martedì 19 novembre 2024

BLACKBIRD BLACKBIRD BLACKBERRY

(di Elene Naveriani, 2023)

È con estremo piacere che torno al cinema georgiano, dopo diverso tempo devo ammettere, memore di quella magnifica scoperta che fu per me il What do we see when we look at the sky? di Alexandre Koberidze. Diciamo subito che questo Blackbird blackbird blackberry della regista nata a Tbilisi Elene Naveriani non raggiunge le vette di poesia toccate dal collega Koberidze, non gli si avvicina nemmeno, riesce comunque a proporre con pochissimi mezzi un cinema che si avvale di una visione personale e originale dell'atto del narrare, proponendo temi non troppo battuti e abusati e una sensibilità genuina e singolare dovuta probabilmente più al fatto che la regista è una giovane donna che non a quello di essere georgiana di nascita; in realtà sono diversi anni che la Naveriani vive e lavora in Svizzera. Quello della Naveriani è un cinema che potremmo definire "festivaliero", rinnegando della definizione ogni attributo negativo che le si potrebbe accostare, un cinema "piccolo", fatto spesso di inquadrature fisse o poco mobili, lontano da virtuosismi, lussi scenografici, scene madri e grandi spiegamenti di forze. I film della regista, questo è il terzo suo lungometraggio, si sono fatti notare in festival come quello di Rotterdam, poi Locarno, infine Cannes, senza che la sua autrice sia arrivata ancora a essere un nome riconosciuto a livello internazionale presso il grande pubblico (per dirne una non vanta una pagina Wikipedia a lei dedicata in lingua italiana). Elene Naverani è riuscita però a suscitare l'interesse di molti addetti ai lavori e di buona parte del pubblico che ha potuto scoprirne il lavoro non solo grazie ai sopra citati festival ma soprattutto grazie alla distribuzione su piattaforma.

In un piccolo paesino della Georgia, non quella statunitense, Etero (Eka Chavleishvili) gestisce un piccolo negozio di prodotti per la casa. Etero è una donna sola e libera, non ha legami di sorta, non ha figli, si avvicina ormai alla cinquantina e sembra non aver mai avuto un uomo nella sua vita né rapporti con l'altro sesso. Le giornate di Etero trascorrono tra il lavoro al negozio, monotono piuttosto che no, e le passeggiate all'aria aperta durante le quali la donna va spesso a caccia delle sue amate more che crescono spontanee vicino al fiume del piccolo villaggio. Di tanto in tanto Etero si incontra con le amiche, un gruppo di donne anche loro non più giovanissime che non perdono occasione di criticare lo stile di vita solitario (ma forse più sereno e felice) della loro compaesana, non risparmiandosi anche qualche sporadica cattiveria. Nel passato della donna c'è un infanzia fatta di controllo e repressione da parte di due uomini possessivi, il padre e il fratello, segnata anche dalla prematura scomparsa della madre. Una volta alla settimana Etero incontra Murman (Temiko Chichinadze), un uomo gentile che rifornisce il negozio con le sue consegne; in un momento di vicinanza, tra i due scatta una passione sentimentale che porterà Etero, a 48 anni suonati, a perdere la sua verginità e l'uomo ad aprirsi a un nuovo amore nonostante la sua famiglia lo aspetti a casa. Questa nuova relazione scombinerà un po' gli equilibri di un'esistenza che sembrava ormai dovesse viaggiare per sempre su binari noti e posati già da tempo.

La Naverani ci racconta una donna indipendente, libera, all'interno di una comunità che magari la denigra un poco ma un poco pure la invidia. L'avvento dello streaming ci permette finalmente di poter godere di visioni femminili, delle idee di autrici, magari provenienti da altre latitudini come in questo caso, che con orgoglio non si conformano allo stile di narrazione più "mainstream" ma osano qualcosa di diverso e più genuino. La scintilla di un sogno di un amore di mezza età è qui esplorata con una sincerità senza filtri che profuma d'onestà e noncuranza (di quel che possano pensare gli altri); senza mai uscire dal buon gusto la regista mette in campo una passione e un erotismo tra corpi in fase decadente (se decadente può definirsi un corpo che in maniera naturale invecchia) senza preoccuparsi dell'ostacolo del pudore né di quello del giudizio, offre corpi tozzi e pubi lanosi in un'epoca di intimità accuratamente rasate e culto dell'immagine. In un film che potrebbe virare spedito verso la storia romantica, seppur non convenzionale, la protagonista invece mantiene dritta la barra e non rinuncia a un'indipendenza per lei assodata e che, all'età di ormai quasi mezzo secolo, si rivela essere irrinunciabile e non accantonabile nemmeno per una possibile storia d'amore, fosse pure la prima, l'unica e forse l'ultima di una vita che, come dice Murman, si avvicina al suo autunno. Blackbird, blackbird, blackberry sembra un film fermo nei movimenti e nel tempo, impastato nei suoi colori e nei suoi ritmi di provincia, ci mostra una vita dove non si corre ma dove un risveglio è sempre possibile e la svolta può trovarsi davvero dietro l'angolo, cosa questa porti però non è dato sapersi.

venerdì 15 novembre 2024

PROSPETTIVE DI UN DELITTO

(Vantage point di Pete Travis, 2008)

Il regista inglese Pete Travis è in giro ormai dalla seconda metà degli anni Novanta, decennio durante il quale Travis si divide tra la realizzazione di cortometraggi e quella di progetti per la televisione, alternando film e serialità e ottenendo anche qualche riscontro da critica e colleghi. Bisogna aspettare il 2008 per vederne l'esordio su grande schermo e nel lungometraggio proprio grazie a questo Prospettive di un delitto, film che, a dispetto del nome non di primissimo piano del regista, raccoglie un cast di un certo rilievo nel quale compaiono attori e attrici come Dennis Quaid, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Matthew Fox, William Hurt e Forest Whitaker. A oggi, tre lungometraggi e parecchia televisione dopo, non possiamo di certo dire che Pete Travis "si sia fatto un nome", eppure almeno dal punto di vista squisitamente registico Prospettive di un delitto non era neanche malaccio, magari poco originale, con l'obiettivo più di costruire per benino le singole sequenze che non quello di raccontare una buona storia, ma tutto sommato non malaccio. Paga forse una certa ripetitività e lo scotto di una struttura magari gradevole da seguire ma anche piuttosto risaputa e prevedibile. Comunque in giro si vede di peggio...

Salamanca. In Plaza Mayor è stato allestito un palco che ospiterà un intervento del Presidente degli Stati Uniti (William Hurt) in occasione di un summit volto a combattere la minaccia del terrorismo internazionale; le ferite dell'undici settembre e quelle degli attentati alla stazione di Atocha sono ancora aperte. A occuparsi del servizio di sicurezza, tra gli altri (il dispiegamento di forze è importante), ci sono gli agenti Kent Taylor (Matthew Fox) e Thomas Barnes (Dennis Quaid), quest'ultimo rientra in azione dopo un periodo di riposo forzato dovuto al trauma subito solo un anno prima quando venne ferito da un colpo di arma da fuoco mentre era in servizio attivo. La piazza è ovviamente gremita di gente; ci sono i turisti come Howard Lewis (Forest Whitaker), gli inviati delle reti televisive come Angie Jones (Zoe Saldana) e i loro superiori nei camioncini delle emittenti come la regista Rex Brooks (Sigourney Weaver). Tra la folla si muovono anche il poliziotto in incognito Enrique (Eduardo Noriega) e Veronica (Ayelet Zurer), una donna con la quale Enrique sembra avere un legame di qualche tipo, e tutta una serie di altri personaggi. L'intervento del Presidente ovviamente non filerà liscio (altrimenti non ci avrebbero fatto un film), immancabile arriva il tentativo di omicidio nei confronti dell'uomo più potente del mondo e il conseguente mettersi in moto dei protocolli di sicurezza. In uno scenario più che caotico i punti di vista dei vari protagonisti si riveleranno preziosi per poter ricostruire la dinamica dell'attentato e assicurare i colpevoli alla giustizia.

Pete Travis gira Prospettive di un delitto in un momento storico in cui gli attentati alle Torri Gemelle a New York e quelli alla stazione di Madrid sono ancora freschi nella memoria collettiva ma in cui già si affaccia la crisi economica che di lì a poco inizierà a tenere banco nelle cronache mondiali. Gli elementi per creare qualcosa di significativo e stratificato ci sono quindi tutti, Travis decide però di non approfondire nessun discorso ma di costruire invece il suo film sul ritmo e sulla forma. Come accennato sopra il lavoro svolto non è neanche male, il ritmo è sempre altissimo e parecchie sequenze sono ben coordinate, dal punto di vista tecnico Travis se la cava bene e anche in fase di montaggio mi sembra che Stuart Baird abbia portato a casa un buon lavoro. Al netto di qualche possibile ingenuità in fase di sceneggiatura stride qualcosa nel meccanismo e soprattutto nella narrazione. Prospettive di un delitto è strutturato su ripetuti rewind che riportano il racconto al momento dell'attentato (o poco prima) offrendone una nuova prospettiva e adottando di volta in volta il vissuto del momento di un personaggio diverso. L'affastellarsi di punti di vista aggiunge uno dopo l'altro ulteriori tasselli del mosaico, purtroppo il gioco diventa presto ripetitivo e l'impressione che si sia abusato un poco dell'espediente narrativo inizia a farsi largo in maniera prepotente, mettiamoci anche che nella storia non viene a palesarsi nulla di così interessante e il gioco è bello che fatto. Prospettive di un delitto è un film discretamente realizzato, con un buon ritmo e nel complesso nemmeno malvagio da guardare, certo è che ne rimarrà poco nel ricordo e nessuna traccia in un'eventuale memoria della settima arte.

lunedì 11 novembre 2024

TOKYO SONATA

(di Kiyoshi Kurosawa, 2008)

Pur non essendo tra i registi asiatici più noti in occidente, almeno avendo in mente come riferimento il grande pubblico, Kiyoshi Kurosawa si porta sulle spalle una carriera ormai lunga e costellata da numerose opere che prese il via già negli anni 70 quando Kurosawa trovò i primi impieghi in veste di assistente alla regia per poi prendere una direzione più indipendente nel decennio successivo quando il regista esordì nel lungometraggio con un film erotico, uno di quelli che in Giappone vengono definiti pinku eiga. Con il passare degli anni il regista nato a Kōbe nel 1955 si sposterà sul dramma e soprattutto sull'horror, genere nel quale Kurosawa si guadagnerà una certa fama presso il pubblico di appassionati. Alla sessantunesima edizione del Festival di Cannes il regista presenta questo Tokyo sonata, un dramma familiare dai risvolti sociali che verrà riconosciuto con il Premio della giuria nella sezione Un certain regard; tra festival asiatici e riconoscimenti ottenuti oltreoceano Tokyo sonata si ritaglia il suo spazio all'interno del mare di opere meritorie che arrivano dalla terra del Sol Levante. Inoltre il film, uscito in anni di piena e totale crisi economica (la Grande Recessione), si giova di un'attinenza con l'attualità del momento e con la situazione contingente che permette dello stesso una lettura non limitata alla sola situazione nipponica offrendo bensì una più ampia riconducibilità alle difficoltà affrontate dalle classi medie (e povere) di tutto il mondo.

Tokyo, anni di crisi economica; le grandi imprese iniziano ad approfittare della manodopera e delle professionalità a basso costo formatesi in Cina delocalizzando così interi rami d'azienda per abbattere i costi di gestione e aumentare i ricavi per i vertici. In una di queste grandi ditte viene tagliato in toto il reparto amministrativo, è così che Ryuhei Sasaki (Teruyuki Kagawa), un uomo di mezza età con moglie e due figli a carico, si trova dalla mattina alla sera senza lavoro e senza mezzi di sostentamento per mantenere la propria famiglia. Imbevuto di quel senso dell'onore che caratterizza molti giapponesi, Ryuhei non trova il coraggio di confessare alla moglie Megumi (Kyōko Koizumi) quello che a conti fatti vede come un fallimento personale. Inizia così per l'uomo una vita di menzogne nella quale Ryhuei si alza al mattino, si veste e finge di andare a lavoro, per poi passare le giornate alle mense per i poveri frequentate da tanti ex impiegati come lui vestiti di tutto punto, altri umiliati che non hanno il coraggio di affrontare con sincerità la loro nuova condizione. Nel frattempo il figlio minore Kenji (Inowaki Kai), refrattario alle autorità che stanno perdendo credibilità ai suoi occhi (il padre, il professore) vorrebbe iniziare a prendere lezioni di piano, il figlio più grande, Takashi (Yû Koyanagi), stufo di lavori inconcludenti come la distribuzione di volantini, cerca ingenuamente soluzioni alternative senza soppesarne a fondo le conseguenze.

Con Tokyo sonata Kiyoshi Kurosawa fonde il dramma pubblico a quello privato, ci mostra il lato duro di una Tokyo, qui sineddoche per il Giappone tutto, che si concede a un sistema del capitale prettamente occidentale (americano) introiettandone di conseguenza anche le falle e l'esecrabile tendenza a porre l'uomo in posizione sussidiaria al capitale; questa sorta di colonialismo liberale si avverte anche nella contraddittoria permissività di un Paese che vieta la guerra a partire dalla sua Costituzione ma permette ai suoi giovani di arruolarsi tra le fila dell'esercito Statunitense, ormai "compagno di capitalismo". Questa situazione diffusa viene esplorata in Tokyo sonata attraverso le vicissitudini della famiglia Sasaki sulla quale si riversano le conseguenze della crisi economica. Kurosawa filma una Tokyo abitata da fantasmi, sono questi persone in carne e ossa, ex impiegati che vagano per la città schiacciati tra la vergogna del fallimento e il nuovo bisogno, una condizione prima a loro sconosciuta, vagano vestiti di tutto punto in zone periferiche, vicino i raccordi, rassegnati, quasi invisibili sullo sfondo di una città e di un contesto che li fa riconoscere allo spettatore come anime vaganti sulla stessa barca del protagonista. Oltre alla crisi economica il regista pone attenzione alla crisi dei rapporti e della famiglia; i Sasaki non comunicano tra loro, vivono di una convivenza quasi sempre educata, formale ma, soprattutto nella figura della madre, intimamente infelice. La crisi è solo l'occasione per mostrare la fallacità di un sistema (Paese, famiglia) che non si regge più: figure autorevoli in crisi e delegittimate, dal lavoro, dai loro stessi figli, un sistema patriarcale a volte ottuso e orgoglioso fino al parossismo, in alcuni casi fino a un'esiziale e tragica conclusione. La rigidità, la vergogna del diventare (nella propria autostima e auto considerazione) meno di quel che finora si è stati porta altra infelicità, porta al disastro. A strattonare regole assurde solo un ragazzino che vuole suonare il piano, che vuole seguire un suo desiderio, che vuole rompere questo sipario d'infelicità sceso sull'esistenza della sua famiglia suonando il Clair de lune dalla Suite Bergamasque di Debussy, magari aprendo gli occhi a un padre, riempiendo il cuore di una madre, consolando un fratello scottato dalla dura realtà. O forse è solo un momento, una nostra illusione destinata a bruciare nel tempo.

venerdì 8 novembre 2024

LA TEMPESTA DEL SECOLO

(Storm of the century di Stephen King, 1999)

La tempesta del secolo (o la tormenta del secolo come viene spesso definita nella miniserie per la televisione) è un libro di Stephen King pubblicato nel 1999 e pensato dal Re come sceneggiatura per il cinema, una sceneggiatura che poi, vista la mole imponente dello scritto, è diventata un progetto per uno show televisivo per il canale tv statunitense ABC. Nella traduzione italiana di questo Storm of the century edita da Sperling è presente, nelle pagine precedenti il racconto approntato da King, un'interessante introduzione dello stesso autore che spiega in poche parole la genesi di questo progetto che avrebbe potuto benissimo diventare un romanzo e che, a conti fatti, tutto sommato ne mostra già il passo e lascia facilmente intuire come sarebbe stato possibile da questa base di partenza arrivare a uno scritto finale che avrebbe potuto far mostra di tutte le migliori caratteristiche di scrittura alle quali King ci ha da sempre abituati. È vero, La tempesta del secolo sarebbe stato un buon romanzo, non lasciamoci però ingannare dalla forma atipica dell'opera (almeno per chi la affronta su carta) perché questa è comunque in grado di avvincere e appassionare il lettore anche in forma di sceneggiatura; il tocco del Re si sente tutto, alcune situazioni e ambientazioni riportano chiaramente allo stile di King che nel lavorare per la televisione non snatura per niente tutti i pregi della sua scrittura, ne è la dimostrazione il fatto che la sua sceneggiatura si riveli in definitiva migliore dell'opera che poi ne è stata tratta, ovvero la miniserie omonima in tre episodi diretta da Craig R. Baxley, regista al cinema di film non proprio indimenticabili (Action Jackson, Arma non convenzionale e cose così...). Ma di cosa narra La tempesta del secolo?

Little Tall Island è una piccola isola sita di fronte alle coste del Maine sulla quale vive una comunità ristretta e apparentemente affiatata, i fan più addentro all'opera di King la riconosceranno facilmente come lo scenario legato all'ormai anziana Dolores Claiborne protagonista di vicende qui apertamente citate. Siamo in inverno e verso l'isoletta si sta dirigendo quella che promette essere una delle perturbazioni più violente che si possano ricordare in zona a memoria d'uomo; inizialmente la popolazione tenterà di minimizzare l'evento, in fondo di tempeste ne hanno viste tante nel corso degli anni, ma ci vorrà molto poco per capire che questa sarà molto diversa dalle precedenti. Insieme al maltempo sull'isola arriva anche l'ambiguo André Linoge (Colm Feore), un non troppo simpatico straniero che come gesto di presentazione regala alla popolazione locale l'omicidio di un'anziana concittadina. Sarà compito dello sceriffo locale Mike Anderson (Timothy Daly) e del suo "vice" Hatch (Casey Siemaszko) rinchiudere l'assassino e garantire l'incolumità di una comunità ormai tagliata fuori dal mondo e dalla terra ferma. In realtà Mike e Hatch non sono proprio uno sceriffo e un vice, il primo gestisce un minimarket, il secondo nella vita fa altro ancora, Little Tall non ha nemmeno una prigione, non è mai servita, c'è giusto il retro chiuso per benino del market di Mike a far da contenimento a Linoge, almeno per quel che può servire. Si, perché Linoge non è proprio un uomo come gli altri, sembra più essere l'incarnazione di un male antico, capace di compiere gesti atroci anche standosene comodamente seduto rinchiuso all'interno di un facsimile di cella. Tra la tormenta, gli omicidi, gli strani comportamenti che iniziano a serpeggiare tra gli abitanti dell'isola e la sorveglianza di Linoge, Mike, Hatch e gli altri abitanti di Little Tall avranno il loro bel da fare per garantirsi un futuro che possa guardare oltre quei pochi e funesti giorni di maltempo.

Credo di aver già fatto trapelare la mia preferenza per la sceneggiatura rispetto all'opera che poi ne è scaturita in video: la prosa di King, anche se limitata da tutti gli stacchi che necessariamente devono descrivere inquadrature e sequenze, presenta una ricchezza immaginifica e descrittiva che in molti aspetti nella trasposizione viene persa, primo fra tutti proprio l'entità della tempesta incombente che nella sceneggiatura di King ne esce molto più minacciosa di quel che poi accade nella serie, probabilmente anche per una questione di costi e di effetti speciali che nel 1999 non erano ancora allo stato dell'arte come possono essere oggi. L'esperienza di lettura, superato il primissimo e solo eventuale spaesamento iniziale, si rivela piacevole e soprattutto scorrevolissima nonostante l'impostazione per forza di cose più "tecnica" che ci presenta passaggi del tipo: 

Atto 1 

Dissolvenza in apertura: 

1) Esterno: Main Street, Little Tall Island - Tardo pomeriggio 

(qui King inserisce una descrizione della situazione metereologica e delle strade della cittadina che per esigenze di brevità non riporto). 

MIKE ANDERSON - parla con lieve accento del Maine: 

MIKE ANDERSON (voce fuoricampo):

Mi chiamo Michael Anderson e non sono quello che verrebbe definito un erudito. 

E via di questo passo...

La struttura non è ovviamente quella del romanzo ma la differenza con l'incedere della lettura finisce quasi per non essere più percepita, La tempesta del secolo per il lettore diventa presto puro King, né più né meno. Quello che ne esce è uno scritto assolutamente valido che chi scrive consiglia senza indugi agli amanti del Re che ancora non lo avessero letto. Probabilmente se lo scrittore di Bangor non fosse stato tormentato dall'idea che la tormenta sarebbe dovuta diventare un film avremmo semplicemente tra le mani un altro ottimo romanzo a firma Stephen King, invece è andata così e il risultato mi sembra comunque ottimo. I temi poi sono di casa tra i fan di King: la piccola comunità chiusa e isolata da un evento esterno, l'evolversi dei rapporti all'interno della stessa, l'elemento di fastidio, il male e l'orrore, il sovrannaturale, i bambini, i segreti, contrasti tra concittadini ma anche solidarietà, la vita di provincia lontana dai grandi centri. La serie tv, nonostante il buon budget stanziato, perde un po' (parecchio?) la magia della penna di King. Uno dei motivi potrebbe essere imputato a un cast privo di nomi di richiamo e di interpretazioni capaci di donare la giusta enfasi e partecipazione nei momenti salienti; nonostante l'investimento fatto si respira un poco l'aria da prodotto di seconda fascia, soprattutto se la miniserie viene rivista oggi quando siamo abituati a ben altre produzioni anche in televisione. In fondo non è il primo progetto tratto da King che in tv non riesce a convincere appieno. Il consiglio è quindi quello di preferire la lettura della sceneggiatura, poi se si volesse ampliare il discorso la serie è presente su Prime (senza noleggio, basta l'abbonamento), le puntate sono solo tre e alla fine non si ha neanche modo di pentirsi del tempo investito per la visione.

domenica 3 novembre 2024

HANNO UCCISO L'UOMO RAGNO - LA LEGGENDARIA STORIA DEGLI 883

Ancora non si è smorzata l'eco generata dagli ultimi due episodi della serie ideata da Sydney Sibilia (e soci) caricati su Sky qualche giorno fa che già è partita la spasmodica ricerca su news e anticipazioni riguardo la possibilità di una seconda stagione per questo show già di grande successo. Sembra proprio che questa seconda annata si farà, anche perché l'ottimo esito della serie sugli 883 sembra ormai assodato, sia sotto il punto di vista qualitativo sia nei riscontri da parte di un pubblico quasi adorante; Sibilia sembra aver dichiarato che il prosieguo della serie è ancora in fase di scrittura quindi è lecito pensare che quantomeno un lasso di tempo di attesa ci sarà, ad ogni modo i fan della serie (che suppongo oggi siano anche più numerosi di quelli degli 883, o di Max Pezzali per essere più precisi) possono stare tranquilli e iniziare a fremere per l'attesa. Sul progetto in sé c'è poco da dire, Sibilia si conferma come uno degli autori con le idee più vincenti nell'attuale panorama cinematografico (e ora televisivo) italiano, la partecipazione della casa di produzione Groenlandia, gestita insieme al sodale Matteo Rovere, è ormai sinonimo di garanzia e con questa serie il gruppo non solo conferma e consolida la sua reputazione ma riesce addirittura a portarla a un livello superiore entrando a gamba tesa nel mondo della serialità guardando a un pubblico potenzialmente immenso e centrando ancora una volta (e più che in precedenza) l'obiettivo su un qualcosa che avrebbe potuto avere una grande presa su un'audience quantomeno trasversale. Si gioca molto con la nostalgia, non solo per quei primi passi degli 883 e per la loro musica che ebbe la capacità di arrivare a una platea vastissima, anche a quella formatasi su ben altri ascolti musicali (pare che anche Pezzali sia partito dal punk), ma anche, e forse soprattutto, su quella per i 90, per quegli ultimi anni analogici ancora capaci di restituirci un mondo completamente diverso da quello di oggi, un mondo nel quale se succedeva qualcosa e avevi un contrattempo magari non riuscivi ad avvisare tua madre e tuo padre e poi erano cazzi...

La storia degli 883 inizia a Pavia già negli anni 80 quando, folgorato dalla musica punk, un giovane Massimo Pezzali (Elia Nuzzolo) inizia a dedicargli troppo tempo trascurando lo studio e facendosi di conseguenza bocciare all'ultimo anno del liceo scientifico Copernico. Questo infausto evento non mette certo di buonumore mamma Alba (Roberta Rovelli) e papà Sergio (Alberto Astorri) che costringeranno Max a passare l'estate lavorando nel negozio di fiori di famiglia facendosi per giunta tutti i funerali per i quali i Pezzali sono fornitori floreali. In fondo, però, non tutto il male vien per nuocere, perché se la punizione impedirà a Max di andare in vacanza con l'amico di sempre Cisco (Davide Calgaro), favorirà l'incontro tra il giovane e Silvia (Ludovica Barbarito), una delle ragazze più belle di Pavia con la quale Max passerà una bella serata promettendole, esagerando sulle sue competenze musicali, di comporre per lei una canzone (in realtà Max non sa suonare nessuno strumento e non ha nessuna competenza musicale). Un'altra tegola però sta per abbattersi sulla testa di Max; i suoi genitori infatti, preoccupati per il suo avvenire, decidono di fargli cambiare scuola e iscriverlo, separandolo dai suoi amici, al Taravelli, un'istituto che gode di migliore fama del precedente e dove Max, ripetente, farà l'incontro che gli cambierà definitivamente la vita: quello con Mauro Repetto (Matteo Oscar Giuggioli).

Sydney Sibilia e i suoi collaboratori (Filippi, Capaldo, Agostini, Laudani, Nerone) riescono nell'intento di creare un prodotto nazionalpopolare ripulendo il termine da tutte le accezioni negative che gli si possano conferire. Hanno ucciso l'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883 è un prodotto davvero per tutti, certo, meglio ancora per i fan del duo e soprattutto per chi ha vissuto in diretta quegli anni (più che il fenomeno 883 che in Italia comunque era impossibile schivare), ma in fondo anche per i non amanti resta comunque una bellissima narrazione sull'amicizia tra due ragazzi, un racconto di formazione, un percorso sentimentale, un viaggio verso il successo, un movimento di crescita personale e uno spaccato d'epoca che muove le corde della nostalgia e che evita accuratamente di mostrarci le brutture delle realtà circostante (praticamente viene esclusa qualsiasi cronaca di quegli anni, ne vediamo solo ciò che interessa i protagonisti e tutti quegli aspetti utili appunto a veicolare slanci nostalgici per un tempo vissuto in passato). Nel narrare le vicende di Pezzali e Repetto il team di Sibilia lavora molto bene nel dosare proprio le canzoni degli 883 nell'economia della serie, i pezzi arrivano a poco a poco, una alla volta, nell'esatto momento in cui i due li compongono (con l'unica eccezione di Con un deca che è la sigla della serie), creando così nel pubblico un effetto di maggior interesse nel seguire il dipanarsi della vicenda. Il punto di forza più grande della serie è però la scelta dei due protagonisti, attori giovani ancora in divenire ma già molto bravi e soprattutto molto adatti nei ruoli di Pezzali e Repetto e soprattutto capaci di creare una bellissima alchimia "di coppia" nella costruzione di due caratteri diversi, con un Pezzali sempre molto trattenuto, timido e diffidente nei confronti delle sue stesse capacità e un Repetto più vivace, intraprendente e spudorato nel lanciarsi a testa bassa in un qualcosa che finalmente avrebbe potuto farlo uscire da un'odiata medietà. Nuzzolo e Giuggioli sprigionano una simpatia (s)misurata alla quale non si può resistere, basti guardare alcuni dei loro video su Instagram che confermano la bellezza della loro attitudine nei confronti di questo progetto. Non c'è poi molto altro da dire su questo Hanno ucciso l'Uomo Ragno, la serie non sarà un progetto rivoluzionario ma alla fine funziona tutto e tutto molto bene. Ora non fateci aspettare troppo per la seconda stagione!

sabato 2 novembre 2024

AFTERSUN

(di Charlotte Wells, 2022)

Dopo aver girato tre cortometraggi, nel 2022 la regista scozzese Charlotte Wells si cimenta nel lungo esordendo con questo Aftersun, un film semplicemente magnifico, così denso e avvolgente che sembra quasi impossibile sia potuto scaturire da una regista ancora giovane e alla sua prima esperienza su ampio minutaggio. È un racconto in qualche modo doloroso quello della Wells che ci lascia intuire un'assenza e una mancanza (della figura paterna) senza mai mostrarcela; sembra che, non sappiamo bene in quali termini, ci sia nella storia messa in scena dalla regista un forte elemento autobiografico non completamente esplicitato. Presentato al Festival di Cannes 2022 il film ha generato riscontri positivi pressoché unanimi, un consenso ampiamente meritato per un film che riesce a ritagliarsi una nicchia d'originalità accompagnata da una qualità non così semplice da trovare in un'opera prima che vuole uscire dai soliti sentieri battuti da innumerevoli produzioni in passato. La Wells gioca molto con ciò che non si vede e con ciò che non si dice, lascia le deduzioni più importanti (e più dolorose) allo spettatore che avrà il compito di interpretare (soprattutto) le immagini e dare una conclusione alla storia (non un senso, quello è molto chiaro), un perché ad uno status quo sofferente del quale non si conoscono origini e motivazioni che sembrano però essere facilmente intuibili.

Un lungo flashback. Attraverso stralci di filmini amatoriali, girati con una di quelle prime videocamere alla portata di tutti, veniamo proiettati ai giorni di una vacanza di tanti anni fa che la piccola Sophie (Frankie Corio), undici anni, passò con il giovane padre Calum (Paul Mescal), trent'anni, in un villaggio vacanze in Turchia che a dire il vero offre ai suoi ospiti un intrattenimento non troppo esaltante. Calum è davvero molto giovane per essere padre già da più di dieci anni, è un uomo non ancora risolto che non sta più con la madre di Sophie pur essendo rimasto con la donna in buoni rapporti, ora sembra conviva con un amico con il quale ha anche qualche progetto lavorativo in ballo, ma queste sono tutte informazioni appena accennate, poco esplorate e approfondite. Quello che sappiamo per certo è che Calum ama di un'amore profondo Sophie, sappiamo che non deve passarsela molto bene economicamente e che nella sua vita, forse meglio dire nella sua anima, nel suo io più profondo, c'è qualcosa che non va, un disorientamento, un sentore d'inadeguatezza, una tristezza di fondo che ci fa guardare alla Sophie adulta (Celia Rowlson-Hall) con apprensione e dolorosa vicinanza; ora Sophie è una giovane donna che per ragioni anche qui non spiegate e che ci fanno temere il peggio, quel padre non lo vede più, non lo ha più vicino a sé.

Aftersun è un film capace di far provare dei piccoli cedimenti al cuore, dei vuoti, dei mancamenti quasi inspiegabili provocati da momenti infinitesimali, da stralci di indicibile tristezza realmente difficili da trasmettere con le parole. È un'esperienza di visione straniante e diversa, originale, quella costruita con evidente sincerità dalla Wells che lascia al fuoricampo le conseguenze di un dolore inespresso e non chiarificato da parte di un padre che probabilmente tenta di proteggere una figlia alla quale donare serenità e, se possibile, felicità, in uno dei rari momenti passati insieme, nonostante i suoi moti di disagio interiore siano (allo spettatore) evidenti. La Wells, anche sceneggiatrice, scrive due personaggi bellissimi, un padre fragile e una bambina nel passaggio tra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'adolescenza, qui resa in maniera sublime dalla piccola Frankie Corio, un volto bellissimo per fermare in video l'apertura verso una nuova età: l'interesse per le dinamiche dei ragazzi più grandi, per la compagnia dei coetanei dell'altro sesso. La tragedia in potenza, di cui non avremo mai contezza, si ammanta di sentori di depressione, fallimento, scarse finanze che affliggono un padre giovanissimo e che la Wells ci lascia costruire a poco a poco facendo crescere nello spettatore delle quasi certezze senza conferma. La Wells crea un film dove l'immagine dice moltissimo, il gesto, gli sguardi vengono esplicitati più dalla colonna sonora (parlante) che non dalle stesse parole. La narrazione è intrisa di una vitalità ovattata che veicola la sensazione di vita reale, vissuta, e allo stesso tempo di dimensione onirica (in fondo siamo nel campo del ricordo), eppure ogni passaggio diventa vitale, fondante. Come accade con i ricordi c'è frammentarietà, spazio vuoto, dubbio, ci sono cose che rimangono fuori, al di là. C'è ripetizione, come le giornate che scorrono uguali a loro stesse all'interno del villaggio, ci sono spazzi di repentino dolore, quasi impercettibili, c'è la compressione del tempo, c'è il bello della vita, il meglio che ora non c'è più. Il ballo sul finale sulle note di Under pressure è semplicemente straziante. Sui titoli di coda si consolida l'impressione di aver assistito a qualcosa di davvero prezioso.

lunedì 28 ottobre 2024

JOKER: FOLIE À DEUX

(di Todd Phillips, 2024)

Oh no! Quel cattivone di Todd Phillips ci ha rotto il giocattolo! Se n'è andato a casa e si è portato via il pallone! A noi il Joker di prima piaceva tanto (sigh! sob!). Eh già, sembra proprio che il nuovo lavoro del regista della trilogia di "Una notte da leoni" non sia stato troppo gradito da gran parte del pubblico adorante che presenziò entusiasta alle proiezioni del primo episodio di questo dittico dedicato al Joker. Un critico professionista a questo punto scriverebbe qualcosa come: "e sticazzi!", ma visto che chi vi scrive professionista non lo è affatto, eviterà accuratamente uscite di questo genere e tenore. La verità è che la nuova opera di Todd Phillips (che qui si dimostra quantomeno autore coraggioso, intelligente e anche dall'indole un po' punk nel fottersene di quello che avrebbe potuto pensare il pubblico del suo film) è in effetti più ostica e meno digeribile di quel che tutti noi ci saremmo potuti aspettare; il film fatica a scorrere, Phillips spezza il ritmo con tanti brani musicali che richiamano il musical classico ma che proprio musical non sono, e poi... e poi... e poi il Joker si vede poco, non sembra essere nemmeno il protagonista, c'è sempre questo Arthur Fleck, chi cazzo è poi questo Arthur Fleck? Arthur Fleck è un malato, una persona che ha subito angherie e violenze psicologiche, un sociopatico, un uomo con difficoltà a inserirsi nella comunità dalla quale è stato escluso, dileggiato, schernito, lo abbiamo visto bene nel primo capitolo, uno che si è rifugiato in un mondo di fantasia, nell'idea di poter far ridere e magari catturare un pizzico di quell'attenzione che gli è sempre stata negata; Arthur Fleck è un emarginato, non è Joker, Joker non esiste, non è nessuno, è una proiezione irreale di un uomo malato che ha sfogato il suo enorme disagio nella violenza. E a questo torna Phillips, all'uomo, torna a questo e ad altro ancora in un film che per lo spettatore non troppo pigro potrebbe acquistare valore solo a visione terminata, un po' come quei piatti che "riposati sono meglio".

È un film spiazzante questo Joker: Folie à deux, lo è per tanti motivi alcuni dei quali già accennati poco sopra, primo fra tutti il distacco dal suo predecessore. Phillips abbandona completamente o quasi la città, quella Gotham/New York che nel primo capitolo tanto aveva richiamato quelle atmosfere scorsesiane citate apertamente dal regista e dalla critica tutta (Taxi driver, Re per una notte), ce la nega quasi completamente, una scena sulla famosa scalinata ("basta cantare, parlami"), qualche esterno sulla folla acclamante al Joker di fronte al tribunale dove si tiene il suo processo e poco altro. Phillips si chiude in interni e confeziona un film che riesce a essere di una coerenza impressionante rispetto a quanto fatto nel primo capitolo pur scombinando apertamente le carte: Folie à deux è infatti un misto di dramma carcerario, di musical sui generis e di film processuale, generi diversi neanche amalgamati troppo bene tra di loro ma che si asservono allo scavo sul personaggio, (Fleck intendiamo, non il Joker che non esiste), si piegano al suo rapporto con la follia e con l'immagine che vorrebbe dare di sé (e forse, solo forse, qui c'è il Joker) e con quella che tutto il mondo vorrebbe vedere (e qui è il Joker sicuramente), a partire da quei rompiscatole di fan del primo film. Nel rapporto tra l'uomo - Fleck - e la sua immagine - Joker -, Lee Quinzel (Lady Gaga, e scordatevi la Harley Quinn della Robbie) riveste un ruolo quasi metatestuale impersonando il desiderio di spettacolo dello spettatore e il suo rifiuto di un Fleck senza Joker (geniale qui Phillips nell'anticipare le critiche del grande pubblico, l'opera acquista quasi un sentore da beffardo suicidio artistico, se davvero tutto è stato studiato in precedenza dal regista non rimane che dire "chapeau" e inchinarglisi, qualche lecito dubbio però rimane). Lee è affascinata dalla figura del Joker, lo ha studiato nel film che hanno fatto su di lui, un film nel film (non bellissimo, pare) che mette lei e noi spettatori nello stesso ruolo di fan, con l'unica differenza che lei ha la possibilità di incontrare il Joker (in realtà Arthur) nel manicomio criminale di Arkham, di innamorarsi della sua potenza eversiva e immaginifica magnificandone l'irreale e tentando di convincere Fleck che solo il Joker ha senso di esistere, che solo al Joker la giuria potrà dare credito al processo, solo il Joker potrà attirare la giusta attenzione e avere una possibilità, perché in fondo Arthur non è nessuno, a chi interessa uno così?, chi se lo può filare? (e no, lei non gli parlerà). Come al personaggio interpretato da un'ottima Lady Gaga (al servizio comunque di un Phoenix immenso che non ruberebbe nulla portandosi a casa un altro Oscar), anche al pubblico sembra interessare solo il clown, l'immagine altra dalla realtà che un uomo insoddisfatto cerca di dare di sé; in questo si cela tutta una riflessione sulla realtà di oggi dove tutti possono nascondersi dietro identità fittizie e cercare attenzione, proprio come ha fatto Arthur, ponendosi nei confronti degli altri in vesti che in fondo non ci appartengono. La cosa tragica, e torniamo sull'ormai celebre scalinata, è che quando la verità affiora, quando l'uomo dietro il trucco e l'inganno emerge, allora torna il rifiuto, il dramma dell'essere ignorati, dell'essere un nessuno tra molti. Quello che resta è, quindi, lo spettacolo, la finzione, la fuga dalla realtà, uno spettacolo qui accentuato da Phillips con la scelta di guardare al musical, uno dei generi d'eccellenza della Hollywood classica, perfetta la scelta di Lady Gaga quindi come coprotagonista mentre Phoenix se la cava bene anche nel canto, in fondo è già stato Johnny Cash in passato (Quando l'amore brucia l'anima, 2005), ottima la scelta dei brani, classicissimi anch'essi.

Così, dopo qualche piccola rivelazione come l'origin story della fissazione di Arthur per lo spettacolo e per l'idea balorda di poter far ridere gli altri, un'intro in animazione siglata dal talento di Sylvain Chomet (L'illusionista, Appuntamento a Belleville) in stile Looney Toons, un Phoenix su ritmi tip tap, le pochissime concessioni alla violenza del Joker (anche questa illusoria) e un giudizio su Cinemascore (che non so bene che valore possa avere) che lo indica come uno dei peggiori film tratti dai fumetti (see, ad avercene), quel che rimane è un film difficile, anti spettacolare, per nulla ruffiano e accomodante, girato molto bene e graziato da interpretazioni di livello altissimo (Phoenix) o molto, molto buono (Lady Gaga, Brendan Gleeson) che è diretta conseguenza della libertà d'espressione di un autore molto in gamba (libertà d'espressione concessa anche ad Arthur quando gli è permesso di presentarsi a processo nei panni del clown) che potrebbe: 1) averci provocato scientemente; 2) aver preso qualche cantonata rintuzzata con l'aiuto di una parte di critica cerebrale e indulgente; 3) aver siglato, volontariamente o meno, uno dei film più intelligenti dell'anno; 4) aver girato una "cagata pazzesca" degna de "La Corazzata Potemkin" di fantozziana memoria. Chi vi scrive oscilla tra l'opzione uno e l'opzione tre, a voi la scelta definitiva. 

mercoledì 23 ottobre 2024

DUNE PT. I e II

(Dune: Part one e Dune: Part two di Denis Villeneuve, 2021/2024)


Ammetto, nel terminare la visione di Dune: Part one, di aver pensato qualcosa del tipo: "ok, forse Dune non è proprio la mia tazza di te" (it's not my cup of tea, per chi non conoscesse l'espressione numerose sono le spiegazioni in rete). Premetto di essere a digiuno dell'opera letteraria di Frank Herbert universalmente riconosciuta come una delle letture fondamentali nell'ambito della fantascienza e più in generale in quello della creazione di mondi fittizi e complessi, in questo paragonata addirittura all'opera di Tolkien. Ne consegue quindi che non sarà qui possibile accostare l'opera letteraria al lavoro improbo ed enorme di cui si è caricato il regista canadese Denis Villeneuve decidendo di portarne sugli schermi una nuova trasposizione. E già, una nuova trasposizione. Perché sono almeno due, e illustrissimi, i precedenti tentativi di portare al cinema le beghe interplanetarie dell'Impero e dei ribelli Fremen, della casata Harkonnen e di quella degli Atreides; il primo completamente naufragato, il secondo quantomeno poco (pochissimo?) riuscito, questo nonostante i due tentativi succitati portassero rispettivamente le firme niente meno che di Alejandro Jodorowski (che non trovò mai produttori disposti a finanziargli il film) e di David Lynch che, costretto a condensare molto il testo di origine, uscì con uno dei prodotti meno indovinati della sua intera carriera. Così, dopo la scottatura presa con il Dune datato 1984 e dopo una prima parte della versione Villeneuve visivamente magniloquente seppur cupa ma narrativamente interlocutoria e a tratti troppo attendista, l'idea di mettere una pietra sopra al tutto non mi sembrò poi così peregrina. Per fortuna decisi di dar una possibilità anche a Part two e devo dire che ne è valsa davvero la pena, Villeneuve sembra scuotersi di dosso ogni timore e, sebbene in alcuni passaggi giochi sul risaputo (niente di male in fondo), ingrana la quarta e con la giusta densità di eventi e contenuti (narrativi e metaforici) dà vita anche lui a un universo che vale la pena di essere vissuto ed esplorato.

Arrakis è uno dei pianeti sotto il controllo dell'Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken), un sito fondamentale in quanto Arrakis è l'unico pianeta conosciuto sul quale è presente la spezia, sostanza preziosissima in quanto capace di far muovere le astronavi lungo i loro viaggi interstellari. La spezia è ricchezza e potere, da molti anni ormai Arrakis e l'estrazione del prezioso elemento sono concessi dall'Imperatore alla casata Harkonnen, una stirpe di guerrafondai crudeli e spietati retta dal barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård) e da suo nipote Rabban Harkonnen detto Bestia (Dave Bautista). Con una decisione all'apparenza inspiegabile la concessione viene revocata dall'Imperatore agli Harkonnen e affidata alla casata in ascesa degli Atreides, capeggiata dall'assennato e decisamente più umano duca Leto Atreides (Oscar Isaac), sposato con Lady Jessica Atreides (Rebecca Ferguson), una discepola del culto femminile delle Bene Gesserit, una sorellanza mistica di "streghe" bene inserite nei mondi politici, religiosi e di potere. Il loro primogenito Paul Atreides (Timothée Chalamet) sembra essere destinato a ricoprire il ruolo del prescelto di un'antica profezia da tempo perseguita dalle Bene Gesserit e presa a religione dai Fremen, il popolo nativo e perseguitato degli abitanti del deserto di Arrakis. In realtà la decisione dell'Imperatore non è dettata da scopi nobili ma porta in sé il secondo fine di bloccare l'ascesa della casata Atreides mettendogli contro i guerrieri Harkonnen. Nel complicarsi della situazione politica, mentre spirano segnali di guerra, Paul inizia ad avere visioni di una vita tra i Fremen, una vita da guerriero, forse da condottiero, al fianco di una giovane fanciulla indigena, lui ancora non lo sa, di nome Chani (Zendaya).

Villeneuve ha già dimostrato di godere di un feeling particolare con la fantascienza di grande richiamo (di pubblico) almeno in due occasioni, ossia con l'uscita dei bellissimi Arrival prima e Blade Runner 2049 poi; con la saga di Dune il regista alza il tiro e crea aspettative altissime nei fan dell'epopea messa su carta da Herbert, lo fa, almeno nel primo segmento, prendendosi i suoi tempi e cercando di rendere giustizia ad un'opera monstre evitando in maniera accurata di trarne un bigino che per forza di cose avrebbe scontentato i più e sicuramente i fan dei romanzi dello scrittore americano. Quel che ne esce è una prima parte fatta di passaggi dilatati che affascina dal punto di vista immaginifico e realizzativo ma che suscita qualche perplessità nel suo incedere, quasi come se si percepisse una sorta di timore reverenziale per la materia; Villeneuve però è un ottimo regista, forse con il suo girato ben in mente approccia una seconda parte con piglio nuovo e più deciso, alza i giri del motore e il mondo di Dune si espande e acquista vivacità oltre che a prendere vita. Le meravigliose trovate sceniche che nella prima parte sembravano soverchiare un po' tutto il resto iniziano ad accompagnare un complessivo di grande valore proprio nel momento in cui, stando a quel che si dice, Villeneuve inizia per alcuni particolari a tradire un poco il testo. Cresce di importanza il personaggio interpretato da Zendaya che nel corso di tutta la seconda parte avrà modo di vivere la maturazione e il cambiamento del suo rapporto con Paul Atreides, il vero protagonista della saga. Dune è, tra le altre cose, anche la storia di maturazione e cambiamento (predestinato?) di un protagonista incarnato al meglio da uno Chalamet duttile e talentuoso, un personaggio che si porta dietro una tragedia interiore e che sa (perché lo vede) che nel suo futuro ci saranno guerra e morte a carrettate e che i contrasti tra politica e religione, ma soprattutto quelli tra sentimenti e ragioni di Stato, non potranno che portare dolore e sofferenza a lui e a chi a lui sta vicino. Nell'incedere della narrazione tutto si carica di dramma, le sensazioni sono acuite dalle scelte musicali, ingiustamente criticate, di un Hans Zimmer cupo e oppressivo che giganteggia insieme alle immagini superbe di un mondo e di civiltà ostili. L'epica di Dune, immagino già dalla pagina scritta, si fonda su tantissimi contrasti, su una pluralità di elementi che convivono e rimandano l'uno all'altro donando spessore a tutto ciò che Herbert ha creato e Villeneuve ha reso magnificamente in immagini: pensiamo alla spietata violenza della razza Harkonnen, proveniente da un mondo dove anche i colori si ritraggono alla loro vista, immersi in scenari asettici e chiusi in enormi macchine di morte, e poi alla simbiosi dei Fremen con la natura, anch'essa dura e ostile, un popolo che ha imparato a viaggiare sfruttando i pericolosissimi vermi giganti della sabbia, a onorare i morti in un rito di comunione collettivo alla cui base sta un'idea geniale (gran trovata quella dell'estrazione dell'acqua, bellissima simbologia), a muoversi in sintonia con il deserto e soprattutto, almeno per parte di loro, a credere all'arrivo di un messia che veicola anche un discorso sulla fede e sulla corruzione delle religioni rappresentata bene dalle Bene Gesserit e dal personaggio interpretato da una bellissima Rebecca Fergusson in gran spolvero. Cresce con il tempo anche la figura, probabilmente chiave in un film futuro, di Alia (Anya Taylor Joy?), la sorella non ancora nata di Paul e già figura messianica anch'essa. Non sono mancate le letture dei due film in chiave sociale e politica con la visione dello sfruttamento delle risorse da parte del sistema del capitale (Occidente) ai danni delle popolazioni indigene depredate delle loro risorse nella loro terra e costrette alla ribellione (Medio Oriente), in un chiaro parallelo con Impero/Harkonnen da una parte e Fremen dall'altra. Ovviamente (e viene sempre più da dire giustamente) la parte dei cattivi spetta al capitale. Insomma, tanti spunti, spettacolo garantito, cinema di cassetta fatto per bene con ambizioni e dignità autoriali, una prima parte più faticosa e una seconda che compensa di tutto. Villeneuve è ormai una conferma che si inscrive nel genere tra le voci più interessanti e ambiziose del cinema contemporaneo (ben più di Cameron a parere di chi scrive).

sabato 19 ottobre 2024

THIS CLOSENESS

(di Kit Zauhar, 2023)

Visto che Mubi ce ne offre la possibilità torniamo a stretto giro al cinema indipendente statunitense con l'opera seconda, e al momento ultima, della regista sino-americana Kit Zauhar del quale esordio, Actual people, film del 2021, abbiamo parlato alcuni giorni orsono. Per ciò che riguarda le capacità produttive di This closeness non si nota uno stacco significativo rispetto al precedente lavoro della Zauhar. È possibile che This closeness sia costato un po' di più rispetto al suo predecessore, cosa che si può supporre più che altro dal fatto che Actual people fosse stato girato veramente con nulla o quasi; anche se il budget fosse effettivamente cresciuto la cosa non si nota, per This closeness la messa in scena rimane molto basilare, forse anche più di quanto accadeva in Actual people, in quanto questo secondo film è girato pressoché completamente in interni e in un'unica location, un piccolo appartamento di poche stanze a Philadelphia. Film ancor più essenziale nella realizzazione quindi, maggiormente claustrofobico e ancora una volta incentrato su stralci di vita vissuta e quotidiana con protagonisti appartenenti alle nuove generazioni qui poste sotto la lente d'ingrandimento della regista attraverso tre personaggi principali: una coppia giovane che affitta una stanza per un weekend e il proprietario di casa che con loro dovrà condividere gli spazi per qualche giorno. Tutto qui, il resto ancora una volta prende forma attraverso dialoghi e confronti tra questi giovani ragazzi in un film dove la parola, i gesti e i comportamenti sono il principale motore narrativo.

Tessa (Kit Zauhar) e Ben (Zane Pais) sono una giovane coppia che ha affittato una stanza per il weekend a Philadelphia in occasione di una rimpatriata con i compagni della scuola superiore (la high school americana) di Ben. Il ragazzo si occupa di giornalismo mentre Tessa ha raggiunto una certa notorietà (seppur di nicchia) su Youtube realizzando video ASMR (autonomous sensory meridian response), una tecnica di rilassamento grazie alla quale, attraverso suoni delicati, sussurri, atmosfere soffuse, si dovrebbero contrastare ansie, tensioni, stati depressivi e cose del genere. Dopo aver preso possesso della loro stanza i due ragazzi conoscono il proprietario di casa Adam (Ian Edlund), un ragazzo alto e magro che da subito a Ben e Tessa sembra un po' strambo. In effetti Adam qualche problema di socialità sembra averlo, passa il suo tempo da solo chiuso in casa, non è empatico nei confronti dei suoi ospiti, sembra spesso a disagio e mette a disagio gli altri, passa il tempo in camera a lavorare a computer creando video promozionali per una società sportiva. Adam parla spesso del suo ex coinquilino, il suo migliore amico, ma nel corso di questo weekend Ben e Tessa non riescono a capire se questo sia una persona reale o una fantasia di Adam che si dimostra un po' dissociato dal vivere comune. Un poco per la situazione imbarazzante creatasi con Adam in casa, un po' per la rimpatriata di Ben e la presenza di Lizzy (Jessie Pinnick), una compagna di Ben molto espansiva, cresce un po' di tensione all'interno della coppia; qualche confronto sembra ormai necessario.

La Zauhar chiude tre protagonisti (+2) in casa ed elabora sprazzi d'incomunicabilità, comprensioni a singhiozzo, scampoli d'immaturità relazionale, forti sentori di disagio sociale, vuoti improvvisi di discorso che parlano più dei pieni. Ben, Tessa e Adam sono tre personaggi molto diversi tra loro: tutti e tre abbozzano mestieri in cui la capacità di arrivare agli altri è fondamentale eppure si rivelano tutti inadeguati al compito nel loro privato e tra le quattro mura di questa casa prigione che è a tutti gli effetti l'unico set di This closeness (Questa vicinanza, che tanto danno può fare). Ben è in fondo molto immaturo, esce, si diverte, si ubriaca, flirta, seppur in modo innocente, con l'amica Lizzy in presenza di Tessa; il ragazzo si dimostra incapace di intavolare un discorso profondo nel momento della discussione, quando arriva lo scontro (verbale) si limita a frignare. Tessa è molto più esigente con sé stessa, almeno all'apparenza, sembra non dar peso al passato ed essere molto concentrata sul suo presente nonostante si intuisca la mancanza di un qualcosa, riesce per un momento ad avvicinarsi ad Adam che in maniera evidente non è in grado di affrontare il rapporto con l'altro con serenità. Le mancanze relazionali, forse anche di prospettiva, di questi giovani sono narrate, recitate e fatte recitare dalla Zauhar con grande naturalezza, l'impressione che si ha guardando This closeness è che questo sia un film poco costruito e dove lo è non lo lascia vedere, portando verso lo spettatore un senso di verità molto efficace e diretto. Si conferma così quella di Zauhar una voce interessante per quel che riguarda il panorama giovane e alternativo al cinema, forse ancora un laboratorio per ora che dovrà superare la prova, se mai se ne presenterà l'occasione, di una realizzazione più articolata e magari costruita su un budget più consistente. Da tenere d'occhio.

martedì 15 ottobre 2024

L'UOMO NELL'OMBRA

(The ghost writer di Roman Polanski, 2010)

Prendiamola un poco larga e partiamo da Robert Harris, scrittore inglese da non confondere con l'omonimo (per cognome) Thomas, noto a tutti per essere il creatore del personaggio di Hannibal Lecter de Il silenzio degli innocenti (e non solo). Robert invece ha scritto alcuni thriller degni di nota come Fatherland (ve lo consiglio) ed Enigma, entrambi tra i suoi primi e lodati lavori, e anche il più recente Il ghostwriter, romanzo da cui questo film è tratto. È proprio Robert Harris, autore del soggetto di questo L'uomo nell'ombra a collaborare con Roman Polanski alla stesura della sceneggiatura che sarà poi lo scheletro per la realizzazione di questo thriller politico dai tratti che oscillano tra il moderno (per i temi trattati molto vicini all'attualità dei suoi anni) e il classico (per quanto concerne struttura e narrazione). Il film di Polanski, autore che dall'alto dei suoi capolavori pare essere ormai inattaccabile, venne all'epoca della sua uscita per lo più incensato da una critica che affastella (giustamente) letture sulla contemporaneità andando così ad appiccicare al film un'etichetta di "masterpiece" che pare, a parer mio, almeno un poco esagerata fermo restando il buon esito di un film che vive di ottimi momenti, dovuti alle grandi capacità di regista e costruttore di Polanski, ma anche di fasi di sviluppo non così interessanti e coinvolgenti che, insieme alle prime, vanno a formare un film sì piacevole e con ottimi spunti di riflessione ma in fin dei conti non proprio memorabile.

Il "ghost writer" di un noto politico britannico autoesiliatosi negli Stati Uniti d'America a Martha's Vineyard viene trovato morto, annegato al termine di un viaggio in traghetto. Data la necessità di far uscire in tempi brevi un'autobiografia del politico, l'ex premier britannico Adam Lang (Pierce Brosnan), l'entourage dell'uomo e il personale della casa editrice contattano un nuovo ghost writer (Ewan McGregor), uno scrittore che in realtà fino a quel momento non si è mai occupato di politica, una materia non troppo nelle sue corde, ma che sa come imbellettare i fatti a uso e consumo del pubblico e arrivare al cuore della gente puntando più sulle piccole cose che fanno l'uomo piuttosto che sugli eventi politici nei quali questo è stato coinvolto. Sotto quest'ultimo punto di vista non tira una bella aria per Lang, accusato di servilismo nei confronti degli U.S.A. e di aver autorizzato metodi di tortura nei confronti di sospetti terroristi sotto le pressioni della C.I.A. e della Presidenza americana. Nonostante una vaghezza persistente sulla vicenda della morte del suo predecessore, spinto dal suo agente Rick (Jon Bernthal) e dal lusinghiero compenso previsto per la revisione dell'opera (già imbastita dal suo predecessore) il ghost writer accetta l'incarico. Non appena le cose si mettono in moto e lo scrittore è in procinto di trasferirsi nei pressi della villa di Lang sull'isola di Martha's Vineyard per lavorare a contatto con quest'ultimo e con il suo entourage, diversi piccoli episodi ammantano di inquietudine e pericolo l'intera vicenda tanto da far nascere dei sospetti nel ghost writer sulla buona fede di Lang e di tutta la sua squadra, a cominciare da Ruth (Olivia Williams), moglie di quest'ultimo, e dalla sua assistente Amelia Bly (Kim Cattrall).

Se preso come esempio di thriller politico a sé stante L'uomo nell'ombra non fa di certo gridare al miracolo; quella sottile inquietudine strisciante è capace di arrivare allo spettatore ma lo sviluppo, a parte alcune sequenze molto ben riuscite (la prima scena, le vedute sulla spiaggia, il bellissimo finale), paga anche alcune scelte facili come le scoperte repentine arrivate senza sforzo alcuno a conoscenza di quello che a conti fatti è un uomo comune, un dilettante e non certo un investigatore, o come la trovata abusatissima del giochetto finale sul manoscritto; il film comincia ad acquisire vero interesse quando si inizia a farlo dialogare con l'attualità di quegli anni, qui troviamo almeno due temi interessanti. Il primo, come già detto all'epoca, è la vicinanza del racconto alle vicende pubbliche dell'ex Primo Ministro inglese Tony Blair tacciato anch'egli di troppo filoamericanismo, in quest'ottica il film acquista oltre che interesse anche valore nella visione spietata e sfiduciata di una politica ormai scollata dai bisogni reali dei cittadini e mossa da interessi elitari per soli addetti ai lavori. Il secondo tema d'interesse ricorre nel percepire il senso di chiusura e claustrofobia che il protagonista si trova a vivere nella villa di Lang in parallelo alla situazione dello stesso Polanski all'epoca in stato di arresto domiciliare in Svizzera, situazione nella quale il regista si dedicò al montaggio del suo film e che probabilmente ha influito non poco nella resa di alcune atmosfere presenti ne L'uomo nell'ombra. Teso il giusto, ben girato, gradevole, Polanski però farà molto meglio l'anno successivo con l'ottimo Carnage.

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