben informati affermano come quello di Fitzgerald sia uno dei ritratti più arguti e veritieri dell'industria cinematografica vista dal di dentro. Il protagonista si muove quindi tra l'attaccamento al lavoro e l'apertura verso una possibile nuova storia d'amore affrontata con slancio e anche con una certa ingenuità che in altri ambiti non gli appartiene; gustose le diatribe con altri protagonisti che orbitano intorno agli studios, tutto reso con uno stile, seppur ancora in fase di elaborazione, più asciutto e diretto rispetto a quanto mostrato in passato da Fitzgerald in altre sue opere. Difficile esprimere certezze per un romanzo non finito e non completamente cesellato, il talento dello scrittore è evidente ma non è che lo si sia scoperto nel momento di quest'ultima pubblicazione, rimane il rimpianto di non aver potuto vedere la versione del romanzo che Fitzgerald avrebbe bollato come definitiva.

sabato 14 settembre 2024

DON'T WORRY DARLING

(di Olivia Wilde, 2022)

Devo ammettere che la curiosità per l'opera seconda di Olivia Wilde in veste di regista non era poca, questo soprattutto in virtù di uno degli esordi nella commedia più divertenti e ben dosati degli ultimi anni; con La rivincita delle sfigate la Wilde affrontava con piglio sciolto e diretto una commedia adolescenziale al femminile che metteva in scena situazioni e temi che il pubblico è stato abituato negli anni a vedere al cinema declinati in chiave maschile, lo faceva con intelligenza, senza troppe remore né timore reverenziale e soprattutto con un film che si rivelò divertente nella maniera più schietta possibile, una bellissima sorpresa. Con questa seconda opera che cambia completamente genere e registro la Wilde si conferma regista capace e dotata di un certo gusto per la messa in scena e per la confezione del prodotto, qui meno diretto e più "pensato" del precedente. Ciò nonostante Don't worry darling, pur affascinando e inanellando punti a favore non trascurabili, risulta meno a fuoco e riuscito del precedente lavoro della regista e attrice newyorkese, vuoi per un genere magari a lei meno congeniale (e derivativo in maniera netta e lampante), vuoi per alcune scelte in fase di sceneggiatura non completamente azzeccate nonostante alla scrittura compaia la stessa Katie Silberman già presente al tavolo de La rivincita delle sfigate. L'attesa è stata poi fomentata anche dalla curiosità "gossippara" del vedere diretto dalla Wilde la sua all'epoca nuova fiamma, il cantante Harry Styles (nulla di memorabile la sua prova a dir la verità, meglio come cantante).

America anni 50. Jack (Harry Styles) e Alice Chambers (Florence Pugh) sono una bella coppia di sposini che da qualche tempo si è trasferita nel paesino di Victory, una sorta di piccola comunità idilliaca sorta nel bel mezzo del deserto e che sembra soddisfare molte di quelle caratteristiche che il sogno americano di quegli anni spingeva allettando uomini e donne dell'epoca del boom economico a farne parte godendosene tutti i vantaggi. Ed è così che Jack e Alice si sono trasferiti a Victory, lui per far parte del progetto Victory, azienda di quella specie di guru futurista di Frank (Chris Pine) che dà anche nome alla cittadina, lei per seguire il suo amato maritino e sostenerlo nel perseguire i suoi sogni. I due sono inseriti in un contesto florido: belle case, vicini di casa che presto sono diventati amici come Dean (Nick Kroll) e Bunny (Olivia Wilde), auto prestanti e colorate, feste e gratitudine da parte del capo Frank, alcol, piscine, chiacchiere e per Jack (e per gli altri uomini) un lavoro entusiasmante e segretissimo. Ma sotto la superficie di questa utopia perfetta e ristretta cova qualche inquietudine. Una delle mogli di Victory, Margaret (Kiki Layne), contravviene a una delle regole basilari dettate da Frank: mai avventurarsi nel deserto per andare a curiosare dalle parti della sede dell'azienda. Nel suo peregrinare Margaret perde nel deserto suo figlio in quello che agli occhi degli altri pare essere un incidente; per la donna la scomparsa del bambino è la punizione per non aver rispettato le regole di Frank. Poco a poco Margaret viene esclusa dalla vita comune e solo Alice sembra dispiacersi per l'amica. Quando sarà proprio Alice a inoltrarsi nel deserto le cose diverranno complicate anche per lei, all'apparenza e in tempi diversi anche per Jack che si troverà in una situazione di imbarazzo nei confronti del leader della comunità e dei suoi vicini e amici. Ma Alice non mollerà, vorrà venire a capo dei misteri di Victory.

Per la sua seconda opera la Wilde sceglie di  mettere in scena un film che, senza svelarvi nulla, solo all'apparenza sembra rientrare nel genere che potremmo definire "retro fantascienza distopica". Nel ricreare l'ambiente dei 50 la Wilde ricorre a un décor impeccabile, indovinato e realizzato in maniera meravigliosa. I colori, gli abiti, i giochi di luce, alcuni momenti coreografati (gli uomini che vanno a lavoro in auto al mattino), alcune abitudini reiterate, riportano al sogno americano di quell'epoca, un salto all'indietro per un film intriso di istanze contemporanee legate in particolar modo (unicamente?) al ruolo della donna e alla sopraffazione del maschio. A Victory gli uomini lavorano, fanno parte di un progetto ambizioso e misterioso, importante: alla domanda "cosa facciamo qui?" Frank risponde "cambiamo il mondo". Niente meno, però nessuno, nemmeno lo spettatore, sa di preciso cosa facciano questi uomini a Victory. E di certo non lo sanno le loro mogli che non possono lavorare, non possono nemmeno avvicinarsi all'azienda, non si devono preoccupare degli strani tremori che si sentono ogni tanto nella cittadina; loro, le donne, possono però rifare i letti, essere perfette, vedersi con la amiche, tenersi in forma, bere whisky, preparare dei bei pranzetti e organizzare feste, tutto nell'ottica di un'organizzazione domestica e di vicinato volta a supportare il lavoro così importante dei loro mariti. Quando sono fortunate possono contare su una bella sessione di sesso orale. La Wilde mette chiara sul piatto la sua istanza femminista che prende ancor più corpo su un finale che aggrava ancor di più la situazioni di questi uomini (a questo punto tutti terribili immaginiamo, almeno per quel che si può intuire dal plot twist presentato), distruttori del libero arbitrio femminile e orchi di questa idea nostalgica di (micro)mondo che ahiloro si sgretola come oggi si sta sgretolando la virilità maschile. Ora, tralasciando la sensazione di già visto sia nella struttura del film sia nei sottotesti lampanti e davvero poco sottili, all'interno di un film peraltro per una buona parte ben costruito, ciò che lascia perplessi è una costruzione che dà l'impressione di essere non conclusa e chiarificata nonostante lo svelamento finale che invece di dare soddisfazione allo spettatore lascia un po' delusi con la voglia di tornare a quelle vaghe e pindariche supposizioni che ognuno di noi spettatori si era costruito nelle prime battute del film. Non un brutto film nel complesso, la regia della Wilde è solida l'attrice si conferma interessante forse più dietro la macchina che davanti (anche perché qui è eclissata da una Florence Pugh ancora una volta stupenda nell'inquietudine come già in Midsommar), perde un po' il polso della narrazione lungo la via, come se andando per quel deserto avesse anche lei subito un senso di smarrimento, proprio come capitato (forse) al figlio (forse) di Margaret.

martedì 10 settembre 2024

PARIS IS BURNING

(di Jennie Livingston, 1990)

Nel 1990 esce questo Paris is burning, documentario di una giovane Jennie Livingston, una testimonianza molto potente nel portare alla luce, spiegando e dando la meritata dignità (non che vivendo nell'underground non ne avesse), al movimento culturale denominato ball culture o drag ball. Siamo a New York, tra gli anni Settanta e Ottanta; la scena ballroom nasce nella comunità gay newyorkese a prevalenza afroamericana e ispanica, in un contesto di emarginazione e discriminazione ancora forte e molto sentito che in più, in quegli anni, faceva i conti con il dilagare della piaga dell'AIDS che come è noto reclamò molte vite in particolare proprio tra la comunità omosessuale. Gli appartenenti a queste realtà erano spesso ragazzi scappati di casa, soli, costretti a vivere una realtà di disagio economico e con molti rischi derivanti dalla situazione contingente esterna e da un momento storico generale che nella New York di quegli anni non era affatto facile. In questo contesto, appunto non semplice né roseo, le ballroom rappresentavano un vero e proprio rifugio e avevano la funzione non solo di luogo di aggregazione ma anche quella di viatico nel creare un'appartenenza che tanti ragazzi gay, giovani, giovanissimi e meno giovani, a volte non trovavano nelle famiglie d'origine o nel tessuto sociale nel quale erano nati, al quale (non) appartenevano e dal quale venivano spesso finanche respinti.

Il fulcro del documentario della Livingston verte sulle gare di ballo che si tenevano in queste ballroom: erano esibizioni che poco avevano a che spartire con ciò che avveniva nelle discoteche o in altri locali al di fuori della comunità gay. I drag ball erano più vicini a delle sfilate di moda ibridate con la danza; uno degli stili che poi si affermò anche presso il grande pubblico grazie a Malcolm McLaren e a Madonna che se ne appropriarono (Madonna anche tradendolo) con i video rispettivamente di Deep in Vogue e Vogue, fu proprio il Vogueing, uno stile nato e cresciuto nelle ballroom dove ballerini non professionisti imitavano, esasperandoli e coreografandoli, i movimenti e le pose (strike a pose) delle top model in passerella o delle fotomodelle, spesso veri e propri modelli di vita e icone da imitare per questi ragazzi ingabbiati in un'esistenza difficile. Le ballroom non ospitavano solo esibizioni di Vogueing, le singole competizioni erano divise in tante categorie dove di volta in volta si poteva premiare l'eleganza e il portamento dei partecipanti, il confezionamento degli abiti, la perizia del gesto, la naturalezza con la quale questi ragazzi si immedesimavano nel genere femminile e via discorrendo. I vincitori di questi balli ottenevano nella comunità riconoscimento e popolarità; i primi vincitori di queste competizioni rimasti poi nella storia del movimento fondarono a loro nome (parliamo di nomi d'arte) delle "house" alle quali i giovani potevano affiliarsi e all'interno delle quali spesso ragazzi in difficoltà trovavano una vera e propria famiglia, quell'appartenenza e quell'amore che faticavano a trovare al di fuori dei loro "confini gay". La Beija, Xtravaganza, Dupree (Paris Dupree ispira il titolo del documentario), House of Ninja, sono alcuni dei nomi più famosi di queste house delle quali molti affiliati mutuavano anche il "cognome".

Paris is burning è un documento coinvolgente in quanto costruito in prima persona dai protagonisti di quell'epoca e di quel movimento; la Livingston si defila e lascia spazio alle testimonianze, a stralci d'esibizione, al contesto, alla narrazione diretta e a una serie di immagini di grande fascino che riescono a suscitare allo stesso tempo curiosità per un fenomeno culturale forse ancor poco indagato ma soprattutto empatia e tenerezza per i suoi protagonisti, alcuni dei quali andranno incontro alla tragedia mentre altri riusciranno a uscire da un confinamento imposto per arrivare finalmente alle stelle e al successo davanti ai media. Ciò che di più toccante ci presenta il documentario è il desiderio di alcuni di questi ragazzi di avvicinarsi a modelli che nel loro intimo sanno essere inarrivabili (per qualcuno poi in realtà qualcosa si muoverà davvero), un desiderio di lusso, di "bella vita" che forse nasce come compensazione di esistenze spesso molto povere e difficili, esistenze dove essere per una volta la "regina del ballo" poteva regalare una gioia immensa. C'è indubbiamente competizione, rivalità tra le varie house ma si intuisce anche una profonda solidarietà tra esclusi che nasce da un bisogno comune di amore, sicurezza, affetto, appartenenza, tutte cose che in qualche modo questo fenomeno culturale aiutava a soddisfare e fortificare. La Livingston sembra riuscire a ottenere da questi ragazzi una confidenza e un'apertura totale, almeno all'apparenza molto diretta e sincera; la sensazione di immergersi con una certa verità all'interno di una cultura che per molti spettatori si rivelerà magari sconosciuta o poco più è il grande punto di forza di un documento agile (77 minuti) ma molto vivo e toccante.

mercoledì 4 settembre 2024

IL PARADISO PROBABILMENTE

(It must be Heaven di Elia Suleiman, 2019)

A tutt'oggi Il paradiso probabilmente risulta essere l'ultimo lungometraggio di Elia Suleiman; presentato al Festival di Cannes ormai cinque anni orsono, a differenza di altre sue opere delle quali abbiamo già parlato in passato come Intervento divino (2002) o Il tempo che ci rimane (2009), Il paradiso probabilmente è ambientato solo in minima parte in Palestina, terra d'origine del regista di Nazareth. Per questo film Suleiman mantiene molte delle caratteristiche del suo cinema ampliandone la geografia e allestendo un movimento itinerante che da casa sua porterà il regista (attore nei panni di sé stesso) prima a Parigi, roccaforte europea, e poi a New York, città dove il regista ha risieduto per oltre dieci anni dopo aver terminato gli studi a Nazareth. Se il tono comico surreale permane con lo stesso tocco lieve ma allo stesso tempo tragico che già Suleiman aveva adottato nelle sue opere precedenti, questo ultimo lungo sembra un pochino perdere il suo centro, come se il cinema del regista, sempre e anche qui comunque apprezzabile, perdesse un poco di forza lontano da casa, anche quando i temi ricorrenti di Suleiman restano gli stessi di sempre magari solo spostati ad altre latitudini come in questo caso. Non mancano motivi di interesse nei tratteggi grotteschi che il regista per esempio offre di Parigi e New York, ciò non toglie che opere quali Intervento divino e Il tempo che ci rimane risultassero a conti fatti più ficcanti e finanche divertenti (sempre in senso lato visto ciò che sta dietro al messaggio del regista).

Elia Suleiman, in qualità di protagonista del suo stesso film, non parla quasi mai, reagisce a ciò che gli accade intorno con l'osservazione, con lo sguardo. Così assiste alla quotidiana invasione del suo giardino da parte di un arrogante vicino di casa che con tutta la naturalezza del mondo gli ruba i limoni; costui però si prende anche cura dei suoi alberi e alla fine è anche bravo a farlo. Durante le sue passeggiate Suleiman si imbatte in gruppi di giovani scalmanati armati di bastoni sempre in cerca di qualcuno da picchiare, sopporta gli sfoghi verbali del suo vicino di casa un po' fuori dalle righe, vaga per il cimitero, assiste a una discussione dove due fratelli ipocritamente si ergono a consiglieri della vita della sorella e alle noncuranti malefatte della polizia. Poi parte, come a cercare una nuova dimensione altrove, prima a Parigi, poi a New York. Tra situazioni surreali e grottesche quello che Suleiman trova però continua a ricordargli la Palestina, le storture di casa sua. Allora, seppur con i dovuti distinguo, non resta che prendere atto di come stanno le cose e tornare indietro, alla sua casa, al suo giardino di limoni che il vicino (Israele?) ha depredato pur continuando a gestirlo e farlo crescere.

Ovunque si volti, che sia a casa sua, a Nazareth, in Palestina come lo stesso Suleiman dichiara a un tassista di New York con le uniche parole pronunciate nel film (ufficialmente però Nazareth è in Israele), il regista viene a confrontarsi con situazioni assurde, alcune realmente ben orchestrate e divertenti come l'arrivo di Suleiman a Parigi dove l'intera popolazione sembra muoversi per le strade della città come in un'interminabile sfilata di moda (compare anche la Delevigne) o come l'inseguimento di un piccolo malfattore in una città deserta da parte di poliziotti in monociclo che si muovono come se fossero parte di un balletto urbano. Ovunque a Parigi c'è un presidio militare, sempre divertito nella rappresentazione di Suleiman, intento in ogni tipo d'attività; tutto ciò richiama un'atmosfera che chi è stato a Parigi dopo i famosi attentati di qualche anno fa ha potuto in effetti toccare con mano. Ricorre anche il desiderio trattenuto, in patria di certo frustrato, per la figura di una donna libera e indipendente, in Europa ancora possibile; a ogni modo a Parigi il film che Suleiman sta cercando di mettere in piedi e per il quale è alla ricerca di fondi non interessa a nessuno. Quando giunge a New York, in America, il Paese delle libertà, Suleiman trova solamente persone armate fino ai denti, in un crescendo assurdo che purtroppo ci ricorda quanto gli States siano attaccati alla loro violenza atavica e al culto delle armi e della difesa personale (e dell'offesa non solo personale). Ancora una volta Suleiman tratta con tocco leggero temi scottanti dettati dalla sua geografia, dalla nascita in un territorio martoriato: Il paradiso probabilmente (che pare a questo punto non esistere, almeno non in Terra), seppur arguto e riuscito, risulta meno efficace dei film precedenti, il peregrinare del regista forse disperde un poco di energie che altrove sembravano meglio focalizzate; oltre a questa vaga sensazione di maggior debolezza il film rimane assolutamente godibile, un altro pezzo di percorso di un regista di ottima caratura.

lunedì 2 settembre 2024

FRINGE

(di J. J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci, 2018/2013)

Fringe arriva sugli schermi televisivi quando Lost iniziava la sua corsa conclusiva con la messa in onda della penultima stagione; i due serial presentano diversi punti di contatto il più importante dei quali è l'avere in comune uno degli ideatori, quel J. J. Abrams che, insieme ad altri, è diventato uno dei simboli della rinascita della serialità televisiva negli anni duemila, riuscendo a portare sul piccolo schermo proposte qualitative e innovative dando vigore e importanza a una narrazione orizzontale capace, come capitato per Lost, di incollare milioni di persone alle proprie poltrone e divani in un'epoca in cui per guardarti la nuova puntata del tuo serial preferito dovevi aspettare una settimana: niente piattaforme, niente binge watching, solo tanta passione e moltissima pazienza. Che tempi quando dopo un cliffangher pazzesco partivano i titoli di coda e fino alla settima successiva (o all'anno successivo se si era in finale di stagione) te ne dovevi star lì appeso e pazientare, pregustare, fomentare l'hype. In questo Lost è stata un'esperienza illuminante, una vera e propria storia d'amore che nemmeno il finale un po' così è riuscito a intaccare nel ricordo; è probabile che in molti all'epoca riposero in Fringe le speranze di un'esperienza di visione totalizzante come fu quella con il più noto predecessore. Sembra però che non per tutti sia andata proprio così, sia tra gli spettatori della prima ora sia tra chi, come chi scrive, ha effettuato il recupero proprio grazie alle moderne piattaforme solo in tempi recenti, magari con la speranza di ritrovare quella scintilla che J. J. seppe accendere così bene anni addietro.

Anche con Fringe siamo nel campo della narrazione fantastica: se in Lost l'aspetto che scardinava le regole della realtà per come la conosciamo verteva su una base più filosofica o metafisica, l'approccio di Fringe all'inspiegabile si muove in direzione delle pseudoscienze qui declinate nella maniera più fantasiosa possibile ma sviluppate da Abrams e soci in modo che queste mantengano sempre un'aura di credibilità nel rispetto delle basi tracciate per la costruzione di questo nuovo mondo (di questi nuovi mondi) finzionale/i. La serie inizia con gli agenti dell'F.B.I. Olivia Dunham (Anna Torv) e John Scott (Mark Valley) coinvolti nell'indagine di un caso singolare, quello su un volo di linea (non l'815 della Oceanic) atterrato a Boston con tutti i passeggeri in stato di decomposizione. Lo sviluppo di questa situazione inspiegabile porterà la Dunham a richiedere l'aiuto del dottor Walter Bishop (John Noble), esperto in scienze fuori dal comune; l'uomo è però ricoverato in una clinica psichiatrica dato il suo stato mentale non del tutto lucido. Per avere il permesso di far uscire il paziente/dottore Olivia rintraccerà il figlio Peter (Joshua Jackson), altra mente brillante al momento impegnata in affarucci poco puliti in Iraq. Vista l'ottima prestazione investigativa della Dunham e dei due Bishop, padre e figlio, l'agente dell'F.B.I. Phillip Broyles (Lance Reddick) proporrà ai tre l'inserimento nella Sezione Fringe, un ramo occulto del Bureau nato proprio per indagare su casi che non trovano spiegazione nel razionale, una tipologia di eventi in costante aumento negli ultimi anni, almeno nella realtà che nella prima stagione il serial Fringe inizia a illustrarci.

Dopo l'innovazione portata da Lost, la nuova serie di Abrams si prefigge di fare un piccolo passo indietro per abbracciare una narrazione dove gli episodi (troppi se rivisti oggi) volevano essere, almeno in parte, meno concatenati alla trama orizzontale per risultare più fruibili anche per lo spettatore che non riusciva a star dietro a ogni singola messa in onda. Il parallelo che viene più naturale fare, anche se scontato, per temi e impostazione è quello con il seminale X-Files che vide protagonisti gli ormai storici Mulder (David Duchovny) e Scully (Gillian Anderson). Questo per diverse ovvie ragioni. La prima è la propensione al fantastico che si concentra in Fringe, dalle battute finali della prima stagione, verso una teoria degli universi paralleli con la possibilità di alcuni punti di contatto tra loro laddove invece per X-Files imperava la presenza di vita extraterrestre (I want to believe) e il complotto governativo per tenerla nascosta. La seconda è proprio la struttura della narrazione che richiama da vicino quella di X-Files con l'alternarsi di episodi più centrati sulla trama degli universi paralleli ad altri invece più slegati rispetto al tema principale ma sempre ben inseriti nelle coordinate fantastiche pensate per lo show. La terza è la creazione graduale di quel rapporto d'attrazione tra la Dunham e Bishop che in effetti, come accadeva in maniera molto più trattenuta e quindi più efficace tra Mulder e Scully, regala alcuni tra i momenti migliori della serie che rivaleggiano con quelli, ancor più intensi, che sviluppano un rapporto padre/figlio per forza di cose complesso tra i due Bishop (momenti di alta commozione sul finale). Nella parte iniziale della corsa durata cinque stagioni (100 episodi) Fringe si muove molto bene solleticando su più fronti la curiosità dello spettatore: i personaggi sono ben scritti e interpretati molto bene soprattutto dalla Torv e da un John Noble che a dispetto di un volto apparentemente granitico e scolpito nella pietra gode di una gamma espressiva efficacissima e variegata, capace a più riprese di farci commuovere con facilità, il suo personaggio è inoltre dotato di una comicità non cercata che si rivela essere in molte occasioni irresistibile. Gli indizi sui casi inusuali si affastellano uno sull'altro a partire già dalla creazione della sigla conflagrano in un finale di prima stagione notevole. I problemi iniziano a venir fuori con il passare delle stagioni e con quell'abitudine al tempo ancora abusata di inanellare più di venti episodi l'anno, cosa che, soprattutto in relazione alle abitudini di visione e produzione odierne, rischiano di fiaccare la tenuta dello show e la pazienza degli spettatori. Diversi episodi non riescono a mantenere i sufficienti livelli di interesse anche se nella struttura gli scarti di trama e situazioni non mancano. Nelle ultime stagioni il progetto globale sembra perdere un poco la strada e andare fuori fuoco soprattutto nella gestione del personaggio di Peter dal quale ci si aspettavano cose diverse e un ruolo più da deus ex machina o quantomeno da nodo focale, cosa che si è poi rivelata fallace (in maniera non positiva). Alla fine per arrivare a termine della quinta stagione si arranca un poco; spesso si sottovaluta, soprattutto nelle serie, il grande potere della brevità; le lungaggini, quando non utili allo sviluppo di trama e personaggi, raramente ripagano. Un po' un peccato perché l'iconografia legata allo show (la mano con sei dita, il fiore con l'ala d'insetto al posto del petalo, la mela con i feti al posto dei semi, etc...) e la gestione di universi multipli e personaggi doppi è molto intrigante e per diverso tempo ha funzionato molto bene; rimane un poco l'impressione che si sia buttata via l'occasione di creare qualcosa di realmente riuscito. Magari in un altro universo J. J....

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