giovedì 20 febbraio 2025

LE MANI SULLA CITTÀ

(di Francesco Rosi, 1963)

Si dice che i grandi film non risentano del passare del tempo e che in qualche modo riescano a risultare sempre attuali, considerazione questa che senza ombra di dubbio ben si sposa a un film come Le mani sulla città di Francesco Rosi, attualissimo pur essendo uscito nell'ormai remoto 1963. Opera marcatamente politica, pur presentando manovre di partito, abusi e collusioni tra cariche pubbliche e imprenditoria privata mutuate da situazioni proprie di un'epoca ormai lontana, per contenuti Le mani sulla città potrebbe benissimo essere stato girato l'altro ieri tanto le faccende di malaffare riecheggiano e somigliano alle malefatte della classe politica nostra contemporanea. Purtroppo il film di Rosi, il suo perdurare nell'essere così maledettamente contemporaneo, ci sbatte in faccia a distanza di sessant'anni un malessere e un malcostume ancora endemico del nostro Paese, un'abitudine così radicata da sembrare ormai quasi inestirpabile, come se nessun tipo di diserbante avesse le proprietà necessarie per sradicare la gramigna cattiva. Interessante vedere quanto addentro al sistema politico Rosi decida di andare per raccontare e filmare la sua storia, molto parlata, molto dibattuta, un film dove le sedute del Consiglio Comunale diventano protagoniste e le manovre politiche sottobanco il loro naturale e opportunistico controcanto, e già ce li immaginiamo (non che ci voglia chissà quale immaginazione) i nostri governanti adottare pratiche per nulla dissimili a quelle messe in campo dal fittizio Consiglio Comunale della Napoli del boom edilizio presentataci dal regista partenopeo.

Edoardo Nottola (Rod Steiger) è un consigliere del Comune di Napoli ma è anche e soprattutto un proprietario terriero imparentato con il titolare di una grossa impresa edilizia partenopea. Negli anni del boom economico e della cementificazione selvaggia Nottola cerca in ogni modo di aggirare il piano regolatore della città per orientare lo sviluppo edilizio nella zona dove sono ubicati i terreni di sua proprietà e potervi quindi edificare palazzi moderni con la scusa del benessere dei cittadini ora costretti a viveri in case vecchie e fatiscenti nel centro di Napoli. A muovere la volontà del consigliere, appartenente a uno dei partiti della destra parlamentare, non è ovviamente l'interesse comune ma il più bieco dei tornaconti personali. Intanto in centro città, in uno dei cantieri dove opera il gruppo di Nottola, crolla un palazzo uccidendo due persone e menomando a vita un ragazzino; l'episodio è la goccia che fa traboccare il vaso e le opposizioni, guidate dal consigliere della sinistra De Vita (Carlo Fermariello, vero politico e sindacalista dell'epoca), pretendono l'istituzione di una commissione d'inchiesta per indagare sulle manovre del consigliere Nottola e dei suoi. Le elezioni sono vicine e bisogna muoversi con i piedi di piombo, gli scontri in sala di consiglio si susseguono ma gli interessi politici, le alleanze dell'ultimo minuto e gli opportunismi personali avranno come sempre la meglio sul benessere e sulla vita dei cittadini.

Francesco Rosi si è distinto per una carriera che ha toccato con classe e maestria il cinema di impegno civile e di denuncia, in questo senso Le mani sulla città è solo uno degli esempi del lavoro di un regista che ha inanellato opere come Cadaveri eccellenti (1976) che richiama gli anni di piombo e i movimenti occulti all'interno di organi di Stato e partiti, Salvatore Giuliano sulla vita del celebre bandito e sulla strage di Portella della Ginestra o Il caso Mattei, film per il quale Rosi affermò di aver ricevuto anche minacce di morte. Per Le mani sulla città Rosi si avvale della presenza di reali esponenti politici, gente addentro al sistema, e ne ritrae vitalità e magagne con piglio documentato e documentaristico senza mai mettere da parte l'idea di offrire un ottimo spettacolo al suo pubblico. Ne è la dimostrazione pratica tutta la parte iniziale del film con riprese aeree introduttive di grande fascino realizzate in un'epoca dove la monotonia del drone era ancora ben lungi dal palesarsi, con la sequenza del crollo della palazzina, semplicemente magistrale, e con le coreografie delle folle e dei soccorsi in scene gestite, tra studio e improvvisazione, in maniera davvero impeccabile, firma di un gran regista. La veridicità delle situazioni, lo studio delle meccaniche, la visione dei personaggi sono tutti elementi ben esemplificati dalla frase apposta in chiusura di film: "I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce". Nel tratteggiare l'opportunismo e il trasformismo politico così tanto in voga ancora oggi Rosi centra il bersaglio senza esitazione, attraversa le decadi con la leggerezza dell'opera pienamente riuscita e sigla uno dei classici imperdibili del nostro cinema che vive in alcuni episodi (e molto bene) anche oltre il mai dimenticato neorealismo.

martedì 18 febbraio 2025

GOING UNDERGROUND

(di Lisa Bosi, 2024)

Se nel pensare a periodi e ad anni di rottura o "rivoluzionari" è il Sessantotto a venire alla mente di primo acchito, il finale degli anni Settanta non è certo stato da meno. Si pensi al fermento nato intorno ai movimenti politici e culturali del 1977 e degli anni successivi, anni che hanno visto srotolarsi davanti agli occhi degli italiani (e del mondo) scontri di piazza, proteste studentesche, la diffusione su scala ampia delle droghe pesanti, dell'eroina in particolare, ma anche il diffondersi delle condivisioni, delle piccole comuni abitative, di gruppi spontanei di fermento creativo, inizialmente anche molto abborracciati ma nati da urgenze o malesseri sinceri, da voglie d'espressione libera e di rivalsa, magari anche economica, perché no, ma soprattutto da una spinta culturale e libertaria che ha portato ondate di cambiamento, alcune delle quali favorite da influenze provenienti dall'estero. È in questo contesto che a Bologna, uno dei punti caldi del periodo in esame, si formano diverse nuove esperienze musicali tra le quali una delle più significative e trasversali è stata quella legata al gruppo dei Gaznevada. Con Going Underground la regista Lisa Bosi ci accompagna non solo attraverso le vicende e i cambi di formazione e di attitudine dei Gaznevada ma anche lungo il dipanarsi di un periodo storico e culturale molto significativo per la Storia del nostro Paese in un amalgama ben riuscito tra musica e ambiente, influenze esterne ed esperienze dirette di un gruppo di ragazzi che della musica libera voleva fare la loro vita, cadendo, riprovando, eccedendo, lasciando qualcuno sul campo e infilando anche qualche successo, imprimendo così il loro nome, oggi forse un poco dimenticato, su una pagina importante della musica italiana alternativa.

Questa storia parla di persone realmente esistite ma ogni riferimento a loro è puramente casuale. "Eravamo ragazzi con la testa piena di letture sbagliate fatte troppo in fretta [...] prigionieri di un mondo appena creato ma pieno di promesse. Noi abbiamo creduto a tutte quelle promesse.  [...] Questa è una storia di eroina e amaro in gola; aspettavamo di fare successo... facendo di tutto per non farlo. Decidemmo di chiamarci Gaznevada". È così che si apre, sulle immagini di un paesaggio alieno, questo Going underground, breve documentario, testimonianza dell'avventura Gaznevada raccontata dalle voci (con accento marcato) degli stessi componenti della band, ora cresciuti, presenze bizzarre di un ambiente allucinato, "un'interferenza trasformata in onda musicale". In realtà i Gaznevada arrivano in un momento storico in cui in Italia di interferenze di certo non ne mancano, sotto il punto di vista musicale e culturale la loro esperienza contribuì però a iniettare nuova linfa nel panorama del Paese; in un'epoca analogica, folgorati dall'ascolto dei dischi dei Ramones, alcuni giovani tra i quali il chitarrista Robert Squibb (Ciro Pagano), il bassista Johnny Tramonta (Giampietro Huber), il batterista Bat Matic (Marco Dondini), il cantante Andrew Nevada (Giorgio Lavagna), il tastierista Nico Gamma (Gianluca Galliani) e il sassofonista Sandy Banana (Alessandro Raffini) si trovano coinvolti nella nascita della Traumfabrik, inizialmente un'esperienza condivisa culturale senza pretese d'arrivare al mercato. In una casa occupata di Bologna i nostri condividono gli spazi con Filippo Scozzari, fumettista e illustratore diventato poi molto celebre, da qui i Gaznevada (ancora non si chiamavano nemmeno così) muovono i primi passi partendo dal rock demenziale (Mamma dammi la benza) subito abbandonato in favore di un approccio punk alla musica. L'incontro con la Harpo's Bazar, poi Italian Records, diede il via a un percorso musicale che portò il gruppo a una maggiore visibilità e ad attraversare negli anni i periodi del punk, della new wave, della italo disco fino ad arrivare al pop degli anni 80, alle apparizioni televisive e al palco del Festivalbar. Nel mezzo i danni causati dall'eroina, i cambi di formazione e, almeno per qualcuno, una voglia di emergere in contrasto con tutto e tutti.

In sala dal 24 febbraio per Wanted cinema, Going Underground è diretto da Lisa Bosi, regista interessata ai movimenti musicali, già autrice di Disco Ruin, documentario dedicato al mondo delle discoteche e dei club nel periodo che va dai 60 ai 90 del secolo scorso. Per Going underground la Bosi sceglie di non avvalersi solo dell'approccio classico delle "teste parlanti", andando invece a creare un documentario dal taglio vivace e moderno tra voci fuori campo sghembe e protagoniste in prima persona della vicenda narrata, scampoli di repertorio tratti da episodi di cronaca del periodo come da performance live dei primi Gaznevada fino ad arrivare ai successivi passaggi televisivi; non mancano alcune interviste d'epoca e sequenze di introduzione e collegamento visivamente accattivanti e stralunate, realizzate dalla Bosi con i Gaznevada di oggi, ancora personaggi sopra le righe capaci di padroneggiare il video. Ciò che maggiormente funziona in questo documentario è la capacità di inserire al meglio l'avventura Gaznevada nel contesto sociale dell'epoca; è interessante infatti seguire il percorso di quei giovani ragazzi ma anche quello delle loro frequentazioni, la nascita della Traumfabrik, la presenza in casa non solo di Scozzari ma anche di un certo Andrea Pazienza, il nome più parlante del fumetto indipendente dell'epoca, un ragazzo destinato a fare un pezzo di storia del fumetto e a rimanere per sempre, oltre il momento della sua prematura scomparsa; divertente scoprire come dietro alcune delle storie di Pazienza ci siano proprio le vicende dei componenti dei Gaznevada e di come Zanardi, il suo personaggio di punta, sia stato (forse?) ispirato proprio da Robert Squibb (pare che in principio portasse anche il nome di Pagano che si incazzò e portò Pazienza ad optare per un nome alternativo, Zanardi appunto). Ne esce così il vissuto di quei ragazzi immersi in un'epoca non facile e turbolenta, punk nell'animo che sono stati in grado di reinventarsi col tempo; Going underground riporta alla memoria la loro storia e quella della loro generazione portando allo spettatore un punto di vista non istituzionale ma personale e costruito sulla sincerità delle ferite vissute sulla propria pelle. Si chiude con i Datura, costola e residuo di ciò che nacque in quell'ormai all'apparenza lontano 1977, ulteriore esperienza di chi a continuato a insistere e a insistere, ancora e ancora.

martedì 11 febbraio 2025

2046

(di Wong Kar-wai, 2004)

Il tempo e le occasioni non tornano, un amore segreto può essere custodito anche per sempre
. Con queste parole chiudevamo qualche tempo fa la nostra riflessione su quel gioiello prezioso che è In the mood for love, l'opera più nota del regista originario di Hong Kong Wong Kar-wai. Dopo quattro anni di gestazione travagliata e interrotta a più riprese Wong Kar-wai esce con questo 2046, un film che riflette proprio sull'impossibilità di tornare ai tempi andati, agli amori perduti, non pienamente vissuti, a quella mancanza struggente capace di bloccare intere esistenze, farle deragliare nell'eterna ricerca di un surrogato, di una soluzione palliativa che nell'intimo, in fondo, si sa destinata a non avere futuro. Per far questo il regista sceglie di costruire un film intimamente legato alla sua opera precedente (al suo capolavoro) senza optare però per un vero e proprio sequel; 2046 è un'opera tutta da decifrare, strana per certi versi, enigmatica, indubbiamente meno facile e meno centrata rispetto a In the mood for love, opera che rientra invece nel genere del melò, nel novero di quelle storie d'amore tormentate e intramontabili di cui il cinema ha ancora così tanto bisogno (e anche noi, non solo il cinema). Il filo che lega questo film al precedente (ma alcuni elementi rimandano addirittura a Days of being wild del 1991) è scoperto e si può afferrare da subito nell'osservare come ricorrano gli stessi attori principali (e non solo loro) già protagonisti di In the mood for love, ritornano qui nei panni di personaggi che portano gli stessi nomi di quelli già conosciuti qualche anno prima, almeno uno dei quali diremmo essere proprio lo stesso Signor Chow Mo-wan interpretato dal bravissimo Tony Leung. Le identità rischiano di confondersi, il tempo sembra quasi sospeso, irreale, eppure siamo, almeno leggendo uno dei livelli del film, in quel 1966 già definito come momento di passaggio per la città di Hong Kong, proprio come lo sarà in futuro l'anno chiave 2046.

Il fascinoso Chow Mo-wan (Tony Leung) lascia Hong Kong e la donna con cui intrattiene una relazione, Lulu (Carina Lau), per trasferirsi a Singapore dove troverà impiego come giornalista iniziando anche la stesura di un romanzo dal titolo 2046. Tornato ad Hong Kong dopo un periodo passato a Singapore Chow Mo-wan trova casa in un albergo un poco fatiscente; qui richiede al proprietario di poter alloggiare nella camera 2046 (la stessa in cui si consumava l'amore de In the mood for love) la quale però, a causa di un fatto probabilmente increscioso, non è disponibile e verrà in seguito occupata dalla prostituta Bai Ling (Zhang Ziyi) mentre l'uomo si sistemerà nell'adiacente 2047. Nel frattempo Chow Mo-wan porta avanti il suo romanzo fantascientifico nel quale il 2046 (un anno? un luogo?) è una meta agognata dove poter ritrovare i propri ricordi perduti, una meta alla quale in molti approdano ma dalla quale nessuno ritorna, nessuno tranne il protagonista del libro che sembra muoversi senza raggiungere più nessun luogo e nessun tempo. In realtà potrebbe essere proprio l'autore del romanzo a rincorrere il ricordo di un amore perduto, una Su Li-Zhen (Maggie Cheung) sepolta nel passato e cercata in qualche modo in Lulu, nella prostituta Bai Ling con la quale Chow avrà una relazione di una certa importanza seppur condotta sul filo del mercimonio, in misura minore nella vicinanza con Wang Jing-wen (Faye Wong), la bella figlia dell'albergatore fidanzata con un giapponese (e per ragioni storiche il padre i giapponesi li odia) e infine Su Li-Zhen, un'altra Su Li-Zhen (sempre Maggie Cheung), giocatrice professionista. Ma il tempo e le occasioni non tornano, non rimane che custodire la memoria di un amore, anche per sempre, in fondo "nella vita il vero amore lo si può mancare se lo si incontra troppo presto, o troppo tardi".

Quanto deve essere stato difficile approcciare la realizzazione dell'opera successiva a un capolavoro riconosciuto e amato come In the mood for love? Wong Kar-wai decide così di non allontanarcisi troppo e allo stesso tempo di sperimentare, con le forme della narrazione e con il nucleo di quel film dal quale in più di un senso questo 2046 discende e matura. Tanta carne al fuoco, a volte la percezione disorientante è che sia addirittura troppa, in un'accavallarsi di protagonisti, di donne soprattutto, di realtà e finzione, presente, passato e futuro, luoghi, anni. 2046 diventa così un numero simbolico: era la camera d'albergo dove in In the mood for love si ritrovavano i due protagonisti, è il titolo del romanzo che sta scrivendo Chow Mo-wan, è l'anno o il luogo a cui tendono i protagonisti del libro, è la camera in cui avrebbe dovuto alloggiare ora l'uomo e che invece viene occupata dalla bellissima Bai Ling, è l'anno in cui il periodo complicato, di transizione per Hong Kong terminerà con il ritorno definitivo alla Cina. Questo fantomatico 2046 nel quale si andrebbe a recuperare i ricordi perduti è il legame di un uomo che nel ricordo di un amore vive, al quale si aggrappa e che gli impedisce di trovare una nuova relazione sincera, profonda, anche se i presupposti gli si presentano più volte, soprattutto grazie alla "vicina" Bai Ling. Ma la perdita di quell'amore primigenio porta Chow Mo-wan a rifiutare legami duraturi, a perdersi in gozzoviglie con amici e colleghi, nel gioco, in relazioni temporanee fatte di sesso e chiusura ai sentimenti. 2046 è ancora un film d'amore, slabbrato quanto si vuole ma denso e carico, un film che diventa un corpo d'opera con il suo predecessore e come tale va letto, d'altronde i segnali di stile, e che stile, parlano chiaro: ancora le inquadrature sui lampioni, la pioggia, i muri, i vestiti eleganti d'epoca (meravigliosi), tutte cose che ci riportano a In the mood for love insieme all'uso delle cromie, alle strettoie virate al rosso qui alternate a campiture di verde, ancora una volta negli abiti, nelle pareti delle stanze. E poi gli specchi, a riprendere e richiamare inquadrature perfette, il controcampo con le figure di spalle, gli spazi stretti, gli interni carichi. Tutto questo, ammantato da una scelta musicale di nuovo significativa, ci racconta una solitudine, un rimpianto narrato in maniera quasi letteraria da un voice over molto presente, quasi fuori misura, e alla fine ci si domanda se l'amore più forte, più persistente e duraturo non sia inevitabilmente quello che non ci appartiene.

giovedì 6 febbraio 2025

SQUID GAME - STAGIONE 2

Alcune "seconde stagioni" di serial televisivi molto amati dal pubblico nascono solamente in virtù del successo di una prima annata che in maniera inaspettata si trovi a superare ogni più rosea aspettativa di ascolti (o di ore di visualizzazione, tanto per adeguarsi ai parametri delle piattaforme); è successo con La casa di carta ed è successo anche con la sudcoreana Squid game, serie ideata e scritta da Hwang Dong-hyuk, già regista di diversi lungometraggi. Il progetto di queste seconde annate non nasce quindi da incontenibili urgenze creative ne tanto meno da improvvisi picchi di genio traducibili poi in una necessità narrativa atta a implementare e approfondire il concept iniziale. Come avviene in tanti altri settori dell'intrattenimento tutto diventa una pura e semplice questione di soldi e, in linea generale, quando questo accade, l'input venale in qualche modo va a riflettersi sul risultato finale. Questo non vuol dire che l'operazione nasca per forza di cose in maniera fallimentare, questo Squid game - stagione due ad esempio non lo è affatto, viene però a mancare quell'originalità e quella spinta sincera che magari, come in questo caso, contraddistingueva in maniera decisa una prima stagione meglio riuscita (pur non facendo gridare al miracolo) e più calibrata negli equilibri narrativi e di ritmo. Ci troviamo in ogni caso davanti a un prodotto non perfetto ma capace di regalare ancora spunti di riflessione e momenti di giusta tensione spettacolare, il finale (molto) aperto lascia lo spettatore in attesa del prosieguo che, salvo smentite o ripensamenti, dovrebbe arrivare nell'estate di questo stesso anno.

Seon Gi-hun (Lee Jung-jae) è l'unico sopravvissuto al gioco al massacro che tre anni prima si è svolto su una misteriosa isola dall'ubicazione sconosciuta, sita probabilmente da qualche parte al largo delle coste della Corea del Sud. Seon Gi-hun è tornato a casa con una marea di soldi che avrebbero potuto risollevare la sua vita e quella della sua famiglia (in questa stagione assente), invece la quantità di morte e violenza che l'uomo è stato costretto a vivere in prima persona sull'isola ne ha minato la capacità di ricominciare; ora l'unico scopo di Seon Gi-hun è quello di rintracciare l'isola e porre fine per sempre ai giochi crudeli e assassini che l'organizzazione diretta dal Front man (Lee Byung-hun) mette in atto a favore di uomini ricchi e annoiati a discapito delle vite di tanti disperati emarginati dalle dinamiche economiche della società sudcoreana. Per potersi riconnettere al mondo dei giochi Seon Gi-hun, dotato ora di disponibilità economiche importanti, mette in piedi una rete di aiutanti con il compito di rintracciare nelle stazioni della metro di Seul l'uomo (Gong Yoo) che anni prima lo reclutò con l'inganno per partecipare ai giochi, unico elemento certo che potrebbe indirizzare Seon verso l'isola. Oltre a lui a cercare la sede di questi giochi c'è anche Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon), poliziotto e all'insaputa di tutti fratello del Front man, si alleerà con il gruppo di Seon per trovare e raggiungere l'isola. Ovviamente, volente o nolente, Seon Gi-hun si troverà a dover partecipare alla nuova edizione dello Squid Game con il vantaggio della consapevolezza e la ferma intenzione di salvare quante più vite possibili e magari sgominare l'organizzazione che tira le fila del gioco.

Per questa ripresa del suo show l'ideatore Hwang Dong-hyuk sceglie una costruzione più estesa rispetto alla stagione precedente ma divisa in due tronconi, il secondo dei quali sarà disponibile tra qualche mese. Il primo ostacolo da superare era riaprire una narrazione che avrebbe potuto considerarsi conclusa per riportare almeno il protagonista principale sull'isola a confrontarsi nuovamente con i giochi, con nuovi compagni di viaggio e sviluppare dinamiche, di gioco e relazionali, almeno in parte inedite. Per far questo, con un intreccio che per sommi capi abbiamo riassunto poco sopra, Hwang Dong-hyuk impiega le prime due puntate della stagione durante le quali si tenta di creare un nuovo contesto credibile che, almeno a tratti, affossa il ritmo agli occhi di uno spettatore che sa già dove si sta andando a parare; il fatto che si tornerà sull'isola e ai giochi dello Squid Game è cosa scontata, le dinamiche instaurate nei primi due episodi per portarci a quel punto non presentano grandi elementi di interesse, le cose iniziano a farsi realmente serie e accattivanti solo dal terzo episodio in avanti. Allo stesso modo, almeno per ora, funzionano poco le sottotrame legate al poliziotto Hwang Jun-ho e al suo gruppo d'assalto, gli esiti delle stesse li vedremo probabilmente durante la ripresa estiva. Gli elementi d'interesse, quando si entra nel vivo della stagione, però non mancano: se si affievolisce un poco il discorso sulla società sudcoreana e sulle difficoltà economiche di molti suoi cittadini che portano a miseria e disperazione (temi comunque sempre presenti e motore del reclutamento al gioco di tanti disperati), si rafforza invece la riflessione più universale sull'avidità umana, sulla sopraffazione dell'altro (anche violenta) e sulla propensione dell'uomo a mettere i propri bisogni e i propri punti di vista su un piedistallo e reputarli sempre più importanti, ragionevoli e giusti rispetto a quelli degli altri. Entra in gioco quindi la dinamica della votazione grazie alla quale, dopo aver scoperto la mortalità dei giochi, a conclusione di ogni singola gara "il popolo" potrà votare se tornare a casa con la pelle salva (ma magari non troppo ricchi) o rischiarla e tentare il colpo di fortuna che garantisce miliardi di won. Il popolo, come spesso accade nella realtà, vota male. L'ingresso di nuovi personaggi garantisce poi la possibilità di introdurre nuovi temi come il cambio di sesso in un Paese forse non ancora preparato per questo tipo di situazioni come può essere la Corea del Sud, le dinamiche che si instaurano tra genitori e figli di fronte al rischio, le conseguenze del vizio del gioco e altri spunti ancora. Meno centrata e divertente della prima annata, la seconda stagione di Squid Game offre comunque un buon intrattenimento, qualche riflessione interessante e una promessa di chiusura che speriamo venga attesa definitivamente con la prossima tranche, nella speranza che non ci sia in vista il progetto di allungare oltremodo il brodo.

domenica 2 febbraio 2025

GASOLINE RAINBOW

(dei Ross Brothers, 2023)

Bill Ross IV e Turner Ross sono nati in anni diversi a Sidney, non la Sydney australiana con doppia Y ma la Sidney dell'Ohio con una Y sola, contea di Shelby, una cittadina con ventimila anime nella quale i Ross Brothers ambientarono il loro primo lungometraggio dal titolo 45365 (il codice postale della cittadina). 45365 è una sorta di documentario che racconta una giornata nel paese natale dei due registi; siamo nel campo del cinema indipendente, il film tra l'altro venne anche premiato all'Indipendent Spirit Awards, festival prestigioso per i film non prodotti da majors che nel suo palmares conta anche pellicole illustrissime come il Fuori orario di Martin Scorsese, Sesso, bugie e videotape di Soderbergh, Pulp fiction di Tarantino, Lost in traslation della Coppola, Fargo dei Coen e in anni più recenti cose come il Nomadland della Zhao o il Birdman di Inarritu e via di questo passo. Forse si premiano cose più interessanti qui che non durante la notte degli Oscar. Quella del documentario è la strada che i Ross Brothers hanno percorso e battuto più o meno fino a oggi inanellando dal loro esordio una decina di lavori in quindici anni, Gasoline rainbow è al momento solo l'ultimo di questi. Il film è stato presentato a Venezia nel 2023 prima di essere poi distribuito dalla piattaforma Mubi dove oggi il film è visibile in diversi paesi. Pur essendo il primo effettivo film di finzione a opera dei Ross Brothers l'approccio assomiglia molto a quello del cinema del reale; pochi mezzi per seguire un breve lasso di tempo nella vita di cinque ragazzi che, finite le scuole superiori, cercano un'ultima avventura prima di inoltrarsi in una nuova fase delle loro vite.

Nathaly (Nathaly Garcia), Tony (Tony Abuerto), Makai (Makai Garza), Nicole (Nicole Dukes) e Micah (Micah Bunch) sono un gruppo di amici neodiplomati e decisi a concedersi una grande avventura tutti insieme prima di iniziare a pensare seriamente, non senza preoccupazione, al futuro delle loro vite che si staglia così incerto ad un prossimo orizzonte. L'idea dei cinque ragazzi è quella di vivere un viaggio in libertà partendo da Wiley, piccolo paese dell'Oregon che è il nulla materializzato, verso la costa del Pacifico, luogo dove i ragazzi non sono mai stati prima, destinazione la "festa alla fine del mondo", un'occasione di divertimento inedito che diventa un simbolo di una libertà ancora possibile. Così, attrezzato il furgone del papà di Nicole, i ragazzi partono verso questa nuova esperienza. Diversi incontri li porteranno a vedere nuovi panorami, vivere situazioni inaspettate e scoprire il lato migliore di persone incontrate per caso, parteciperanno a feste, tra chiacchiere e bevute finché qualcuno farà sparire tutte e quattro le ruote del loro mezzo di trasporto. Ormai lanciati in questa avventura che promette di essere oltremodo stimolante, il gruppo di amici deciderà di non arrendersi e di proseguire a piedi o con mezzi di fortuna il loro viaggio verso la costa via Portland, contando solo sui loro mezzi e sulla bontà della gente incontrata per strada, sarà per loro un percorso di conoscenza, di crescita e di preparazione al mondo e a quello che verrà.

Gasoline rainbow è un road movie che tratteggia la Generazione Z senza volerne dare un giudizio né tentando di incasellarla in definizioni troppo stringenti, operazione peraltro impossibile o che quantomeno lascerebbe adito a dubbi d'interpretazione, lo fa narrando il viaggio di questi cinque ragazzi, provenienti da ambienti e famiglie con qualche disfunzionalità, in maniera molto spontanea e libera in un film che sembra non poggiare su una sceneggiatura stringente ma più su stati d'animo, aspettative, momenti di condivisione che alternano scoperta, banalità, riflessioni, confidenze e che inquadrano questi rappresentanti della loro generazione all'interno di un discorso che si fa universale e che può toccare da vicino chiunque, non solo i giovani ma anche (e forse soprattutto) gli adulti che quella giovinezza l'hanno ormai perduta e con la quale si è chiuso anche quel ventaglio di grandi possibilità, di prospettive aperte e di profonda libertà, magari anche solo in potenza, che una vita ormai decisa, incasellata tra doveri, abitudini e rapporti consolidati ha sepolto in certezze quasi inscalfibili, soddisfacenti o meno esse possano essere. In Gasoline rainbow quel sentore di libertà e di possibilità si respira ancora forte nonostante già compaia quell'ansia, quell'incertezza nel futuro che attanaglia le giovani generazioni, un'ansia che vediamo apparire nell'ultima scena, a viaggio terminato, sul volto di Tony quando giunge la consapevolezza che ormai è ora di tornare a casa e di iniziare a pensare a dove dirigersi nel futuro imminente, una scelta che potrebbe non essere così semplice, soprattutto dovendo muovere da Wiley, Ohio. I Russ Brothers ci accompagnano e si accompagnano in questo viaggio di circa cinquecento miglia con cinque attori non professionisti, ragazzi alle prime armi con cinque volti perfetti per questa storia, una bellissima scelta di casting che contribuisce, insieme a ottime panoramiche su paesaggi desertici e periferie cittadine, al naturale corso di uno spostamento che probabilmente deve qualcosa al primo Van Sant, quello di film come Mala noche o Belli e dannati, già cantore di Portland e dintorni. Da Gasoline rainbow esce un ritratto di un'America marginale ma a suo modo molto accogliente; a parte l'episodio del furto delle gomme i nostri eroi incontrano vagabondi, altri gruppi di ragazzi in movimento come loro, il più adulto cugino di Micah che darà loro ospitalità e che sarà l'occasione per il ragazzo di avere un confronto dolce e sincero, una coppia di vecchi rocker un po' matti ma desiderosi di dare una mano a questi giovani, tutta gente ben disposta verso il prossimo, ricchezza che darà senso in positivo al viaggio dei cinque che vivono anche e soprattutto dell'amore sincero che provano l'uno per l'altro, in un'età dove le amicizie sono tutto in un mare di incomprensioni familiari e situazioni difficili (razzismo, deportazioni oltre confine con il Messico, abbandoni, genitori in rehab, etc...). I due registi adottano una messa in scena immediata, non artefatta, molto naturale dando libero spazio al sentire dei loro protagonisti che nel film portano i loro stessi nomi di battesimo, come a sottolineare e rafforzare la vicinanza con la realtà di questo viaggio che avrà una conclusione simbolica nel raggiungimento della "festa alla fine del mondo", un po' come a dire, espressione anche abusata, che è il viaggio quello che conta e non la meta, affermazione che però ben si sposa a questo passaggio nelle vite di Nathaly, Tony, Micah, Nicole e Makay, rappresentanti di una generazione che non ha più in sé i germi della ribellione contro il sistema ma che porta nel DNA, facendo un discorso generalizzato, la matrice di una maggior semplicità della condivisione. Gasoline Rainbow è un film piccolo passato troppo sotto silenzio, da recuperare senza riserve.

mercoledì 29 gennaio 2025

JESUS ROLLS - QUINTANA È TORNATO!

(The Jesus rolls di John Turturro, 2019)

Con Jesus Rolls - Quintana è tornato il regista e protagonista John Turturro riprende in mano, a vent'anni di distanza dalla sua prima apparizione, il personaggio più riconoscibile e indimenticato della sua intera carriera, un uomo, un mezzo delinquente campione di bowling al quale sono bastati pochissimi minuti all'interno di un film divenuto poi un cult mondiale (Il grande Lebowski dei fratelli Coen, 1998) per rimanere impresso nella mente degli spettatori a imperitura memoria; in fondo, si sa, "non se escherza con Jesus". Ecco, per godersi nella giusta maniera e senza pregiudizi Jesus Rolls è necessario dimenticarsi del fatto che questo film sia una sorta di spin-off de Il grande Lebowski, film di ben altro livello, anche perché uno spin-off lo è solo nominalmente; certo il protagonista è Jesus, il personaggio è quello, ma i riferimenti al film con i grandissimi Jeff Bridges, John Goodman e Steve Buscemi finiscono più o meno qui, c'è giusto una brevissima scena su una pista da bowling in omaggio al Jesus che fu, per il resto si va da tutt'altra parte e anche il bowling ce lo si scorda per tutta la parte rimanente del film. Quindi dov'è che va di preciso John Turturro con il suo Quintana è tornato? Da tutt'altra parte, in Francia per esempio, perché Jesus Rolls è una sorta di remake di un film francese post sessantottino, I santissimi, pellicola del 1974 del regista Bertrand Blier, un'opera della quale Turturro segue le orme solo in parte, mantenendone vivi molti passaggi di trama ma alleggerendone ed edulcorandone il marcato spirito sovversivo, confezionando quindi un'opera più remake che spin-off e sicuramente lontana nel personaggio principale dal Jesus Quintana che tutti abbiamo imparato a conoscere negli anni Novanta.

Jesus Quintana (John Turturro) si prepara ad uscire di prigione dopo aver scontato una pena per esibizionismo, episodio nel quale era coinvolto un giovane ragazzino. Il mago del bowling trova ad attenderlo fuori dalle mura del carcere il vecchio amico Petey (Bobby Cannavale); i due, come prima cosa, rubano la macchina sportiva di un parrucchiere (Jon Hamm) per andare a trovare la madre di Jesus (Sonia Braga). Finita la visita, essendo in libertà vigilata, Jesus e Petey decidono di compiere una buona azione e restituire l'auto al proprietario trovandolo però un tantino innervosito dall'episodio. Durante la discussione che ne segue Jesus riconosce la shampista della "star del capello" come la sua vecchia amica Marie (Audrey Tatou), il parrucchiere spara nelle palle a Petey, Jesus dopo averlo pestato gli ruba nuovamente l'auto (non se escherza con Jesus) e Marie fugge con i due uomini. Da questo momento in avanti il terzetto inizia un viaggio sulle strade del Paese durante il quale si susseguono incontri ed episodi, alcuni decisamente più significativi di altri, grazie ai quali i protagonisti raggiungeranno un nuovo livello di consapevolezza. O forse no.

Quindi dov'è che va di preciso John Turturro con il suo Quintana è tornato? In realtà all'apparenza la risposta più plausibile potrebbe essere "da nessuna parte". In questa affermazione però non vuole esserci quello scarso apprezzamento che la maggior parte della critica ha dimostrato verso l'opera di Turturro, un film sicuramente imperfetto, inconcludente se vogliamo, però anche libero, lieve, in qualche modo nostalgico, cazzaro sicuramente, portatore fuori tempo massimo di una concezione di vita sregolata e non incasellata, fatta di avventure picaresche, di momenti estemporanei ed episodici, di una tenitura slegata che non conosce regole né radici né appartenenze (non solo a luoghi). Con una sequenza iniziale di vestizione del personaggio Turturro si riappropria di Jesus dopo un ventennio di lontananza, nel farlo ammorbidisce il suo protagonista, nel carattere come nelle colpe (l'episodio di esibizionismo è praticamente accidentale), ma non rinuncia ai toni divertiti e grotteschi, alle pose esagerate di un Jesus ben sostenuto dalle prove di Cannavale e della Tatou, un terzetto ben amalgamato nella sua marginalità quasi connaturata ed endogena. Ne esce un canto, magari a volte stonato, a un'esistenza borderline e non incasellata, qui esibita anche nei costumi sessuali in quello che diventa una sorta di ménage a trois (e più) generoso e disinibito. Non mancano come si accennava sopra momenti più profondi, veicolati soprattutto dalla presenza del personaggio interpretato da una sempre ottima Susan Sarandon, calata drammatica in un film altrimenti più spensierato e divertente (come potrebbe essere altrimenti con i Gipsy King in colonna sonora?). Magari il film di Turturro non sempre è perfettamente centrato, non lo è quasi mai a dire il vero, tutto sommato però non mi sento di bocciare questo Jesus rolls, anche perché non se escherza con Jesus, ve la prendete voi la responsabilità di una stroncatura?

lunedì 27 gennaio 2025

THE GREAT WHEN - IL GRANDE QUANDO

(The great when di Alan Moore, 2024)

Alan Moore torna al romanzo dopo un intervallo di tempo relativamente breve se consideriamo che tra l'uscita de La voce del fuoco, sua prima opera letteraria (una raccolta di racconti), e il successivo "romanzo monstre" che va sotto il titolo di Jerusalem passarono esattamente dieci anni; lo iato successivo all'interno della produzione letteraria del bardo di Northampton si ridusse ai sei anni di attesa, questo il tempo che ci volle per dare alle stampe la successiva antologia di racconti Illuminations con la pubblicazione della quale arriviamo all'anno del Signore 2022. Dopo l'uscita di Illuminations iniziarono a rincorrersi le voci che davano Alan Moore in procinto di editare non solo un romanzo prossimo venturo ma addirittura una pentalogia di scritti aventi come protagonista una versione alternativa e ovviamente magica e ovviamente storica di Londra, spostando così l'attenzione dalla natia Northampton alla capitale dell'Inghilterra e del Regno Unito. Con un'attesa di soli due anni i fan di Alan Moore hanno così avuto la possibilità di mettere le mani sul primo capitolo di questa nuova saga, The great when - Il grande quando, racconto che probabilmente presenterà punti di contatto con le opere prossime a venire che Moore scriverà ma che resta leggibilissimo a sé stante senza lasciare appeso il lettore con l'ansia dell'uscita del capitolo successivo per vedere "come va a finire la storia". A questa accelerazione della produzione romanzesca di Moore è probabile che abbia contribuito non poco la recente disaffezione verso il media del fumetto da parte dell'autore inglese, media che lo ha consacrato e gli ha permesso di dedicarsi a ciò che ora meglio lo soddisfa; l'allontanamento dell'autore dal mondo dei comics è attribuibile a una disillusione dettata da delusione nei confronti dell'industria del fumetto e della malagestione da parte della stessa dei rapporti con i creativi e con gli autori, una delusione che si unisce anche all'insofferenza per un'idolatria immatura nei confronti degli stessi autori da parte di un fandom che lo scrittore, in tempi recenti, addita spesso come composto da adulti non del tutto cresciuti, una presa di posizione spinta anche da un'amarezza di fondo che, come spiegò anche sua figlia Leah in occasione di diverse interviste, ha smorzato l'entusiasmo di cotanto padre nei confronti di una forma d'arte che Moore ha amato e apprezzato per tantissimi anni della sua vita (alcuni dei massimi capolavori del fumetto britannico e statunitense sono suoi). Così è probabile che nei prossimi anni vedremo meno fumetti (o nessuno) firmati Alan Moore ma avremo una sua produzione letteraria in crescita costante.

Siamo nella Londra devastata e cosparsa di macerie del secondo dopoguerra; gli abitanti della capitale inglese arrivano da anni di terrore e bombardamenti, da un lungo periodo di stenti e distruzione a seguito del quale fanno fatica a rialzare la testa e risollevarsi dalla miseria più nera. Tra loro c'è il giovane Dennis Knuckleyard, appena diciottenne e più o meno solo al mondo, senza casa e senza famiglia il giovane ha trovato alloggio all'interno della vecchia libreria di Ada "Cicca" Benson nella zona di Shoreditch. La donna non è proprio quella che possa definirsi un'anima pia, consente al ragazzo di stazionare in una modestissima stanza provvedendo al minimo indispensabile per la sua sopravvivenza in cambio del lavoro di Dennis in libreria e di tutta una serie di piccole commissioni da espletare in giro per Londra. Dal canto suo Dennis, pur non esaltato dalla sua attuale condizione, perlomeno trova a sua disposizione i libri della Lowell's Books & Magazines e può contare sulla presenza di un tetto sulla sua testa. Dennis riesce almeno a svagarsi con la compagnia di un paio di amici con i quali di tanto in tanto si trova in qualche pub: il giornalista John "si tira avanti" McAllister e il giovane e spiritoso avvocato Clive Amery. In una delle sortite di Dennis per conto di Ada il giovane si reca da un libraio di nome Harrison per acquistare, tirando sul prezzo se possibile, dei libri di un certo Arthur Machen ai quali Ada è interessata per la sua libreria. Nel lotto di libri che Dennis riesce a recuperare c'è anche un titolo, citato in uno dei libri di Machen, di uno scrittore misterioso. Il libro si intitola Una passeggiata per Londra ed è firmato Thomas Hampole, un libro che parla di un'altra Londra, un libro che non dovrebbe esistere e che di sicuro non sarebbe dovuto capitare nelle mani inesperte e inconsapevoli di Dennis Knuckleyard il quale, dal momento in cui ne viene in possesso, si troverà scaraventato in una serie di avventure occulte e misteriose che metterebbero a dura prova la salute mentale di chicchessia.

Alan Moore torna ai suoi temi preferiti e alle sue passioni di sempre alcune delle quali sono indubbiamente le realtà magiche, i mondi alternativi e mistici e la storia delle città, delle loro zone periferiche, il volto nascosto delle stesse. Come già accadeva in Jerusalem con il vecchio quartiere del Boroughs di Northampton, anche ne Il grande quando emerge forte l'importanza della toponomastica e dell'adesione al tessuto cittadino da parte di Moore, un tessuto che qui viene definito come un riflesso, un'ombra di quella che è la vera Londra, la Long London, un regno, una città nascosta i cui accessi sono celati tra le vie della Londra della nostra realtà e conosciuti solo da pochi adepti. L'idea di una città doppia, alternativa a quella vista come "reale" dai non iniziati, non è certamente nuova; rimanendo sulla stessa capitale inglese potremmo citale il Nessun dove di Neil Gaiman ad esempio che, in maniera sicuramente diversa, tratteggia anch'egli una Londra nascosta e accessibile non certo a tutti. Lo stesso Moore in Jerusalem aveva descritto piani d'esistenza alternativi e magici con quella meraviglia che era il Mansoul. Come per i riferimenti toponomastici che si rifanno a quelli della Londra reale anche molti dei personaggi presenti ne Il grande quando, anche i più bislacchi e all'apparenza improbabili, hanno avuto una corrispondenza nella nostra realtà, corrispondenze ben documentate nell'agevole appendice presente in coda al romanzo dove sono contestualizzati protagonisti, fatti ed episodi con il loro parallelo reale (in fondo un libro cos'è se non un'altra realtà, magari specchio della nostra?). Come abbiamo detto sopra Moore sembra aver abbandonato il fumetto in favore della letteratura, in qualità di mago e sciamano inserisce nel suo romanzo un libro magico che è viatico per una realtà alternativa dove si rischia di perdere la ragione, dove l'essenza delle cose è mobile e mutevole, incomprensibile a un primo impatto, soggettiva e interpretabile dai sensi di ognuno in maniera diversa, una Londra dove Arcani e Archetipi percorrono maestosamente strade impossibili, personificazioni di entità e concetti come il Crimine, la Sommossa (La Bellezza dei Tumulti) e via di questo passo troneggiano su una realtà altra profondamente terrificante. È più che certo che anche questa volta, nonostante il bel lavoro di traduzione da parte di Tessa Bernardi, qualche gioco di parole, qualche riferimento, qualche arguzia di uno scrittore fine e incontenibile come Moore vada persa nel passaggio dall'inglese all'italiano; ciò nonostante, oltre a una storia forse più abbordabile rispetto ad altre narrazioni del Nostro, non si può fare a meno di apprezzare uno stile di scrittura tanto elegante quanto colto nei riferimenti, magari non sempre semplice e scorrevole, ma comunque intrigante e stimolante. Di per sé Il grande quando presenta una sorta di chiusura che sappiamo si rivelerà essere solo un tassello di una narrazione più ampia ma che per ora, in attesa del prossimo volume, può anche bastare a sé stessa, nell'augurio che i tempi di uscita dell'annunciato prossimo capitolo siano ragionevolmente brevi.

mercoledì 22 gennaio 2025

MISHIMA - UNA VITA IN QUATTRO CAPITOLI

(Mishima: A life in four chapters di Paul Schrader, 1985)

Con Mishima - Una vita in quattro capitoli il regista Paul Schrader compie un'operazione di ricostruzione biografica di grande valore e allo stesso tempo parecchio complessa la cui fruizione richiede una non trascurabile dose di impegno e attenzione. Nel mettere in scena episodi della vita e dell'arte di Yukio Mishima (vero nome Kimitake Hiraoka), probabilmente il più importante scrittore giapponese dello scorso secolo, Schrader esula dalla struttura di quello che potrebbe oggi essere considerato un classico e convenzionale biopic; il regista del Michigan sceglie invece di attingere a materiale contenuto in tre delle opere più significative di Mishima per mettere in scena i primi tre dei quattro capitoli totali ai quali il titolo del film fa riferimento, realizzando poi un segmento più puramente biografico, quello intitolato Armonia tra penna e spada (sottotitolo rivelatore) che narra l'episodio culmine della vita di Yukio Mishima; anche alcuni dei passaggi legati al privato del protagonista, come quelli che ci mostrano l'infanzia dello scrittore, poggiano su basi letterarie in quanto vicini al romanzo autobiografico scritto dallo stesso Mishima e intitolato Confessioni di una maschera. Gli altri tre segmenti del film, dai titoli Bellezza, Arte e Azione, si rifanno invece a romanzi scritti da Mishima nel corso degli anni, rispettivamente Il padiglione d'oro (1956), La casa di Kyōko (1959) e infine Cavalli in fuga (1969). C'è dietro l'opera di Schrader uno studio mirato e importante dell'opera e della figura, non facile e parecchio controversa, di un artista (non solo scrittore) ancora oggi divisivo e dibattuto.

Un ancora piccolo Yukio Mishima (Yuki Nagahara) è costretto a crescere con la nonna lontano da sua madre in uno stato di isolamento quasi completo; nel crescere Mishima sarà privato del rapporto con gli altri ma verrà egualmente spinto alla conoscenza, alla cultura e all'apprezzamento del bello. Alla narrazione dei ricordi d'infanzia dello scrittore e a quella delle ultime giornate di vita di Mishima (Ken Ogata), narrate soprattutto nel segmento Armonia tra penna e spada, si alternano le narrazioni che si rifanno ai romanzi sopra citati. In Bellezza il giovane e poco piacente novizio Mizoguchi (Yasosuke Bando), afflitto da un forte difetto di balbuzie, cresce nel mito della bellezza perfetta del Padiglione d'oro; il contrasto tra questa perfezione e la sua condizione disagiata blocca il giovane Mizoguchi nei sentimenti e soprattutto nei rapporti con le donne. Per ovviare a questa situazione, nella mente del ragazzo sembra prendere forma l'idea che solo la distruzione di una bellezza perfetta possa liberarlo dalla sua condizione. Nel segmento che va sotto il nome di Arte il protagonista è un giovane attore, Osamu (Kenji Sawada), anch'egli ossessionato dalla bellezza e dal culto del corpo, un'ideale che non ritrova in sé stesso quando si guarda allo specchio; accetterà una relazione con Kyomi (Reisen Lee), una donna più anziana che lo instraderà a pratiche sadomasochistiche che deturperanno il suo corpo fino alle estreme conseguenze. In Azione il giovane Isao (Toshiyuki Nagashima) è pronto a sacrificare sé stesso, fino ad arrivare a mettere in pratica il seppuku, il suicidio rituale del samurai, pur di difendere l'idea di un Giappone tradizionale e contrastarne le invadenti derive capitaliste.

Pur essendo lontano dall'idea di spettacolo che potremmo avere del cinema in occidente, Mishima - Una vita in quattro capitoli è prodotto da George Lucas e Francis Ford Coppola, all'apparenza poco accomunabili all'idea di cinema di Schrader. Sotto il punto di vista formale il regista confeziona un film di impeccabile eleganza, alternando il bianco e nero pulito e rigoroso nella narrazione dell'infanzia del protagonista a set teatrali essenziali, ricavati dall'uso di quinte e paraventi, ripresi con inquadrature studiate e minuziose, ricorrendo anche a simboli di intensa bellezza come la ripresa al sole nascente sul finale del film, segno forse di speranza per un'eventuale rinascita di ideali spezzati, una rinascita che Mishima auspicava fino al punto di compiere su sé stesso l'estremo gesto nella speranza che questo potesse aprire a riflessioni un popolo che evidentemente lo scrittore giapponese iniziava a considerare irrimediabilmente decadente e compromesso. Lungo la durata del film, come nel corso della vita di Mishima, ricorrono diversi temi spesso volti all'idealizzazione della morte, vista come veicolo per raggiungere un fine, lanciare e lasciare un messaggio fatto di parole inascoltate. Quella di Mishima è stata una figura controversa, quella di un uomo rivolto al passato di un Giappone forte e glorioso e ostile al Paese come lo vedeva nella sua contemporaneità, fu accostato in vita anche a ideologie fasciste, più probabilmente Mishima fu un passatista un poco fuori dal suo tempo, legato più all'onore del codice del samurai che ad altro, ossessionato dall'arte, dalla vita come forma d'arte ma anche dalla morte come atto d'arte finale e supremo. Una vita in quattro capitoli si propone come biografia anomala, originale, pregna di contenuti affatto superficiali e scontati, non immediata ma indubbiamente molto riuscita.

lunedì 20 gennaio 2025

GHOSTBUSTERS - MINACCIA GLACIALE

(Ghostbusters: Frozen empire di Gil Kenan, 2024)

Il precedente capitolo dedicato al brand degli acchiappafantasmi (Ghostbusters: Legacy del 2021), diretto da Jason Reitman, si era rivelato soprattutto una questione di cuore, di profondi legami d'amicizia, di rispetto, d'affetto e d'amore, una questione familiare, un'operazione sentita nel profondo da un regista che con quel film omaggiava il lavoro e la passione del padre Ivan Reitman, regista e produttore di quei due primi mitici capitoli risalenti agli anni Ottanta, e ricordava con sincero trasporto la scomparsa di Harold Ramis, attore (era Egon Spengler) e sceneggiatore nei due film sopra menzionati, praticamente anche lui un componente di una grande famiglia allargata che comprendeva ancora altri elementi legati a quell'esperienza ormai lontana nel tempo. Con il passaggio alla regia all'israeliano Gil Kenan, nonostante la partecipazione di quasi tutti i vecchi elementi del cast storico disponibili e la presenza di Jason Reitman in fase di sceneggiatura, tutto il carico sentimentale presente in Legacy si sfalda facendo sì che tutta questa operazione di revival si sgonfi in maniera fin troppo evidente e vada a perdere quel tocco di sincerità e di pregnanza di cui era carico in maniera così naturale Ghostbusters: Legacy. E quindi inutile nascondersi dietro al classico dito, seppur ben realizzato negli effetti speciali e nonostante la presenza dei moltissimi omaggi alla storia del brand, Minaccia glaciale si rivela un capitolo fiacco e un po' deludente delle avventure degli acchiappafantasmi, manca di quella parte emotiva così ben sfruttata in Legacy e di conseguenza anche lo sviluppo dei nuovi protagonisti, i ragazzi giovani e i loro genitori/tutori, ne risente in maniera pesante.

La famiglia Spengler, formata da mamma Callie (Carrie Coon) e dai suoi due figli Trevor (Finn Wolfhard) e Phoebe (McKenna Grace), insieme al professor Grooberson (Paul Rudd), aspirante figura paterna per i due ragazzini, ha lasciato il Midwest americano per far ritorno a New York e occupare la vecchia stazione dei pompieri divenuta iconico quartier generale degli acchiappafantasmi originali e ora di questa loro versione aggiornata al nuovo millennio. A New York in fondo ci sono i vecchi amici del defunto nonno Egon, il solido Winston Zeddemore (Ernie Hudson) con il suo centro di ricerca sul paranormale, Ray Stantz (Dan Aykroyd) e il suo negozio di oggetti misteriosi e anche il dottor Peter Venkman (Bill Murray) ancora in attività. Tra un intervento e l'altro i nuovi Ghostbusters si attirano l'antipatia del sindaco Peck (William Atherton) che per mettere i bastoni tra le ruote agli Spengler li accusa di sfruttamento minorile in quanto la giovane Phoebe, vero genietto della famiglia, non è ancora maggiorenne e non potrebbe operare in maniera attiva, motivo per cui la ragazza si ritroverà relegata in panchina con sommo dispiacere suo ma anche di "papà" Gary. Nel frattempo Ray acquisisce per il suo negozio una strana sfera da Nadeem Razmaadi (Kumail Nanjiani), tipo innocuo ma bizzarro con parentele inserite nel mondo mistico; la sfera si rivelerà essere portatrice di una potente maledizione e di uno spirito vendicativo in grado di scatenare su New York e sul mondo una sorta di nuova era glaciale; quando alla fine gli avvenimenti si faranno troppo strani da poter essere gestiti in maniera convenzionale non resterà che fare ricorso ai cari vecchi acchiappafantasmi (Who you gonna call?).

Deludente, troppa carne al fuoco se guardiamo al numero di personaggi e poca carne al fuoco se guardiamo alla qualità di scrittura e di sviluppo degli stessi. Il fatto di dover gestire ben tre generazioni di acchiappafantasmi, i loro amici, i collaboratori e i loro antagonisti non permette di avere linee narrative approfondite e ben articolate; così mamma Callie e Trevor sono poco più che semplici comparse così come è sfruttato davvero poco Bill Murray; il rapporto tra Phoebe e il suo ex professore Gary, che sta cercando di iniziare a contare qualcosa come figura paterna in questa nuova famiglia, poteva essere il nodo focale di un film che di legami familiari potrebbe vivere in toto e invece la questione rimane solo in superficie, relegata a poche battute e momenti di sviluppo affrettati e poco sottolineati. Un poco meglio viene gestito il rapporto di scoperta sentimentale tra Phoebe e l'ectoplasmatica Melody (Emily Alyn Lind), ragazzina fantasma per la quale per Phoebe sembra nascere un'amicizia e forse qualcosa di più, per il resto sono tutte strizzate d'occhio ai fan storici con il ritorno in biblioteca (e alla bibliotecaria fantasma), al quartier generale storico, a Slimer e agli omini dei Marshmallow, alle statue animali animate e alle antiche divinità inviperite, agli anni 80 e al merchandising dell'epoca, un fan service che tutti si aspettavano e che di certo in Missione glaciale non manca. Purtroppo è questo anche il limite del film, c'è più o meno quello che ci si aspetta ma solo quello, non ci sono novità né guizzi, cosa che potrebbe anche andar bene se non fosse per il fatto che qui sembrano mancare totalmente cuore e passione. Solo un altro episodio di Ghostbusters, decidete voi se farvelo bastare.

sabato 18 gennaio 2025

WAY DOWN - RAPINA ALLA BANCA DI SPAGNA

(The vault di Jaume Balagueró, 2021)

La Odissey Marine Exploration è una compagnia statunitense che si occupa di estrazioni di minerali dai fondali oceanici e che, nel corso della sua storia, si è specializzata anche nel recupero di relitti affondati (storia vera, non è ancora la trama del film). Nel 2007 la compagnia individua un relitto sito in acque internazionali, probabilmente i resti della fregata spagnola Nuestra Señora de las Mercedes, all'interno della quale l'equipaggio della Odissey ritrovò un importante tesoro composto da monete antiche in argento e oro dal valore decisamente considerevole. Portato il tesoro negli Stati Uniti, la Odissey subisce un attacco legale da parte del governo spagnolo che rivendica la proprietà del relitto e mette in dubbio anche la posizione dello stesso, secondo gli spagnoli rinvenuto all'interno delle loro acque territoriali. La faccenda legale si ingarbuglia presentando anche episodi poco chiari nel suo dipanarsi, fatto sta che dopo tutto il lavoro di preparazione e di recupero svolto, l'Odissey Marine Exploration verrà costretta da una sentenza del governo Statunitense a restituire il tesoro agli spagnoli. È questo episodio di cronaca che il regista Jaume Balagueró, noto per essere l'ideatore della saga horror Rec, prende come spunto per costruire il suo Way down - Rapina alla Banca di Spagna che, a conclusione di una disputa molto simile a quella sopra descritta, diventa una sorta di heist movie volto a inscenare la vendetta che il comandante della nave depauperata del suo ritrovamento metterà in atto al fine di fare giustizia per quello che vede a tutti gli effetti come un ingiusto sopruso.

Walter Moreland (Liam Cunningham) è l'uomo al comando della compagnia navale che si è trovata in una situazione molto simile a quella sopra descritta, gabbato dal governo spagnolo dopo anni di ricerche e di rischi corsi al fine di portare a galla due forzieri di monete antiche e molto preziose. Quando il risultato dei suoi sforzi gli viene sottratto da sotto il naso, Walter, che è un cittadino inglese, cerca prima di far leva sulle sue influenti conoscenze come quella di Margaret (Famke Janssen), funzionario dei Servizi britannici, per poi decidere di farsi giustizia da solo e andarsi a riprendere le monete, peccato queste siano ora custodite all'interno della Banca di Spagna a Madrid, in un caveau dal misterioso sistema di sicurezza all'apparenza inespugnabile. Dopo aver assemblato una squadra per tentare l'impresa e non avendo a disposizione il Professore de La casa de papel per risolvere il mistero del caveau, Walter decide di rivolgersi a uno studente di ingegneria, uno decisamente brillante e già conteso da tutte le compagnie petrolifere del pianeta, il giovanissimo e geniale Tom Johnson (Freddie Highmore). Tom dal canto suo non ha nessuna voglia di andare a lavorare per compagnie che inquinano il pianeta né tanto meno di diventare un bravo ingranaggio del sistema del capitale, non sarà difficile così per la bella Lorraine (Àstrid Bergès-Frisbey) convincere il ragazzo a dare una possibilità a Walter, alla sua passione e alla sua squadra in procinto di tentare un'impresa tanto illegale quanto epica; all'interno di questo scenario il compito di Tom sarà quello di risolvere il mistero del caveau e di inserirsi all'interno della squadra composta da Walter, Lorraine, dal socio di Walter, James (Sam Riley), dall'addetto all'equipaggiamento Simon (Luis Tosar) e dall'immancabile mago dei computer Klaus (Axel Stein). Con poca indecisione Tom si butta in questa pericolosa avventura.

Da uno spunto di cronaca il catalano Jaume Balagueró costruisce un heist movie (film di rapina) abbastanza classico nonostante manchi in gran parte uno degli elementi ricorrenti del genere, ovvero la creazione della squadra che realizzerà il colpo e che qui troviamo già bella che assemblata, l'unica operazione di reclutamento è volta a tirare dentro il giovane ingegnere che dovrà occuparsi di due compiti essenziali: capire qual è il mistero che sta dietro al funzionamento del sistema di sicurezza del caveau della Banca di Spagna e in seguito trovare una soluzione per aggirarlo. Way down in realtà non presenta grandi elementi di interesse; se Balagueró ci aveva sorpreso positivamente ai tempi di Rec qui segue strade già tracciate, pedissequamente per altro, senza offrire scarti né intuizioni memorabili, una cosa di cui il regista è consapevole e sul quale gioca anche (i riferimenti a Danny Ocean). Inoltre, con una trama del genere, uscendo a ridosso della fine della serie La casa di carta, anch'essa di produzione spagnola, di certo non era facile risultare originali, più probabile se ne volesse cavalcare l'onda. Mettiamoci anche il fatto che le scelte di casting non sono proprio di quelle capaci di destare grande clamore e gli elementi sono più o meno calati tutti sul tavolo. Detto questo rimane da dire che Way down - Rapina alla Banca di Spagna non è affatto un brutto film, tutto già noto ma la pellicola (ma sì, continuiamo a chiamarle pellicole che i sinonimi scarseggiano sempre) si lascia guardare, qualche momento divertente c'è e un pizzico (q.b., come per il sale) di tensione sul finale non manca, ce lo dimenticheremo in fretta ma due ore piacevoli le garantisce. Non di soli capolavori vive l'uomo.

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