giovedì 4 dicembre 2025

BERLINO – SINFONIA DI UNA GRANDE CITTÀ

(Berlin - Die Sinfonie der Großstadt di Walter Ruttman, 1927)

Quello che Walter Ruttman crea con Berlino – Sinfonia di una grande città è un lavoro sperimentale che oggi, a noi spettatori, permette di ammirare il futuro di un passato in forte sviluppo e il passato del nostro presente, che può così tornare a guardare uno scampolo di mondo che oggi non c'è più, fotografia di una città andata oltre. Ruttman ci racconta, ci mostra se preferite, una giornata nella Berlino di fine anni Venti, ce la mostra come se fosse un’entità brulicante di vita, operosa, indaffarata; lo fa con una sinfonia d’immagini che unisce l’astratto al concreto tramite l’utilizzo delle forme, dei segni, delle linee, della direzione. Il regista tedesco costruisce questa sorta di documentario cittadino sul ritmo, proprio come fosse una sinfonia composta dal montaggio, dall’accostamento di fotogrammi e segni che diventano racconto di un momento e di un luogo, con tutto ciò che comporta in termini di rapporto tra umano e sviluppo, tra individuo e massa, tra la pulsazione intima dei gesti quotidiani e il battito collettivo della metropoli. In questo intreccio di movimenti e contrasti, la città emerge come un organismo vivo, capace di assorbire e restituire le energie di chi la abita: una macchina moderna che affascina e inquieta, che attrae e sovrasta, ma che soprattutto testimonia la potenza trasformativa del progresso e l’inevitabile tensione che esso genera nello sguardo umano.

Non c’è trama, non c’è storia. C’è una città che pian piano si risveglia, prende vita, coinvolge la sua cittadinanza in una serie di compiti, lavori, incombenze ma anche in svaghi, momenti più lieti, con energia, in mezzo al caos di una Berlino in pieno fermento. Ruttman apre sul quieto movimento delle onde alle quali presto si sovrappongono linee che ne richiamano il fluttuare, poi forme geometriche a seguirne la direzione, sempre più veloci, un paio di linee che descrivono semicerchi diventano le due barre di un passaggio a livello che preannuncia l’arrivo del treno. Da qui il montaggio diventa a dir poco frenetico: gli stacchi si susseguono rapidissimi, dalla fiancata del treno alle barre parallele dei binari, da questi ai cavi elettrici e ancora sulle ruote del treno e poi cavi, binari, ruote, cavi, binari, ruote, fino a staccare su porzioni di paesaggio in rapida successione. È un gioco di linee e rimandi che guarda alla forma, agli accostamenti, alla continuità e alla discontinuità; il racconto non è narrativo, è formale, basato sull’associazione di fotogrammi che creano una continuità di ritmo, a volte davvero troppo elevato, tanto da faticare a stargli dietro. E ancora: alberi visti dal finestrino che schizzano davanti ai nostri occhi, i tralicci di un ponte, poi si rallenta gradualmente fino all’arrivo del treno alla stazione di Berlin Anhalter Bahnhof.

Ruttman, dopo questa concitata sequenza iniziale, usa diverse soluzioni per mostrarci una città nel momento del suo risveglio: quiete riprese dall’alto sui tetti di Berlino, strade deserte che si alternano grazie all’uso delle sovrimpressioni, il dettaglio sulla Torre dell’orologio ci mostra l’ora; la camera è per lo più fissa, l’incedere è dato dai raccordi, dal montaggio, dai vari particolari della città che si susseguono sullo schermo, dall’accostamento e contrasto di linee e forme. Pian piano Berlino si popola: un uomo che porta a spasso il cane, un gatto randagio, dei passanti, un attacchino, due gendarmi, i trasporti e poi finalmente i lavoratori, le macchine, le scuole, Berlino diventa la città operosa che era in quel periodo. Con Berlino – Sinfonia di una grande città, Ruttmann porta alle estreme conseguenze le possibilità del montaggio come principio ordinatore della realtà urbana: non più semplice strumento narrativo, ma dispositivo capace di generare significato attraverso ritmo, analogia e contrasto. È in questo rigore formale, quasi matematico, che il film rivela la sua modernità e la sua distanza da ogni tentazione documentaristica convenzionale.

mercoledì 3 dicembre 2025

OLD JOY

(di Kelly Reichardt, 2006)

Come già visto in occasione della nostra riflessione su First Cow di Kelly Reichardt, film più recente di questo Old joy, la regista di Miami lavora molto sul rapporto dei suoi protagonisti con lo spazio che li circonda, con la terra d’America, che sia quella dell’epoca di un west ancora tutto da colonizzare o la suburbia più recente di un Paese che sembra aver perso il suo centro, in fondo poco importa. Se in First cow si configurava l’ipotesi (e solo quella) di un Paese che avrebbe potuto essere diverso, probabilmente migliore di quello che poi è diventato, in Old joy contempliamo già quelle che sono le macerie interiori dei protagonisti che la società moderna (americana ma non solo) ha prodotto dopo tanti anni di “sviluppo civilizzato” (con First cow siamo a metà del 1800, in Old Joy l’epoca è quella contemporanea). L’approccio dei due protagonisti di questa breve storia porta con sé un fondo di malinconia, mista a disillusione, forse a rimpianto o, ancor peggio, a una cupa rassegnazione (da parte di uno dei due), magari trattenuta nel tentativo di agire una vita che, apparentemente, dovrebbe volgere all’appagante, alla felicità (Mark è in procinto di diventare padre per la prima volta). Eppure la provincia americana che scorre fuori dal finestrino dell’auto ha tutto il sapore, molto triste, di un grigio stato d’animo diffuso e ormai incancrenito. E se davvero c’è qualcosa che non va (e direi proprio che c’è), questo lo percepiamo tanto dal paesaggio quanto dalle interviste che passano alla radio nell’auto di Mark.

Nel giardino fiorito della sua casetta indipendente, Mark (Daniel London) medita. Riceve una chiamata; il suo vecchio amico Kurt (Will Oldham) è in città, gli propone una notte di campeggio, meta: le sorgenti d’acqua calda vicino Estacada. La compagna di Mark, Tanya (Tanya Smith) è incinta, si crea una di quelle situazioni in cui, all’apparenza, lui non avrebbe bisogno di chiedere il permesso a lei per fare qualcosa, ma in realtà – forse – la dinamica non è proprio così semplice. Caricata la cagnetta Lucy in macchina, Mark parte per andare a prendere Kurt, la radio passa i malumori di cittadini americani delusi dalla politica, il paesaggio scorre triste, monotono, lugubre. Insieme i due si dirigono verso le montagne, prima i convenevoli, le chiacchiere sulla famiglia, poi i ricordi sui vecchi amici. Molti di loro sono finiti male, Syd, quello che aveva il negozio di dischi, ha dovuto chiudere. Ora al suo posto c’è un locale fighetto dove servono succhi di frutta. “Fine di un’era”, dice Kurt. Forse è proprio in quel “fine di un’era” che sta tutto il punto di Old Joy. Su questa affermazione parte una mesta Leaving home degli Yo La Tengo su un’insistita panoramica, una sequenza piuttosto lunga, nella quale la periferia americana sembra non avere davvero nulla di allegro da offrire.

Old joy. Una vecchia gioia. È facile leggere queste tre parole come “una gioia che una volta c’era e che oggi non c’è più”. Il road movie è da sempre veicolo di cambiamento e maturazione per i protagonisti inseriti all’interno di questo genere narrativo. E se proprio di cambiamento qui non possiamo parlare, nel film della Reichardt si prospetta almeno un breve periodo di riflessione. Una riflessione che passa anche attraverso il silenzio, dal riappropriarsi dei propri tempi, dei propri momenti, dal fare i conti con i propri desideri o, ancor meglio, con i propri bisogni più profondi. Quella gioia forse è persa, è andata perduta per sempre, ma dove sono da ricercare i motivi di tanto doloroso e forse ineluttabile furto? La Reichardt non vuole indirizzare in maniera chiara lo spettatore verso una soluzione, al limite lascia alcuni suggerimenti: il disfacimento di una politica scollata dalle necessità reali delle persone, l’inevitabile perdita delle antiche amicizie dovuta al sorgere di nuove forme di legami, affettivi, familiari. O forse questa “perdita della gioia” (leggi anche “infelicità”) è data dalla vergogna per il poco che siamo diventati, dal confronto di ciò che avremmo voluto o avevamo sognato con quello che realmente (non) abbiamo ottenuto. Il personaggio di Mark, all’apparenza risolto, giunto a un approdo, non sembra realmente più felice del suo compagno Kurt (interpretato da colui che altri non è se non il songwriter e cantante Bonnie “Prince” Billy), uno che ha scelto il movimento costante, la vita senza legami. Forse il destino è una perenne insoddisfazione. Il tratteggio della Reichardt sui personaggi è delicato, le interpretazioni di London e Oldham inappuntabili. Old joy è un film piccolo, breve, naturalista nell’accezione letteraria del termine, che in meno di un’ora e mezza di durata riesce a stimolare più d’una interessante riflessione, quello che alla fine il cinema indipendente sembra essere chiamato a fare.

mercoledì 26 novembre 2025

RAPACITÀ

(Greed di Erich von Stroheim, 1924)

Personaggio non semplice e non sempre ben voluto a Hollywood il nostro Erich von Stroheim. Austriaco di nascita, figlio di un viennese ebreo, Stroheim (il von arriverà solo in seguito, per vezzo “aristocratico”) emigra negli Stati Uniti all’età di ventiquattro anni; naturalizzato statunitense inizia la sua carriera a Hollywood come attore, con ruoli da ufficiale (esperienza che ha effettivamente in curriculum) e poi da gerarca nazista, casting favorito dalla sua faccia non propriamente gioviale. Lavora con David Wark Griffith nei suoi due film più importanti e ricordati, Nascita di una nazione e Intolerance, per poi passare dietro la macchina da presa nel 1919, a guerra finita, con il suo film d’esordio, Mariti ciechi, un buon successo commerciale che gli apre le porte degli studios hollywoodiani. Rapacità (Greed in originale) è il film per il quale più si ricorda il controverso regista, capace di lasciare il segno nella Storia del cinema come di farsi odiare da produttori, studios, maestranze e attori con i quali ha collaborato (pare che la Swanson lo fece licenziare per le sue riprese maniacali, fonti di lungaggini inarginabili; torneranno a lavorare insieme molto più in là per Viale del tramonto). Rapacità è uno di quei “film maledetti” dalla genesi travagliata. Tratto dal romanzo di Frank Norris dal titolo McTeague (è il nome del protagonista principale), von Stroheim decide, impuntandosi, di voler girare tutta la vicenda nelle reali location descritte dal testo, location che comprendono la città di San Francisco ma soprattutto lande inospitali come quelle della Sierra Nevada e della Death Valley californiana. Le riprese si allungano, la messa in scena di von Stroheim è minuziosa fino al parossismo, si arriva alla mole record di 42 rulli di girato per un equivalente vicino alle sette ore di film, una cosa improponibile per l’epoca e difficile da commercializzare. Durante la realizzazione del film tutto finisce in mano alla Metro-Goldwyn-Mayer di Irving Thalberg; Rapacità, già scorciata di circa metà del girato dallo stesso von Stroheim, con l’aiuto del regista Rex Ingram arriva a una lunghezza di tre ore di girato. Non ancora soddisfatti, in MGM, tramite i loro montatori a stipendio, arrivano a una soluzione finale di soli 108 minuti; uno stupro per von Stroheim che pare sia scoppiato in lacrime assistendo alla proiezione di quello che per lui era il massacro del suo (capo)lavoro. Oltre al danno, la beffa: il materiale scartato va quasi tutto irrimediabilmente perduto, la versione addomesticata di Greed si rivela un insuccesso commerciale a fronte di una spesa inusitata per l’epoca, una cosa come 470.000 dollari. Ma vediamo di cosa tratta Rapacità.


McTeague (Gibson Gowland) è un uomo all’apparenza mite e buono, ma in situazioni particolari capace di atti violenti. Prima minatore, poi apprendista dentista, con il tempo McTeague apre un suo studio a San Francisco. Quando il suo amico Marcus (Jean Hersholt) porta sua cugina Trina (ZaSu Pitts), della quale è invaghito, da McTeague per la cura di un dente, questi se ne innamora. Il contrasto che potrebbe nascere tra i due uomini è smorzato subito da Marcus, il quale decide di farsi da parte in virtù dell’affetto sincero che prova per il suo amico McTeague. In studio Maria (Dale Fuller), donna delle pulizie, vende a Trina un biglietto della lotteria che in seguito si rivelerà vincente. Ormai ricca, seppur non completamente convinta della loro unione, Trina acconsentirà a sposare McTeague, sinceramente innamorato della novella sposa. Con il matrimonio, ma soprattutto a causa dei soldi vinti da Trina, Marcus torna sui suoi passi e inizia a sviluppare un odio profondo per McTeague, a suo modo di vedere reo di avergli sottratto donna e denaro. Col passare del tempo, per Trina la vita matrimoniale si rivela meno felice di quel che lei potesse pensare, non per colpe particolari di McTeague che in fondo è un buon uomo, inoltre sorge nella donna un attaccamento morboso a quel denaro vinto, tanto da non volerlo spendere e da iniziare a trattarlo come un “oggetto” da amare e adorare. La donna inizierà a chiedere per ogni cosa soldi al marito, rifiutandosi di attingere al suo patrimonio. Quando le cose volgeranno al peggio, con lo zampino di Marcus, la situazione per McTeague diverrà insostenibile, ma ancora la moglie non sarà disposta ad aiutarlo. Le cose si avviano verso un’inevitabile aura di tragedia.


Nel 1999 la Turner Entertainment tenta un restauro dell’opera integrandola con intere sequenze basate sui pochi fotogrammi ritrovati dei passaggi perduti del film. Questa versione raggiunge le quattro ore di durata, dando la possibilità agli appassionati di vedere qualcosa di più vicino alle reali intenzioni del regista, se poi questo abbia davvero fatto bene al film di von Stroheim è tutto da vedere. Con più di metà del film ricostruito con immagini statiche, è normale che il ritmo pensato dal regista per la sua opera venga a cadere, spezzato e inframezzato di continuo da inserti fotografici che, insieme alle didascalie aggiunte, hanno il pregio di ridare chiarezza e completezza alla trama, ma allo stesso tempo “ammazzano” la fruibilità di un’opera che molto probabilmente è comunque meglio approcciare nella sua versione menomata da 108 minuti. Ma quali sono gli elementi che hanno reso Rapacità uno dei titoli significativi nella Storia del cinema muto e non solo? Iniziamo col dire che Greed è uno dei primi film ad alto budget della Hollywood che fu; questo permise a von Stroheim di girare quasi tutte le scene in esterni, cosa all’epoca altamente inusuale (in studio era più facile avere tutto sotto controllo) e che diede al film, insieme ad altri particolari, uno spirito naturalista che molto si avvicinava all’opera letteraria di Frank Norris. A questo proposito vale la pena ricordare i patimenti del cast che fu costretto a recitare in condizioni proibitive nella Death Valley, uno degli ambienti più ostili al mondo, cosa che provocò tanto di malori e corse in ospedale. Sappiamo inoltre come il capitale e il denaro in generale saranno un tema portante non solo al cinema ma anche per lo sviluppo futuro dell’intera società americana; von Stroheim mette qui in (cattiva) luce quella fame dell’oro che porterà l’uomo alle peggiori brutture e a calpestare tutto ciò che c’è di nobile nella vita: amicizia, amore, fiducia, solidarietà. Lo fa con una forza non comune (per l’epoca), senza risparmiare al pubblico scene forti e personaggi capaci di tirar fuori al momento opportuno tutto il loro peggio. Da sottolineare anche l’uso reiterato di elementi simbolici da parte del regista; emblematica la sequenza del matrimonio tra Trina e McTeague dove, in profondità di campo, fuori dalla finestra della stanza dove si svolge la cerimonia, passa un corteo funebre, come a predire lo sviluppo infausto di quel matrimonio (del matrimonio?), un vero colpo di genio, di molto superiore anche al didascalico inserimento di braccia quasi scheletriche atte a ravanare nell’oro, un’immagine più sfacciata e diretta, efficace ma con meno eleganza di quella sopra descritta. Altro ottimo esempio è quello che coinvolge Marcus, il gatto, gli uccellini… ma non sveliamo troppo a giovamento di chi volesse dare un’occasione al film. Stroheim, inoltre, non disdegna di mostrarci tutta la sporcizia, la miseria, il sudore alle quali sono soggette le classi più disagiate, situazione in questo caso autoinflitta dalla loro stessa rapacità (“avarizia” forse sarebbe stato un termine migliore). Rimane, nella versione da quattro ore, il dubbio sulla reale funzione di due sottotrame praticamente sparite nel rimaneggiamento da parte di MGM, forse quella di mostrare, per quella dedicata ai due anziani coinquilini, almeno uno spiraglio di luce in tanta bruttura. Onesto e diretto, forse fin troppo per quei tempi, von Stroheim si vide scempiare il suo capo d’opera, del quale purtroppo ancor oggi non ci è dato poterne ammirare una versione vicina alla reale volontà del regista. Chissà se in qualche magazzino, in qualche polverosa soffitta, in un anfratto maledetto… chissà, magari un giorno...

lunedì 17 novembre 2025

NOSFERATU IL VAMPIRO

(Nosferatu, eine Symphonie des Grauens di Friedrich Wilhelm Murnau, 1922)

Seppur con alcune differenze, il plot di Nosferatu il vampiro, film del 1922 di Friedrich Wilhelm Murnau, riprende in maniera molto diretta il Dracula di Bram Stoker. Nonostante alcune modifiche nella trama, soprattutto nel finale e nell’assenza di un personaggio assimilabile al Van Helsing letterario, Murnau e la produzione decisero di non pagare i diritti d’autore alla vedova Stoker. Quest’ultima intentò causa per vedersi riconosciuti i suddetti, vincendola come era prevedibile. All’epoca venne quindi ordinata la totale distruzione di tutte le copie del film di Murnau, operazione fortunatamente non del tutto riuscita. Alla strage di pellicole sopravvissero alcune copie (almeno una delle quali, si dice, nascosta dallo stesso Murnau) che riemersero in anni successivi, permettendoci oggi di poter ammirare uno dei capisaldi dell’espressionismo tedesco e dell’horror dell’epoca del cinema muto. In seguito all’esito della causa con la vedova Stoker la Prana Film, casa di produzione di Nosferatu, dovette dichiarare fallimento dopo aver prodotto quest’unico film: che c’entrasse l’influsso malefico del Conte Orlok? Scherzi a parte, non mancano alcune leggende intorno al Nosferatu di Murnau, la più curiosa delle quali riguarda il fatto che il nome dell’attore protagonista, Max Schreck, suoni simile a qualcosa come “Massimo Spavento”! Tra controversie legali, fallimenti e leggende, Nosferatu si porta dietro un alone di mistero che va ben oltre il personaggio di Orlok. E forse è anche per questo che il film, anche oggi, continua a esercitare un fascino così sinistro.

Il giovane agente immobiliare Thomas Hutter (Gustav von Wangenheim) viene inviato nella remota regione dei Carpazi per concludere la vendita di una casa al misterioso conte Orlok (Max Schreck), interessato a trasferirsi nella città di Wisborg. Durante il viaggio Hutter avverte un crescente senso di inquietudine, alimentato dai timori degli abitanti del luogo che sembrano conoscere sin troppo bene la sinistra reputazione di Orlok. Giunto al castello, il giovane scopre lentamente la natura vampirica del conte, il quale, per sopravvivere, si nutre del sangue dei vivi. Al castello di Orlok, il vampiro ha l’occasione di vedere una fotografia della bella moglie del giovane Hutter; l’attrazione verso la fanciulla è subitanea e convince l’essere a partire in tempi rapidi per la Germania. Il conte parte quindi per Wisborg, portando con sé bare piene di terra e un’oscura epidemia che inizia a diffondersi nella città tedesca. In qualche modo Ellen (Greta Schroder), la moglie di Hutter, studiando un testo sulla natura dei vampiri, intuisce di essere l’unica in grado di fermare il conte. La resa dei conti tra il vampiro e la giovane si rivelerà drammatica e decisiva.

Pur senza esibire le estreme deformazioni scenografiche presentate da un film come Il gabinetto del Dottor Caligari di Robert Wiene, Nosferatu il vampiro si ritaglia un posto d’onore tra i migliori esiti della corrente espressionista del cinema tedesco degli anni Venti. Nonostante non faccia uso di sequenze particolarmente “truculente”, almeno per gli standard odierni, il film di Murnau è certamente ascrivibile anche al filone dell’horror che sempre più estimatori raccoglierà con il passare dei decenni. È fuor di dubbio come la figura di Orlok, nell’interpretazione di Schreck, rimanga come una delle più inquietanti nella storia del cinema, sia a causa della sua presenza fisica, sia per il bagaglio metaforico che quel determinato vampiro si porta dietro. La figura di Orlok è in effetti quanto di più inquieto il cinema dell’epoca avrebbe potuto produrre: una figura allampanata, quasi scheletrica, ricurva, pallida, artigli lunghi e arcuati, sguardo allucinato, tratti innaturali, movimenti lenti che permettono al pubblico di contemplare l’orrore di un ignoto mostruoso ma, forse, partorito dall’infinita fantasia della natura stessa. Inserendo nel film diversi accenni a strani prodotti della flora e della fauna Murnau vuole forse collocare, per accostamento, anche Nosferatu all’interno di un creato bizzarro espungendone ogni volontario afflato di malvagità, come se il vampiro semplicemente fosse, e nell’essere portasse con sé, involontariamente, morte e distruzione (i topi, la peste, i cadaveri). Alcune letture critiche del film accostano l’inquietudine suscitata dal vampiro a quella provata dal pubblico tedesco per un futuro incerto in un momento storico molto delicato, così come l’orrore e la morte vennero legate a quelli prodotti dalle conseguenze della Prima Guerra Mondiale. La visione è pessimistica, a dimostrarlo il fatto che il vampiro qui non trova una vera opposizione, seppur mutuato dal Dracula di Bram Stoker non c’è qui l’equivalente di un Van Helsing a sbarrare la strada a un male che appare dilagante e inarginabile. Solo la figura femminile, votata al sacrificio e salvifica, sarà in grado di fermare l’orrore. Sotto il punto di vista formale Murnau usa molto le riprese in esterno, vivacizza il girato adoperando l’uso del negativo, dell’accelerazione, del chiaroscuro in un magnifico gioco di luci e ombre, riprende il mostro da angolazioni suggestive, stranianti, scelte estetiche che imprimeranno Nosferatu a imperitura memoria nell’inconscio collettivo.

giovedì 13 novembre 2025

IL GABINETTO DEL DOTTOR CALIGARI

(Das cabinet des Dr. Caligari di Robert Wiene, 1920)

Il gabinetto del Dr. Caligari di Robert Wiene è probabilmente il film più rappresentativo dell’espressionismo tedesco, corrente cinematografica sviluppatasi intorno agli anni Venti del Novecento. L’espressionismo nasce nelle arti figurative (e all’epoca dell’uscita de Il gabinetto del Dr. Caligari il cinema non era considerato propriamente un’arte) come risposta al naturalismo e all’impressionismo. In pittura si passa così da un’adesione fedele al reale, al tentativo di far emergere ciò che sotto quella realtà si cela; per far ciò scenografi, costumisti, direttori della fotografia e registi si affidano a uno stile distorto, inquietante, spigoloso e deformato della realtà, reso attraverso scenografie, costumi e luci che riflettono un mondo interiore più che uno meramente oggettivo. Per rendere al meglio le profonde emozioni dell’animo umano al cinema, si guarda alla pittura e si cerca di riportare gli esperimenti visivi di artisti come Kirchner ed Heckel su pellicola: per far questo si rende necessario lavorare in studio e creare ex novo paesaggi che nella realtà non trovano un diretto corrispettivo. Proprio per questo, parlando della realizzazione de Il gabinetto del Dr. Caligari, non è inusuale che venga rimarcato più il lavoro degli scenografi Warm, Reimann e Röhrig piuttosto che quello dello stesso regista Robert Wiene. Siamo in un momento storico in cui le difficoltà economiche della Germania, dovute a un’inflazione altissima, paradossalmente favoriscono l’industria cinematografica tedesca, che riesce a esportare i suoi film e a produrre con costi bassi anche scenografie complesse e “costruite” come quelle adottate per Il gabinetto del Dr. Caligari. L’incubo proposto dal film di Wiene trova ampio riscontro in un pubblico angosciato e deluso, figlio di un durissimo dopoguerra e segnato da un profondo pessimismo per un futuro incerto. Naturale, quindi, che le vicende malate di Caligari e del suo sonnambulo Cesare facciano presa su una platea ampia e predisposta.

Il gabinetto del Dr. Caligari è diviso in sei atti, sei segmenti raccontati dal giovane Francis (Friedrich Fehér) attraverso un lungo flashback che dura quasi quanto l’intero film. Nel 1830, in occasione della fiera di Holstenwall, giunge in paese la strana figura del Dottor Caligari (Werner Krauss), un inquietante imbonitore accompagnato dal sonnambulo Cesare (Conrad Veidt), un uomo capace di predire il futuro la cui prima predizione sarà quella di una morte imminente che puntualmente e in maniera violenta, si verificherà. Subito sospettato del delitto, Cesare verrà scagionato dallo stesso Caligari che lo tiene sempre sotto controllo in stato di sonno all’interno di una cassa da morto. Mentre i delitti aumentano e iniziano si accumulano l’uno sull’altro, i sospetti si indirizzano altrove; la situazione si sbloccherà con l’ingresso della bella Jane (Lil Dagover) che riuscirà a toccare il cuore del sonnambulo Cesare. Sul finale di questa strana vicenda non mancheranno poi i colpi di scena.

Per lo spettatore moderno, abituato a narrazioni colme di tonitruanti effetti speciali, ammirare le scenografie artigianali create per Il gabinetto del Dr. Caligari è una vera gioia per gli occhi. Con questo film Robert Wiene e il suo gruppo di lavoro gettano le basi per quello che sarà, se non proprio il cinema horror, almeno quello dell’inquieto. La trama, già solida e all’epoca rimarchevole e ficcante, porta in sé germi che verranno poi riutilizzati a più riprese da moltissimo cinema a venire. Il ribaltamento di prospettiva e l’ambiguità di fondo che il film presenta a un pubblico messo di fronte a un’arte ancora giovane sono elementi oggi noti, ma che all’epoca devono aver creato un certo turbamento. L’impianto scenografico gioca con la bidimensionalità e con la deformazione delle architetture e dei paesaggi, aumentando la tensione e l’angoscia già veicolata dai personaggi e dalla recitazione allucinata dei protagonisti, truccati e agghindati in modo da dare sempre un’impressione di estraneità al normale quotidiano. A completare l’impianto visivo vi è l’utilizzo di luci e ombre che aumentano il senso del perturbante, aggiungendosi ai chiaroscuri già applicati a molti elementi scenografici. L’attenzione maniacale e ammirevole dedicata al profilmico (cioè ciò che sta davanti alla macchina da presa) consegna il film alla storia del cinema e lo rende un capolavoro non solo dell’espressionismo tedesco ma dell’intero periodo del cinema muto.

sabato 8 novembre 2025

LENNY

(di Bob Fosse, 1974)

Leonard Alfred Schneider, in arte Lenny Bruce, è stato un cabarettista e comico statunitense di origini ebraiche, attivo negli ultimi anni Cinquanta e nei primi Sessanta del secolo scorso. Lenny Bruce, che attraversò anche un periodo di notevole notorietà, è passato alla storia della comicità per la sua verve irriverente, sboccata e senza pudori, capace, con uscite al vetriolo, di mettere a nudo le ipocrisie di un’America ancora bigotta nella forma, incapace di parlare onestamente dei costumi e delle abitudini nella sostanza praticate dalla maggior parte dei suoi abitanti. L’uomo dietro al comico ebbe il coraggio di sfidare le convenzioni morali e culturali di un Paese perbenista anche a costo della sua stessa libertà. La battaglia di Bruce — di Lenny come titola il film del regista Bob Fosse — perseguì un ideale non violento di libertà d’espressione che gli attirò gli strali del sistema giudiziario statunitense, deciso a perseguitarlo e condannarlo in virtù di una visione morale retrograda e passatista, una visione che di lì a poco sarebbe stata completamente superata, aprendo la strada a una comicità più libera e colorita rispetto a quella consentita all’epoca. La figura di Lenny Bruce ben si sposa con l’indole non troppo conformista di Bob Fosse, anch’egli cresciuto sul palcoscenico ben prima che dietro la macchina da presa Da regista teatrale Fosse sfoggia uno stile moderno e sensuale che in qualche modo trasferisce anche in Lenny; la scelta di Dustin Hoffman come protagonista, all’epoca uno dei maggiori interpreti della New Hollywood, è solo l’ultimo tassello per la buona riuscita di questo amaro biopic.

All’inizio della sua carriera Lenny Bruce (Dustin Hoffman) è un cabarettista alla ricerca del suo posto nel mondo della comicità. Alternando il ruolo di presentatore a quello di comico Lenny gira per locali di poco conto, in uno di questi conosce la bella e sensuale spogliarellista Honey (Valerie Perrine). Dopo una breve frequentazione i due convolano a nozze cercando di barcamenarsi per riuscire a vivere; nel frattempo la comicità di Bruce si sviluppa con una tendenza che la morale dell’epoca non può che vedere come volgare ed eccessiva. In realtà l’intento di Lenny non è mai quello di cercare la battutaccia o l’uscita a effetto fine a sé stessa, il comico cerca con i suoi monologhi di condannare apertamente l’ipocrisia perbenista di una società che reprime, anche in maniera pericolosa a suo dire, la libertà di parola e l’onestà intellettuale del cittadino. Lanciato verso un successo sempre più grande Lenny, insieme a Honey, si lascia trascinare in un vortice di vizi che segnerà la sua vita, portandolo al divorzio e a una serie di problemi ai quali si aggiungerà un sistema giudiziario sempre pronto alla facile condanna. La carriera di Lenny Bruce si spegnerà pian piano fino ad arrivare a un tragico finale.

Bob Fosse parte dal teatro, adatta una pièce di Julian Barry, qui presente anche in veste di sceneggiatore, e affida la ricostruzione della vita di Lenny Bruce alle voci della moglie Honey, di mamma Sally (Jan Miner) e del suo amico e agente Artie Silver (Stanley Beck). Siamo in piena New Hollywood e Fosse gira un film che risulta modernissimo ancora oggi; Lenny è uno dei tanti esempi che stanno lì a testimoniare come il cinema classico hollywoodiano, pur non finito, fosse stato sorpassato a destra da nuovi temi, nuove forme, nuovi personaggi e nuovi modi di recitare. La struttura temporale non è lineare, il bianco e nero dei locali fumosi, magnificamente fotografati da Bruce Surtees, si sposa al meglio al vivace montaggio adottato da Fosse che, in particolare nelle sequenze iniziali, si erge a cifra stilistica e conduce il film fino al suo finale donandogli un ritmo invidiabile. Perfetta l’accoppiata Hoffman/Perrine che mette a disposizione del film e dello spettatore una prova attoriale di gran levatura, tra decisione e sensualità, contro il finto sdegno di un Paese trincerato dietro la sua stessa ipocrisia. Deciso il finale che sottolinea come, anche nel momento della dipartita, le autorità mostrarono scarsissimo rispetto per un uomo che non aveva mai fatto del male se non a sé stesso. Le molte candidature all’Oscar, coronate dalla mancanza totale di vittorie, dimostrano come nel 1974 la figura di Lenny Bruce fosse probabilmente ancora troppo scomoda per un establishment sempre troppo conservatore.

giovedì 30 ottobre 2025

NASCITA DI UNA NAZIONE

(Birth of a Nation di David Wark Griffith, 1915)

Ciò che fece David Wark Griffith nel 1915 con il suo Nascita di una nazione oggi ci appare quasi scontato, forti di un’esperienza cinematografica costruita su centinaia e centinaia di visioni che possono spaziare dal cinema classico a quello moderno (per qualcuno addirittura dal cinema delle origini), dai film hollywoodiani a quelli d’autore, dagli esiti più canonici a quelli sperimentali. Abbiamo avuto, insomma, la fortuna d’aver visto di tutto. Nel 1915 non era così: il pubblico appassionato di immagini in movimento aveva già avuto modo di vedere molti film, ma qualcosa come Nascita di una nazione non l’aveva mai visto. Il film di Griffith viene infatti considerato dagli storici come il primo vero film narrativo della storia a consolidare i principi del cinema narrativo classico. Il cinema dell’Ottocento e quello dei primi del Novecento erano fatti di opere per lo più brevi, spesso formate da una sola inquadratura o da più inquadrature fisse; era un cinema di stampo documentaristico o un cinema “delle attrazioni”, cioè un cinema nel quale era fortemente connotata una funzione attrattiva immediata per il pubblico (una serie di gag, un atto atletico, un numero “da circo”) e nel quale ancora non era presente una concatenazione coerente di eventi, né tantomeno una vera e propria costruzione narrativa di una storia. Certo, qualche esempio c’era già stato, pensiamo a cose come La grande rapina al treno di Edwin S. Porter del 1903, o a Il viaggio nella Luna di Méliès del 1902, già ottimi e importanti esiti per un’arte che andava costruendosi film dopo film, ma nulla di paragonabile all’ambizioso progetto di Griffith, girato su 12 rulli per una durata che supera le tre ore (durata che, peraltro, regge molto bene ancora oggi) e con un budget di oltre 100.000 dollari che non furono certo rimpianti: il film portò infatti a casa un incasso record di ben 15 milioni di dollari. Il rovescio della medaglia del grande successo ottenuto dal film furono le reiterate accuse di razzismo mosse a Nascita di una nazione e a Griffith, accuse che, tutto sommato, non possono dirsi infondate. Il film fu proibito in diversi Stati dell’Unione, in alcuni anche per molti anni; in effetti l’ultima parte del film propone un’ideologia profondamente razzista che contiene quella che potrebbe quasi sembrare un’apologia del Ku Klux Klan e una visione della popolazione nera che la rappresenta come una razza selvaggia, violenta, opportunista e depravata. Griffith, figlio di un colonnello dell’esercito confederato sudista, rifiutò le accuse di razzismo, affermando che la sua era una condanna verso quei soli schiavi liberati che, a suo dire, ostacolarono la nascita della Nazione con comportamenti violenti in nome di uno spirito di vendetta verso i bianchi ex padroni.

Phil (Elmer Clifton) e Tod Stoneman (Robert Harron), figli di Austin Stoneman (Ralph Lewis), un influente politico del Nord, si recano nella magione dei Cameron, amici di vecchia data della Carolina del Sud. Qui Phil si innamora della giovane Margaret (Miriam Cooper) mentre Ben (Henry B. Walthall), fratello maggiore della ragazza, si invaghisce della sorella dei due Stoneman, Elsie (Lillian Gish), pur avendola vista solo in fotografia. Tod, invece, stringe amicizia con il coetaneo Duke Cameron (Maxfield Stanley). Lo scoppio della Guerra di Secessione interrompe gli idilli e divide le due famiglie: i Cameron combattono per l’esercito confederato, mentre gli Stoneman sostengono la causa unionista. Tod e Duke muoiono al fronte, mentre Ben Cameron, gravemente ferito, viene fatto prigioniero. Con la fine della guerra e l’assassinio di Abraham Lincoln, gli Stati del Sud vengono sottoposti a un duro periodo di ricostruzione. Austin Stoneman, fervente abolizionista, sostiene le politiche che garantiscono nuovi diritti ai neri liberati, promuovendo anche la candidatura nel Sud del mulatto Silas Lynch (George Siegmann). I neri si dimostrano ben presto rozzi e violenti, incapaci di condurre un progetto politico con serietà e decenza. Turbato dal caos e dalla violenza dilaganti, Ben Cameron decide di fondare un’organizzazione che riporti “ordine” nelle terre del Sud: nasce così il Ku Klux Klan mostrato come una forza di “restaurazione morale”. Il Klan salva Elsie, rapita da Silas Lynch che vuole costringerla a sposarlo, e libera la città da quella che viene dipinta come una vera e propria “piaga nera”.

Al di là dell’innegabile afflato razzista che imperversa per almeno l’ultimo terzo del film, è chiaro come l’opera di Griffith sia un lavoro di grande maestria e una vera pietra angolare nella storia della Settima Arte. Dietro Nascita di una Nazione c’è un lavoro di découpage in grado di offrire agli spettatori dell’epoca un montaggio che tiene vivo il ritmo della narrazione senza incorrere in cadute di tono o passaggi “fiacchi”; Griffith lavora con il montaggio alternato, mostrando più eventi che si svolgono nello stesso momento, tecnica oggi abituale ma allora novità rivoluzionaria, gioca con i piani, con vari tipi di raccordo (sull’asse, di sguardo, di movimento), tutte cifre di stile, tecniche del mestiere di regista che segneranno in maniera indelebile tutto il cinema a venire. Spettacolari i campi lunghissimi per le battaglie, la colorazione di alcuni fotogrammi e la capacità di coordinare scene di massa come quelle legate alla guerra tra Nord e Sud o quelle con protagonista l’avanzata del Klan a cavallo. Risultano oggi un poco posticci gli attori bianchi pittati di nero per interpretare gli uomini di colore (quelli veri sono pochissimi) ma per il resto qui si scrive la grammatica dell’arte. Trascurando l’ideologia, al tempo peraltro diffusa e normalizzata negli Stati del Sud (e non solo), non si può che annoverare Nascita di una Nazione tra le pietre miliari di un percorso cinematografico che nel 1915 stava solo iniziando a regalare agli appassionati tutte le soddisfazioni che arriveranno con i decenni successivi.

domenica 19 ottobre 2025

ARAGOSTE A MANHATTAN

(La cocina di Alonso Ruizpalacios, 2024)

Il 16 ottobre scorso, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, in più di trenta sale ACEC sparse per l’Italia, è stato proiettato il film Aragoste a Manhattan (titolo originale La cocina, più diretto) del regista messicano Alonso Ruizpalacios, presente in videoconferenza al termine della proiezione per rispondere ad alcune domande di esercenti e spettatori. Diciamo che in realtà, come ha confermato lo stesso regista al termine della visione, nonostante il film sia ambientato quasi interamente nella cucina di un ristorante di New York, il The Grill, Aragoste a Manhattan ha poco a che vedere con il cibo e con l’alimentazione. Ruizpalacios ha infatti spiegato di aver volutamente evitato ogni deriva legata al cosiddetto “food porn”, un’estetica sempre più diffusa su social media, web e televisione negli ultimi anni. La preparazione del cibo, dei piatti, resta per lo più fuori campo: per i protagonisti del film, quasi tutti immigrati irregolari, il cibo e l’atto del cucinare sono una questione di mera sopravvivenza. Come sottolinea il regista c’è una sola scena in cui si assiste effettivamente alla preparazione di un piatto, ed è l’unico momento del film in cui il cibo viene preparato con e per amore, segnando un’eccezione carica di significato all’interno del racconto. Anche la scelta del bianco e nero sembra confermare le parole del regista, il cibo a cui ci ha abituati la televisione è infatti soprattutto colore, presentazione, estetica, una qualità, quest’ultima, che a Ruizpalacios certamente non manca, ma che nel film sembra andare in tutt’altra direzione.

La giovane Estela (Anna Diaz) arriva a New York dal Messico in cerca di lavoro; la madre l’ha indirizzata al The Grill, un ristorante multietnico in piena Manhattan dove lavora Pedro (Raul Briones Carmona), un amico di famiglia di qualche anno più vecchio di Estela. Dopo aver superato un colloquio in parte rocambolesco (Estela non parla inglese), la ragazza viene introdotta nella caotica cucina del ristorante dove ritroverà Pedro e farà la conoscenza di cuochi, cameriere e impiegati di quello che è uno spaccato del melting-pot culturale newyorkese, ben lontano dall’appartenere a quella parte di popolazione americana che ce l’ha fatta, che è riuscita a trovare il suo posto all’interno dell’illusorio e ingannevole Sogno Americano. In concomitanza all’arrivo di Estela il contabile Mark (James Waterson) riscontra un ammanco di cassa di più di 800 dollari; il proprietario del locale Rashid (Oded Fehr) ordina al suo aiutante Luis (Eduardo Olmos) di condurre un’indagine interna e recuperare i soldi. Nel frattempo tensioni e preoccupazioni esasperano lo staff della cucina, in particolare Pedro che ha difficoltà a gestire il suo rapporto con la cameriera Julia (Rooney Mara) dalla quale aspetta un figlio.

Come dichiarato da Ruizpalacios, Aragoste a Manhattan è un film politico sul fallimento del sistema capitalista che si regge sulla disuguaglianza non solo razziale (in cucina sono quasi tutti immigrati illegali), ma anche e soprattutto di classe (il proprietario non è statunitense, è solo il padrone, uno ricco che pensa di avere più diritti degli altri). Il Sogno Americano è appunto solo un sogno, come quelli che Pedro cerca nei volti e nelle parole dei suoi colleghi in un momento di pausa dal lavoro e che si riducono a poche cose, semplici, o come nel caso di Nonz (Motell Foster) a qualcosa di totalmente incomprensibile. Il sistema si regge sullo sfruttamento dei più deboli, degli indifesi, di quella manodopera illegale tenuta sotto scacco dalla speranza di ottenere finalmente i documenti, la cittadinanza, per iniziare una vita da regolare, magari proprio in quella città che sembra così soverchiante alla giovane Estela al suo arrivo a New York. L’arrivo in città è il caos, come quello che troverà in cucina, una sorta di torre di Babele di culture sulle quali Ruizpalacios punta molto, come nella splendida sequenza dove i cuochi e le cameriere, per gioco, si esibiscono in una gara di insulti ognuno nella propria lingua: una bolgia totale. La critica al “sistema” è ovunque: nei ritmi di lavoro, nell’ingresso “opportunista” di Estela (che ruba il lavoro a un’altra ragazza), nella continua guerra tra poveri all’interno della cucina, nella mancanza reale di possibilità, nell’attaccamento possessivo ai propri spazi. Non c’è più spazio per l’amore per il proprio lavoro, né per i clienti, né per la cucina, né per il cibo. Per accrescere la sensazione di “chiusura” dei personaggi all’interno della cucina il regista messicano adopera un formato 4:3 che avvicina molto i protagonisti tra loro, usa spesso il pianosequenza per dare l’idea da “girone infernale”, una tecnica che esplode nella bellissima sequenza della cucina allagata e del crollo emotivo di Pedro, protagonista sugli scudi all’interno di un cast eterogeneo selezionato con diversi casting tra Messico, New York e Londra, vero punto di forza del film (ci sono statunitensi, messicani, colombiani, franco-algerini, albanesi, israeliani, etc…). Ci sono anche le aragoste ma in fondo, forse, non sono poi così importanti.

domenica 12 ottobre 2025

LA DONNA DEL FIUME – SUZHOU RIVER

(Sūzhōu Hé di Lou Ye, 2000)

- Se un giorno io ti lasciassi, mi cercheresti come ha fatto Mardar?
- Sì
- Mi cercheresti per sempre?
- Sì
- Per tutta la vita?
- Sì
- Stai mentendo. Cose come quella… capitano solo nelle favole.
- Non mi credi?
- No, non ti credo.


Il regista Lou Ye, nato a Shanghai nel 1965, è uno di quegli autori cinesi appartenenti alla cosiddetta sesta generazione. Si tratta di giovani registi (giovani al momento del loro esordio) che iniziarono a muovere i primi passi nel momento in cui la Repubblica Popolare Cinese stava uscendo dalle sanguinose proteste di Piazza Tienanmen del 1989. Fu in un clima di forte controllo e censura da parte dello Stato che questi giovani autori si trovarono costretti ad aggirare i divieti di Stato rivolgendosi a produzioni indipendenti e a finanziamenti provenienti dall’estero, spesso grazie alla partecipazione a festival internazionali. Per questo motivo La donna del fiume – Suzhou river, presentato senza il benestare delle autorità al Festival di Rotterdam, costò a Lou Ye due anni di interdizione dal lavoro, mentre in patria il film venne censurato e mai distribuito ufficialmente. I film della “sesta generazione” si concentrano su una dimensione urbana e raccontano la realtà di una Cina in trasformazione, un Paese alle prese con un enorme cambiamento, non ancora compiuto, a causa del quale le nuove generazioni provano un forte senso di spaesamento e marginalità, sentimenti caratteristici di quei paesi che si stanno aprendo a una forte spinta capitalistica.


Shanghai. In una zona periferica sul fiume Suzhou, un fotografo riempie muri fatiscenti con biglietti da visita fissati con vernice spray. Convocato dal proprietario dell’Happy Tavern (Yao Anlian) per un servizio fotografico, l’uomo incontra la giovane Meimei (Zhou Xun), una ragazza che offre uno spettacolo vestita da sirena. Il fotografo si innamora di questa ragazza sfuggente, i due iniziano una relazione in cui l’uomo è all’oscuro del passato della giovane, un amore incerto, senza programmi, tanto che l’uomo, ogni volta che Meimei si allontana da lui, teme di non vederla più far ritorno. Un giorno Meimei racconta al fotografo la storia di Mardar (Jia Hongsheng), un corriere povero in canna che, di tanto in tanto, accetta l’incarico di accompagnare dalla zia la giovanissima Moudan (Zhou Xun), figlia di un uomo d’affari che vuole togliersi la bambina dai piedi per avere campo libero con le sue donne. Nonostante la differenza d’età, Mardar e Moudan si innamorano. In seguito a una spiacevole vicenda nella quale Mardar ha una grossa parte di colpe, Moudan si getta nel fiume Suzhou, il suo corpo non verrà mai più trovato. Tempo dopo Mardar incontra proprio Meimei, fisicamente identica a Moudan, e l’uomo si convince di aver finalmente ritrovato il suo vecchio amore dopo aver passato anni a cercarla.


Lou Ye costruisce La donna del fiume affidando molte sequenze alla voce over del fotografo, un uomo che non vediamo mai in volto, alla sua soggettiva, mostrando ciò che lui vede grazie a inquadrature realizzate con camera a mano, e lavora sulla storia d’amore ambigua tra lui e Meimei, che potrebbe essere la stessa donna amata da Mardar, che lui conosce come Moudan, o potrebbe essere un’altra, un nodo che si scioglierà solo nel finale di un film che, come detto da più parti, in questa ambiguità omaggia Hitchcock e il suo La donna che visse due volte. Suzhou river si apre proprio sul fiume, con un piglio documentaristico tipico degli autori della sesta generazione; un montaggio veloce, sincopato, ci mostra il fiume, la sporcizia che lo lambisce ma anche la vita che, grazie a esso, i lavoratori di Shanghai possono portare avanti. È un luogo liminale, attorno al quale si sviluppano le storie dei protagonisti, una/due storia/e d’amore cui dà vita la splendida Zhou Xun, impegnata nei due ruoli femminili della pellicola. La donna del fiume esce lo stesso anno di In the Mood for Love, il film di Lou Ye condivide con l’opera di Wong Kar-wai una forte componente elegiaca e una riflessione malinconica sull’amore, ma declina entrambi questi aspetti in una chiave più disillusa, priva del lirismo raffinato del regista hongkonghese. Laddove Wong Kar-wai lavora sulla sospensione del desiderio, Lou Ye porta in scena corpi che si rincorrono, si cercano, si perdono, personaggi alla deriva in un contesto che, come per altri autori della sesta generazione, è quello di una Cina in rapido cambiamento, in cui i giovani sembrano incapaci di trovare un posto stabile, e dove l’amore appare come un’illusione o un rifugio temporaneo. Rispetto ai suoi colleghi, Lou Ye adotta però uno sguardo più intimista, meno interessato alla denuncia sociale in senso stretto e più attratto dai turbamenti interiori, dalle ossessioni individuali, dalla confusione dei sentimenti. La città si intravede appena, i protagonisti sono confinati in una periferia esistenziale prima ancora che geografica. Lou Ye cesella anche un ottimo lavoro sull’identità, resta ambiguo su quella di Meimei/Moudan, quasi a simboleggiare una crisi identitaria di un intero Paese e della sua popolazione, spaesata a causa del cambiamento incombente. Non ha forse la potenza dei film di Jia Zhang-Ke questo La donna del fiume, ma allo stesso tempo, in modi diversi, sottolinea un momento di difficile transizione di quella che, da lì a poco, diverrà una delle potenze economiche dell’intero pianeta.

sabato 4 ottobre 2025

FUORI

(di Mario Martone, 2025)

Con Fuori il regista napoletano Mario Martone compie un’operazione libera dagli stretti vincoli di una struttura costruita e chiusa; dà vita così a un film ondivago, non lineare, anche disordinato se si vuole, ma sempre molto vivo e sentito. Fuori è uno squarcio sull’esistenza della scrittrice siciliana Goliarda Sapienza, lontano dalla completezza, dall’operazione agiografica, dal biografismo compìto e calligrafico, non ci dice tutto ma inquadra una protagonista nell’atto del “sentire”: del sentirsi libera, connessa a una vita e a delle donne molto diverse da lei e da quel che è stata in passato (almeno fino all’episodio che cambierà la sua vita e, appunto, il suo “sentire”), del sentirsi sempre più lontana da una società altoborghese asfissiante e poco “vera”. Del sentirsi scrittrice incompresa. Non c’è cronologia né cronaca: Martone mette al centro il percorso interiore di una donna, in realtà quello di più donne, un percorso fatto di libertà, amore, attaccamento all’altro e autoaffermazione (che purtroppo arriverà per Goliarda Sapienza un po’ troppo tardi, almeno qui in Italia). Martone lavora molto bene con le sue donne (e con le tre attrici che le interpretano), le cesella con puntualità, come non fa mai troppo con gli eventi, che invece fluiscono. Ed è proprio nel fluire che questo lavoro trova forza: nella vitalità sghemba e intermittente della sua protagonista, che si accende solo a contatto con altre donne — nel carcere, nella lotta, nel corpo a corpo emotivo e sensuale — e si spegne, si opacizza, si svuota nei salotti borghesi, nei colloqui con le persone “per bene”.


Goliarda Sapienza (Valeria Golino) è una scrittrice: qualche libro già pubblicato, collaborazioni con giornali e un romanzo in divenire che accoglie tutta la sua passione per la scrittura e per la vita, ma che nessuno sembra essere intenzionato a pubblicare. Sposata con Angelo (Corrado Fortuna), traduttore e attore, Goliarda frequenta i salotti borghesi della Roma bene. A seguito di un furto compiuto più per ripicca che non per bisogno di denaro o di trasgressione, la scrittrice passa un periodo nel carcere femminile di Rebibbia, dove incontra, tra le altre detenute, la giovane Roberta (Matilda De Angelis), tossicodipendente e implicata con il brigatismo di fine Settanta, inizio Ottanta, e Barbara (Elodie), una borgatara che tenterà poi la scalata verso la redenzione. Con l’esperienza del carcere e il legame con queste donne, la vita di Goliarda cambia per sempre; la donna sente la vacuità della sua vita borghese in contrapposizione alla vitalità di amicizie sincere anche se problematiche, soprattutto quella con Roberta, spesso conflittuale ma tenuta accesa da un amore vero che forse supera anche i confini dell’amicizia. In una Roma periferica e quasi astratta, Goliarda Sapienza in qualche modo muta, matura e scrive…


Forse ci vuole più di un attimo per “entrare dentro” (parole adatte a questo film) al Fuori di Mario Martone, sicuramente uno tra i registi più interessanti che il nostro Paese oggi possa annoverare. Con il passare dei minuti e dei frammenti si entra però in empatia con la protagonista e con il suo nuovo rapporto con la vita e con gli altri, con le altre in realtà, un parterre di donne tra le quali spiccano quelle interpretate dalla De Angelis e da Elodie, entrambe, insieme alla Golino, protagoniste di prove intense e molto “adatte” a raccontare i legami e quella sorta di sorellanza nata tra le quattro mura di una cella di prigione. Così il film di Martone gioca molto sulla dicotomia fuori/dentro e con il ribaltamento delle due situazioni in quello che solitamente è il senso comune di intenderle. Il carcere qui sembra essere la vita, la vera libertà, il “fuori” è invece un mondo sterile, artefatto, freddo e spesso compiaciuto, non per nulla sarà il “coro” delle detenute ad offrire uno dei momenti più toccanti e sentiti del film. Pur avendo Goliarda Sapienza come protagonista, in Fuori non è da meno la parabola esistenziale del personaggio di Roberta, forse ancor più complicato di quello di una quasi inafferrabile Goliarda, fragile e forte allo stesso tempo, dipendente, libera, complessa. Complicate, vive, proprio come il film di Martone, le tre attrici tratteggiano tre belle figure femminili, vere, difficili come quell’arte della gioia che a volte è fatta di singoli momenti, magari caduchi, transitori, eppure così maledettamente intensi.

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