mercoledì 29 gennaio 2025

JESUS ROLLS - QUINTANA È TORNATO!

(The Jesus rolls di John Turturro, 2019)

Con Jesus Rolls - Quintana è tornato il regista e protagonista John Turturro riprende in mano, a vent'anni di distanza dalla sua prima apparizione, il personaggio più riconoscibile e indimenticato della sua intera carriera, un uomo, un mezzo delinquente campione di bowling al quale sono bastati pochissimi minuti all'interno di un film divenuto poi un cult mondiale (Il grande Lebowski dei fratelli Coen, 1998) per rimanere impresso nella mente degli spettatori a imperitura memoria; in fondo, si sa, "non se escherza con Jesus". Ecco, per godersi nella giusta maniera e senza pregiudizi Jesus Rolls è necessario dimenticarsi del fatto che questo film sia una sorta di spin-off de Il grande Lebowski, film di ben altro livello, anche perché uno spin-off lo è solo nominalmente; certo il protagonista è Jesus, il personaggio è quello, ma i riferimenti al film con i grandissimi Jeff Bridges, John Goodman e Steve Buscemi finiscono più o meno qui, c'è giusto una brevissima scena su una pista da bowling in omaggio al Jesus che fu, per il resto si va da tutt'altra parte e anche il bowling ce lo si scorda per tutta la parte rimanente del film. Quindi dov'è che va di preciso John Turturro con il suo Quintana è tornato? Da tutt'altra parte, in Francia per esempio, perché Jesus Rolls è una sorta di remake di un film francese post sessantottino, I santissimi, pellicola del 1974 del regista Bertrand Blier, un'opera della quale Turturro segue le orme solo in parte, mantenendone vivi molti passaggi di trama ma alleggerendone ed edulcorandone il marcato spirito sovversivo, confezionando quindi un'opera più remake che spin-off e sicuramente lontana nel personaggio principale dal Jesus Quintana che tutti abbiamo imparato a conoscere negli anni Novanta.

Jesus Quintana (John Turturro) si prepara ad uscire di prigione dopo aver scontato una pena per esibizionismo, episodio nel quale era coinvolto un giovane ragazzino. Il mago del bowling trova ad attenderlo fuori dalle mura del carcere il vecchio amico Petey (Bobby Cannavale); i due, come prima cosa, rubano la macchina sportiva di un parrucchiere (Jon Hamm) per andare a trovare la madre di Jesus (Sonia Braga). Finita la visita, essendo in libertà vigilata, Jesus e Petey decidono di compiere una buona azione e restituire l'auto al proprietario trovandolo però un tantino innervosito dall'episodio. Durante la discussione che ne segue Jesus riconosce la shampista della "star del capello" come la sua vecchia amica Marie (Audrey Tatou), il parrucchiere spara nelle palle a Petey, Jesus dopo averlo pestato gli ruba nuovamente l'auto (non se escherza con Jesus) e Marie fugge con i due uomini. Da questo momento in avanti il terzetto inizia un viaggio sulle strade del Paese durante il quale si susseguono incontri ed episodi, alcuni decisamente più significativi di altri, grazie ai quali i protagonisti raggiungeranno un nuovo livello di consapevolezza. O forse no.

Quindi dov'è che va di preciso John Turturro con il suo Quintana è tornato? In realtà all'apparenza la risposta più plausibile potrebbe essere "da nessuna parte". In questa affermazione però non vuole esserci quello scarso apprezzamento che la maggior parte della critica ha dimostrato verso l'opera di Turturro, un film sicuramente imperfetto, inconcludente se vogliamo, però anche libero, lieve, in qualche modo nostalgico, cazzaro sicuramente, portatore fuori tempo massimo di una concezione di vita sregolata e non incasellata, fatta di avventure picaresche, di momenti estemporanei ed episodici, di una tenitura slegata che non conosce regole né radici né appartenenze (non solo a luoghi). Con una sequenza iniziale di vestizione del personaggio Turturro si riappropria di Jesus dopo un ventennio di lontananza, nel farlo ammorbidisce il suo protagonista, nel carattere come nelle colpe (l'episodio di esibizionismo è praticamente accidentale), ma non rinuncia ai toni divertiti e grotteschi, alle pose esagerate di un Jesus ben sostenuto dalle prove di Cannavale e della Tatou, un terzetto ben amalgamato nella sua marginalità quasi connaturata ed endogena. Ne esce un canto, magari a volte stonato, a un'esistenza borderline e non incasellata, qui esibita anche nei costumi sessuali in quello che diventa una sorta di ménage a trois (e più) generoso e disinibito. Non mancano come si accennava sopra momenti più profondi, veicolati soprattutto dalla presenza del personaggio interpretato da una sempre ottima Susan Sarandon, calata drammatica in un film altrimenti più spensierato e divertente (come potrebbe essere altrimenti con i Gipsy King in colonna sonora?). Magari il film di Turturro non sempre è perfettamente centrato, non lo è quasi mai a dire il vero, tutto sommato però non mi sento di bocciare questo Jesus rolls, anche perché non se escherza con Jesus, ve la prendete voi la responsabilità di una stroncatura?

lunedì 27 gennaio 2025

THE GREAT WHEN - IL GRANDE QUANDO

(The great when di Alan Moore, 2024)

Alan Moore torna al romanzo dopo un intervallo di tempo relativamente breve se consideriamo che tra l'uscita de La voce del fuoco, sua prima opera letteraria (una raccolta di racconti), e il successivo "romanzo monstre" che va sotto il titolo di Jerusalem passarono esattamente dieci anni; lo iato successivo all'interno della produzione letteraria del bardo di Northampton si ridusse ai sei anni di attesa, questo il tempo che ci volle per dare alle stampe la successiva antologia di racconti Illuminations con la pubblicazione della quale arriviamo all'anno del Signore 2022. Dopo l'uscita di Illuminations iniziarono a rincorrersi le voci che davano Alan Moore in procinto di editare non solo un romanzo prossimo venturo ma addirittura una pentalogia di scritti aventi come protagonista una versione alternativa e ovviamente magica e ovviamente storica di Londra, spostando così l'attenzione dalla natia Northampton alla capitale dell'Inghilterra e del Regno Unito. Con un'attesa di soli due anni i fan di Alan Moore hanno così avuto la possibilità di mettere le mani sul primo capitolo di questa nuova saga, The great when - Il grande quando, racconto che probabilmente presenterà punti di contatto con le opere prossime a venire che Moore scriverà ma che resta leggibilissimo a sé stante senza lasciare appeso il lettore con l'ansia dell'uscita del capitolo successivo per vedere "come va a finire la storia". A questa accelerazione della produzione romanzesca di Moore è probabile che abbia contribuito non poco la recente disaffezione verso il media del fumetto da parte dell'autore inglese, media che lo ha consacrato e gli ha permesso di dedicarsi a ciò che ora meglio lo soddisfa; l'allontanamento dell'autore dal mondo dei comics è attribuibile a una disillusione dettata da delusione nei confronti dell'industria del fumetto e della malagestione da parte della stessa dei rapporti con i creativi e con gli autori, una delusione che si unisce anche all'insofferenza per un'idolatria immatura nei confronti degli stessi autori da parte di un fandom che lo scrittore, in tempi recenti, addita spesso come composto da adulti non del tutto cresciuti, una presa di posizione spinta anche da un'amarezza di fondo che, come spiegò anche sua figlia Leah in occasione di diverse interviste, ha smorzato l'entusiasmo di cotanto padre nei confronti di una forma d'arte che Moore ha amato e apprezzato per tantissimi anni della sua vita (alcuni dei massimi capolavori del fumetto britannico e statunitense sono suoi). Così è probabile che nei prossimi anni vedremo meno fumetti (o nessuno) firmati Alan Moore ma avremo una sua produzione letteraria in crescita costante.

Siamo nella Londra devastata e cosparsa di macerie del secondo dopoguerra; gli abitanti della capitale inglese arrivano da anni di terrore e bombardamenti, da un lungo periodo di stenti e distruzione a seguito del quale fanno fatica a rialzare la testa e risollevarsi dalla miseria più nera. Tra loro c'è il giovane Dennis Knuckleyard, appena diciottenne e più o meno solo al mondo, senza casa e senza famiglia il giovane ha trovato alloggio all'interno della vecchia libreria di Ada "Cicca" Benson nella zona di Shoreditch. La donna non è proprio quella che possa definirsi un'anima pia, consente al ragazzo di stazionare in una modestissima stanza provvedendo al minimo indispensabile per la sua sopravvivenza in cambio del lavoro di Dennis in libreria e di tutta una serie di piccole commissioni da espletare in giro per Londra. Dal canto suo Dennis, pur non esaltato dalla sua attuale condizione, perlomeno trova a sua disposizione i libri della Lowell's Books & Magazines e può contare sulla presenza di un tetto sulla sua testa. Dennis riesce almeno a svagarsi con la compagnia di un paio di amici con i quali di tanto in tanto si trova in qualche pub: il giornalista John "si tira avanti" McAllister e il giovane e spiritoso avvocato Clive Amery. In una delle sortite di Dennis per conto di Ada il giovane si reca da un libraio di nome Harrison per acquistare, tirando sul prezzo se possibile, dei libri di un certo Arthur Machen ai quali Ada è interessata per la sua libreria. Nel lotto di libri che Dennis riesce a recuperare c'è anche un titolo, citato in uno dei libri di Machen, di uno scrittore misterioso. Il libro si intitola Una passeggiata per Londra ed è firmato Thomas Hampole, un libro che parla di un'altra Londra, un libro che non dovrebbe esistere e che di sicuro non sarebbe dovuto capitare nelle mani inesperte e inconsapevoli di Dennis Knuckleyard il quale, dal momento in cui ne viene in possesso, si troverà scaraventato in una serie di avventure occulte e misteriose che metterebbero a dura prova la salute mentale di chicchessia.

Alan Moore torna ai suoi temi preferiti e alle sue passioni di sempre alcune delle quali sono indubbiamente le realtà magiche, i mondi alternativi e mistici e la storia delle città, delle loro zone periferiche, il volto nascosto delle stesse. Come già accadeva in Jerusalem con il vecchio quartiere del Boroughs di Northampton, anche ne Il grande quando emerge forte l'importanza della toponomastica e dell'adesione al tessuto cittadino da parte di Moore, un tessuto che qui viene definito come un riflesso, un'ombra di quella che è la vera Londra, la Long London, un regno, una città nascosta i cui accessi sono celati tra le vie della Londra della nostra realtà e conosciuti solo da pochi adepti. L'idea di una città doppia, alternativa a quella vista come "reale" dai non iniziati, non è certamente nuova; rimanendo sulla stessa capitale inglese potremmo citale il Nessun dove di Neil Gaiman ad esempio che, in maniera sicuramente diversa, tratteggia anch'egli una Londra nascosta e accessibile non certo a tutti. Lo stesso Moore in Jerusalem aveva descritto piani d'esistenza alternativi e magici con quella meraviglia che era il Mansoul. Come per i riferimenti toponomastici che si rifanno a quelli della Londra reale anche molti dei personaggi presenti ne Il grande quando, anche i più bislacchi e all'apparenza improbabili, hanno avuto una corrispondenza nella nostra realtà, corrispondenze ben documentate nell'agevole appendice presente in coda al romanzo dove sono contestualizzati protagonisti, fatti ed episodi con il loro parallelo reale (in fondo un libro cos'è se non un'altra realtà, magari specchio della nostra?). Come abbiamo detto sopra Moore sembra aver abbandonato il fumetto in favore della letteratura, in qualità di mago e sciamano inserisce nel suo romanzo un libro magico che è viatico per una realtà alternativa dove si rischia di perdere la ragione, dove l'essenza delle cose è mobile e mutevole, incomprensibile a un primo impatto, soggettiva e interpretabile dai sensi di ognuno in maniera diversa, una Londra dove Arcani e Archetipi percorrono maestosamente strade impossibili, personificazioni di entità e concetti come il Crimine, la Sommossa (La Bellezza dei Tumulti) e via di questo passo troneggiano su una realtà altra profondamente terrificante. È più che certo che anche questa volta, nonostante il bel lavoro di traduzione da parte di Tessa Bernardi, qualche gioco di parole, qualche riferimento, qualche arguzia di uno scrittore fine e incontenibile come Moore vada persa nel passaggio dall'inglese all'italiano; ciò nonostante, oltre a una storia forse più abbordabile rispetto ad altre narrazioni del Nostro, non si può fare a meno di apprezzare uno stile di scrittura tanto elegante quanto colto nei riferimenti, magari non sempre semplice e scorrevole, ma comunque intrigante e stimolante. Di per sé Il grande quando presenta una sorta di chiusura che sappiamo si rivelerà essere solo un tassello di una narrazione più ampia ma che per ora, in attesa del prossimo volume, può anche bastare a sé stessa, nell'augurio che i tempi di uscita dell'annunciato prossimo capitolo siano ragionevolmente brevi.

mercoledì 22 gennaio 2025

MISHIMA - UNA VITA IN QUATTRO CAPITOLI

(Mishima: A life in four chapters di Paul Schrader, 1985)

Con Mishima - Una vita in quattro capitoli il regista Paul Schrader compie un'operazione di ricostruzione biografica di grande valore e allo stesso tempo parecchio complessa la cui fruizione richiede una non trascurabile dose di impegno e attenzione. Nel mettere in scena episodi della vita e dell'arte di Yukio Mishima (vero nome Kimitake Hiraoka), probabilmente il più importante scrittore giapponese dello scorso secolo, Schrader esula dalla struttura di quello che potrebbe oggi essere considerato un classico e convenzionale biopic; il regista del Michigan sceglie invece di attingere a materiale contenuto in tre delle opere più significative di Mishima per mettere in scena i primi tre dei quattro capitoli totali ai quali il titolo del film fa riferimento, realizzando poi un segmento più puramente biografico, quello intitolato Armonia tra penna e spada (sottotitolo rivelatore) che narra l'episodio culmine della vita di Yukio Mishima; anche alcuni dei passaggi legati al privato del protagonista, come quelli che ci mostrano l'infanzia dello scrittore, poggiano su basi letterarie in quanto vicini al romanzo autobiografico scritto dallo stesso Mishima e intitolato Confessioni di una maschera. Gli altri tre segmenti del film, dai titoli Bellezza, Arte e Azione, si rifanno invece a romanzi scritti da Mishima nel corso degli anni, rispettivamente Il padiglione d'oro (1956), La casa di Kyōko (1959) e infine Cavalli in fuga (1969). C'è dietro l'opera di Schrader uno studio mirato e importante dell'opera e della figura, non facile e parecchio controversa, di un artista (non solo scrittore) ancora oggi divisivo e dibattuto.

Un ancora piccolo Yukio Mishima (Yuki Nagahara) è costretto a crescere con la nonna lontano da sua madre in uno stato di isolamento quasi completo; nel crescere Mishima sarà privato del rapporto con gli altri ma verrà egualmente spinto alla conoscenza, alla cultura e all'apprezzamento del bello. Alla narrazione dei ricordi d'infanzia dello scrittore e a quella delle ultime giornate di vita di Mishima (Ken Ogata), narrate soprattutto nel segmento Armonia tra penna e spada, si alternano le narrazioni che si rifanno ai romanzi sopra citati. In Bellezza il giovane e poco piacente novizio Mizoguchi (Yasosuke Bando), afflitto da un forte difetto di balbuzie, cresce nel mito della bellezza perfetta del Padiglione d'oro; il contrasto tra questa perfezione e la sua condizione disagiata blocca il giovane Mizoguchi nei sentimenti e soprattutto nei rapporti con le donne. Per ovviare a questa situazione, nella mente del ragazzo sembra prendere forma l'idea che solo la distruzione di una bellezza perfetta possa liberarlo dalla sua condizione. Nel segmento che va sotto il nome di Arte il protagonista è un giovane attore, Osamu (Kenji Sawada), anch'egli ossessionato dalla bellezza e dal culto del corpo, un'ideale che non ritrova in sé stesso quando si guarda allo specchio; accetterà una relazione con Kyomi (Reisen Lee), una donna più anziana che lo instraderà a pratiche sadomasochistiche che deturperanno il suo corpo fino alle estreme conseguenze. In Azione il giovane Isao (Toshiyuki Nagashima) è pronto a sacrificare sé stesso, fino ad arrivare a mettere in pratica il seppuku, il suicidio rituale del samurai, pur di difendere l'idea di un Giappone tradizionale e contrastarne le invadenti derive capitaliste.

Pur essendo lontano dall'idea di spettacolo che potremmo avere del cinema in occidente, Mishima - Una vita in quattro capitoli è prodotto da George Lucas e Francis Ford Coppola, all'apparenza poco accomunabili all'idea di cinema di Schrader. Sotto il punto di vista formale il regista confeziona un film di impeccabile eleganza, alternando il bianco e nero pulito e rigoroso nella narrazione dell'infanzia del protagonista a set teatrali essenziali, ricavati dall'uso di quinte e paraventi, ripresi con inquadrature studiate e minuziose, ricorrendo anche a simboli di intensa bellezza come la ripresa al sole nascente sul finale del film, segno forse di speranza per un'eventuale rinascita di ideali spezzati, una rinascita che Mishima auspicava fino al punto di compiere su sé stesso l'estremo gesto nella speranza che questo potesse aprire a riflessioni un popolo che evidentemente lo scrittore giapponese iniziava a considerare irrimediabilmente decadente e compromesso. Lungo la durata del film, come nel corso della vita di Mishima, ricorrono diversi temi spesso volti all'idealizzazione della morte, vista come veicolo per raggiungere un fine, lanciare e lasciare un messaggio fatto di parole inascoltate. Quella di Mishima è stata una figura controversa, quella di un uomo rivolto al passato di un Giappone forte e glorioso e ostile al Paese come lo vedeva nella sua contemporaneità, fu accostato in vita anche a ideologie fasciste, più probabilmente Mishima fu un passatista un poco fuori dal suo tempo, legato più all'onore del codice del samurai che ad altro, ossessionato dall'arte, dalla vita come forma d'arte ma anche dalla morte come atto d'arte finale e supremo. Una vita in quattro capitoli si propone come biografia anomala, originale, pregna di contenuti affatto superficiali e scontati, non immediata ma indubbiamente molto riuscita.

lunedì 20 gennaio 2025

GHOSTBUSTERS - MINACCIA GLACIALE

(Ghostbusters: Frozen empire di Gil Kenan, 2024)

Il precedente capitolo dedicato al brand degli acchiappafantasmi (Ghostbusters: Legacy del 2021), diretto da Jason Reitman, si era rivelato soprattutto una questione di cuore, di profondi legami d'amicizia, di rispetto, d'affetto e d'amore, una questione familiare, un'operazione sentita nel profondo da un regista che con quel film omaggiava il lavoro e la passione del padre Ivan Reitman, regista e produttore di quei due primi mitici capitoli risalenti agli anni Ottanta, e ricordava con sincero trasporto la scomparsa di Harold Ramis, attore (era Egon Spengler) e sceneggiatore nei due film sopra menzionati, praticamente anche lui un componente di una grande famiglia allargata che comprendeva ancora altri elementi legati a quell'esperienza ormai lontana nel tempo. Con il passaggio alla regia all'israeliano Gil Kenan, nonostante la partecipazione di quasi tutti i vecchi elementi del cast storico disponibili e la presenza di Jason Reitman in fase di sceneggiatura, tutto il carico sentimentale presente in Legacy si sfalda facendo sì che tutta questa operazione di revival si sgonfi in maniera fin troppo evidente e vada a perdere quel tocco di sincerità e di pregnanza di cui era carico in maniera così naturale Ghostbusters: Legacy. E quindi inutile nascondersi dietro al classico dito, seppur ben realizzato negli effetti speciali e nonostante la presenza dei moltissimi omaggi alla storia del brand, Minaccia glaciale si rivela un capitolo fiacco e un po' deludente delle avventure degli acchiappafantasmi, manca di quella parte emotiva così ben sfruttata in Legacy e di conseguenza anche lo sviluppo dei nuovi protagonisti, i ragazzi giovani e i loro genitori/tutori, ne risente in maniera pesante.

La famiglia Spengler, formata da mamma Callie (Carrie Coon) e dai suoi due figli Trevor (Finn Wolfhard) e Phoebe (McKenna Grace), insieme al professor Grooberson (Paul Rudd), aspirante figura paterna per i due ragazzini, ha lasciato il Midwest americano per far ritorno a New York e occupare la vecchia stazione dei pompieri divenuta iconico quartier generale degli acchiappafantasmi originali e ora di questa loro versione aggiornata al nuovo millennio. A New York in fondo ci sono i vecchi amici del defunto nonno Egon, il solido Winston Zeddemore (Ernie Hudson) con il suo centro di ricerca sul paranormale, Ray Stantz (Dan Aykroyd) e il suo negozio di oggetti misteriosi e anche il dottor Peter Venkman (Bill Murray) ancora in attività. Tra un intervento e l'altro i nuovi Ghostbusters si attirano l'antipatia del sindaco Peck (William Atherton) che per mettere i bastoni tra le ruote agli Spengler li accusa di sfruttamento minorile in quanto la giovane Phoebe, vero genietto della famiglia, non è ancora maggiorenne e non potrebbe operare in maniera attiva, motivo per cui la ragazza si ritroverà relegata in panchina con sommo dispiacere suo ma anche di "papà" Gary. Nel frattempo Ray acquisisce per il suo negozio una strana sfera da Nadeem Razmaadi (Kumail Nanjiani), tipo innocuo ma bizzarro con parentele inserite nel mondo mistico; la sfera si rivelerà essere portatrice di una potente maledizione e di uno spirito vendicativo in grado di scatenare su New York e sul mondo una sorta di nuova era glaciale; quando alla fine gli avvenimenti si faranno troppo strani da poter essere gestiti in maniera convenzionale non resterà che fare ricorso ai cari vecchi acchiappafantasmi (Who you gonna call?).

Deludente, troppa carne al fuoco se guardiamo al numero di personaggi e poca carne al fuoco se guardiamo alla qualità di scrittura e di sviluppo degli stessi. Il fatto di dover gestire ben tre generazioni di acchiappafantasmi, i loro amici, i collaboratori e i loro antagonisti non permette di avere linee narrative approfondite e ben articolate; così mamma Callie e Trevor sono poco più che semplici comparse così come è sfruttato davvero poco Bill Murray; il rapporto tra Phoebe e il suo ex professore Gary, che sta cercando di iniziare a contare qualcosa come figura paterna in questa nuova famiglia, poteva essere il nodo focale di un film che di legami familiari potrebbe vivere in toto e invece la questione rimane solo in superficie, relegata a poche battute e momenti di sviluppo affrettati e poco sottolineati. Un poco meglio viene gestito il rapporto di scoperta sentimentale tra Phoebe e l'ectoplasmatica Melody (Emily Alyn Lind), ragazzina fantasma per la quale per Phoebe sembra nascere un'amicizia e forse qualcosa di più, per il resto sono tutte strizzate d'occhio ai fan storici con il ritorno in biblioteca (e alla bibliotecaria fantasma), al quartier generale storico, a Slimer e agli omini dei Marshmallow, alle statue animali animate e alle antiche divinità inviperite, agli anni 80 e al merchandising dell'epoca, un fan service che tutti si aspettavano e che di certo in Missione glaciale non manca. Purtroppo è questo anche il limite del film, c'è più o meno quello che ci si aspetta ma solo quello, non ci sono novità né guizzi, cosa che potrebbe anche andar bene se non fosse per il fatto che qui sembrano mancare totalmente cuore e passione. Solo un altro episodio di Ghostbusters, decidete voi se farvelo bastare.

sabato 18 gennaio 2025

WAY DOWN - RAPINA ALLA BANCA DI SPAGNA

(The vault di Jaume Balagueró, 2021)

La Odissey Marine Exploration è una compagnia statunitense che si occupa di estrazioni di minerali dai fondali oceanici e che, nel corso della sua storia, si è specializzata anche nel recupero di relitti affondati (storia vera, non è ancora la trama del film). Nel 2007 la compagnia individua un relitto sito in acque internazionali, probabilmente i resti della fregata spagnola Nuestra Señora de las Mercedes, all'interno della quale l'equipaggio della Odissey ritrovò un importante tesoro composto da monete antiche in argento e oro dal valore decisamente considerevole. Portato il tesoro negli Stati Uniti, la Odissey subisce un attacco legale da parte del governo spagnolo che rivendica la proprietà del relitto e mette in dubbio anche la posizione dello stesso, secondo gli spagnoli rinvenuto all'interno delle loro acque territoriali. La faccenda legale si ingarbuglia presentando anche episodi poco chiari nel suo dipanarsi, fatto sta che dopo tutto il lavoro di preparazione e di recupero svolto, l'Odissey Marine Exploration verrà costretta da una sentenza del governo Statunitense a restituire il tesoro agli spagnoli. È questo episodio di cronaca che il regista Jaume Balagueró, noto per essere l'ideatore della saga horror Rec, prende come spunto per costruire il suo Way down - Rapina alla Banca di Spagna che, a conclusione di una disputa molto simile a quella sopra descritta, diventa una sorta di heist movie volto a inscenare la vendetta che il comandante della nave depauperata del suo ritrovamento metterà in atto al fine di fare giustizia per quello che vede a tutti gli effetti come un ingiusto sopruso.

Walter Moreland (Liam Cunningham) è l'uomo al comando della compagnia navale che si è trovata in una situazione molto simile a quella sopra descritta, gabbato dal governo spagnolo dopo anni di ricerche e di rischi corsi al fine di portare a galla due forzieri di monete antiche e molto preziose. Quando il risultato dei suoi sforzi gli viene sottratto da sotto il naso, Walter, che è un cittadino inglese, cerca prima di far leva sulle sue influenti conoscenze come quella di Margaret (Famke Janssen), funzionario dei Servizi britannici, per poi decidere di farsi giustizia da solo e andarsi a riprendere le monete, peccato queste siano ora custodite all'interno della Banca di Spagna a Madrid, in un caveau dal misterioso sistema di sicurezza all'apparenza inespugnabile. Dopo aver assemblato una squadra per tentare l'impresa e non avendo a disposizione il Professore de La casa de papel per risolvere il mistero del caveau, Walter decide di rivolgersi a uno studente di ingegneria, uno decisamente brillante e già conteso da tutte le compagnie petrolifere del pianeta, il giovanissimo e geniale Tom Johnson (Freddie Highmore). Tom dal canto suo non ha nessuna voglia di andare a lavorare per compagnie che inquinano il pianeta né tanto meno di diventare un bravo ingranaggio del sistema del capitale, non sarà difficile così per la bella Lorraine (Àstrid Bergès-Frisbey) convincere il ragazzo a dare una possibilità a Walter, alla sua passione e alla sua squadra in procinto di tentare un'impresa tanto illegale quanto epica; all'interno di questo scenario il compito di Tom sarà quello di risolvere il mistero del caveau e di inserirsi all'interno della squadra composta da Walter, Lorraine, dal socio di Walter, James (Sam Riley), dall'addetto all'equipaggiamento Simon (Luis Tosar) e dall'immancabile mago dei computer Klaus (Axel Stein). Con poca indecisione Tom si butta in questa pericolosa avventura.

Da uno spunto di cronaca il catalano Jaume Balagueró costruisce un heist movie (film di rapina) abbastanza classico nonostante manchi in gran parte uno degli elementi ricorrenti del genere, ovvero la creazione della squadra che realizzerà il colpo e che qui troviamo già bella che assemblata, l'unica operazione di reclutamento è volta a tirare dentro il giovane ingegnere che dovrà occuparsi di due compiti essenziali: capire qual è il mistero che sta dietro al funzionamento del sistema di sicurezza del caveau della Banca di Spagna e in seguito trovare una soluzione per aggirarlo. Way down in realtà non presenta grandi elementi di interesse; se Balagueró ci aveva sorpreso positivamente ai tempi di Rec qui segue strade già tracciate, pedissequamente per altro, senza offrire scarti né intuizioni memorabili, una cosa di cui il regista è consapevole e sul quale gioca anche (i riferimenti a Danny Ocean). Inoltre, con una trama del genere, uscendo a ridosso della fine della serie La casa di carta, anch'essa di produzione spagnola, di certo non era facile risultare originali, più probabile se ne volesse cavalcare l'onda. Mettiamoci anche il fatto che le scelte di casting non sono proprio di quelle capaci di destare grande clamore e gli elementi sono più o meno calati tutti sul tavolo. Detto questo rimane da dire che Way down - Rapina alla Banca di Spagna non è affatto un brutto film, tutto già noto ma la pellicola (ma sì, continuiamo a chiamarle pellicole che i sinonimi scarseggiano sempre) si lascia guardare, qualche momento divertente c'è e un pizzico (q.b., come per il sale) di tensione sul finale non manca, ce lo dimenticheremo in fretta ma due ore piacevoli le garantisce. Non di soli capolavori vive l'uomo.

mercoledì 15 gennaio 2025

ATOM, IL MOSTRO DELLA GALASSIA

(Gezora, Ganime, Kameba: Kessen! Nankai no daikaijû di Ishirō Honda, 1970)

Ogni tanto, anche nel passare qualche brutto momento a causa di influenze dai risvolti pesantucci, si riesce a trovare qualcosa di (relativamente) positivo. Se nella vita di un uomo vicino ai cinquanta le cose girano più o meno nella normalità, cosa che già è una fortuna visti i tempi che corrono, il sopra citato uomo dovrebbe trascorrere le sue giornate a lavoro: ufficio, colleghi, rotture di palle, pausa caffè, schermo del computer e via di questo passo. Salvo congiunzioni astrali molto fortunate però, in media, almeno una volta l'anno capita di buscarsi qualcosa e di dover usufruire febbricitanti di un paio di giorni di mutua, a chi non è mai capitato? Ora, questo cosa comporta? Comporta di trovarsi a casa al mattino in piena settimana e in un periodo non festivo, situazione spesso anomala per un lavoratore, impossibilitato a uscire, cotto a puntino e frantumato sul letto (sappiamo tutti quanto qualche linea di febbre possa distruggere un uomo!). Probabilmente, luogo comune ma non così lontano dal vero, una donna ne approfitterebbe per fare qualcosa di utile, forze permettendo (l'organismo femminile ne tira sempre fuori in misura maggiore), un uomo però può comunque adoperarsi per allungarsi, raggiungere il telecomando e iniziare a fare zapping. E qui si apre un mondo, un mondo fatto di canali privati di terza, quarta e quinta categoria (prima e seconda nemmeno sono contemplate), spazi pieni di televendite inconcepibili, pubblicità locali che fanno rimpiangere amaramente slogan come quello che diceva: "se tuo figlio spilungone non ci sta tutto nel letto non cercare di accorciarlo, piuttosto pensa a... segue marca di materassi che non ricordo", repliche di telefilm ormai dimenticati e perduti nel tempo come lacrime nella pioggia e riproposti in maratone concepite con rigoroso ordine casuale e, a volte, se siete fortunati, da qualche bel ritorno all'infanzia. Sesta Rete (o SuperSix, vedi mai si sintonizzasse qualche ammalato britannico); il mio peregrinare pallido (molto) e assorto (molto meno) si imbatte nei primissimi istanti di un kaiju eiga, da bimbo li adoravo, ce n'è qualcuno di cui non conosco nemmeno il titolo che vorrei tanto rivedere (1), facendo qualche ricerca su Google mentre guardo il film scopro trattarsi di Atom, Il mostro della galassia (i titoli di testa erano già passati, SuperSix non offre informazioni, ma il web...), febbre a 38 o più, mi preparo alla sublime visione...

L'umanità si prepara a festeggiare la conquista di Giove, la sonda spaziale Helios-7 viaggia verso il pianeta gigante; durante il viaggio la sonda terrestre viene però invasa e dirottata da quella che all'apparenza sembra essere una sostanza gassosa blu, dopodiché Helios-7 compie una sorta di dietrofront per atterrare nuovamente sulla Terra, vicino un'isola abitata da una tribù di indigeni con tanto di santone e da una popolazione di giapponesi in loco sin dai tempi della guerra in qualità di colonizzatori. Una volta ammarata l'Helios-7, l'entità aliena (Atom) prende possesso di una seppia modificandone la struttura fisica (Gezora) ingigantendola e rendendola molto, molto aggressiva. Dopo i primi avvistamenti e la scomparsa delle prime vittime, un gruppo formato da alcuni indigeni, tra i quali c'è il giovane Rico, (Noritake Saito) e da alcuni giapponesi come il fotografo Taro Kudo (Akira Kubo), tenta di opporre resistenza e fermare la creatura. Atom però non si limiterà a possedere la seppia ormai gigante, trasformando e alterando anche una granchio (Ganime) e un'iguana (Kamoebas). La lotta sarà impari e senza quartiere, non mancheranno scontri tra gli stessi mostri e un finale in cui l'ingegno dell'uomo e le forze della natura troveranno il modo per rimettere a posto le cose.

I Kaiju Eiga (strana bestia letteralmente) sono i classici film di mostri giapponesi, pellicole che vedono protagoniste creature di norma giganti, devote alla distruzione, dall'effetto sullo schermo spesso incline al "ridicolo" grazie al loro aspetto da giocattoloni di gomma realizzati in economia (almeno i classici). Dietro l'apparente facciata scanzonata è però necessario andare a leggere tra le righe cercando di capire come dietro alcuni elementi di questo tipo di film, esploso in maniera definitiva nel 1954 con l'uscita di Godzilla (sempre di Ishirō Honda, vero maestro del genere), si nascondano paure e traumi del Giappone del secondo dopoguerra, un Paese che porta ancora fresco nella memoria il ricordo delle tragedie immani di Hiroshima e Nagasaki, della distruzione, del pericolo nucleare (il cui provocare deformità è insito nella natura di questi mostri) e della devastazione delle città, altro elemento che spesso ricorre in questo tipo di film e, non dimentichiamo, telefilm (pensiamo a Megaloman, Ultraman, etc...). Detto che le origini che stanno dietro la nascita di queste mostruosità e di questi film poggino su basi più che serie e rispettabili, nella fattispecie Atom, il mostro della galassia, tra gli ultimi film di Honda, si lascia ricordare per la singolarità della scelta del mostro principale, una seppia gigante che, nonostante l'aspetto un poco ridicolo, viene animata in maniera egregia dal direttore degli effetti speciali Teruyoshi Katano, arrivato in sostituzione del maestro Eiji Tsuburaya da poco scomparso (da poco all'epoca del film si intende), grazie al movimento dei tentacoli della bestia molto credibile e dinamico. Per il resto il film va preso un po' così, come ritorno a un altro tempo (del cinema, della nostra vita); di per sé la trama è un mero pretesto per inscenare lo scontro tra l'ingegno dell'uomo e la forza primordiale di queste bestie mutate, tra qualche ingenuità e diversi passaggi ben realizzati ne esce un film perfetto da guardare sotto effetto di antipiretici, ci si gode i momenti con questi mostri giganti, i loro suoni inarticolati e l'arte molto materica dell'arrangiarsi con gli effetti speciali. Nostalgico.

1. Per chi volesse aiutarmi a recuperare il titolo di un film di cui serbo solo un vago ricordo ma che ho la ferma impressione da piccolo mi piacesse parecchio (all'epoca li replicavano spesso), lo spunto è il seguente: ricordo una statuetta recapitata a qualcuno in una scatola, la statuetta in qualche modo poi si animava cambiando dimensioni e diventando una sorta di guerriero che poi (forse) avrebbe combattuto i mostri. Il ricordo però potrebbe anche essere fallace, se qualcuno avesse informazioni a riguardo sentitamente ringrazio.

domenica 12 gennaio 2025

GIURATO NUMERO 2

(Juror #2 di Clint Eastwood, 2024)

Il 31 maggio prossimo venturo Clint Eastwood compirà ben novantacinque anni. Ora cerchiamo di immaginare la quantità di energia che deve avere un uomo che a quasi novantacinque anni suonati è capace di dirigere un film come Giurato numero 2, un'opera che come ci si aspetta da Eastwood sfoggia un impianto molto classico (con alcuni scarti interessanti dalla tradizione) ma soprattutto pone lo spettatore di fronte a dilemmi etici e morali che dovrebbero essere alla base di ogni società, di ogni convivenza, di ogni sistema volto a garantire non solo (cieca) giustizia ma soprattutto giusti pesi, giuste misure e magari, dove fattibile, di offrire a tutti la possibilità di vivere senza pregiudizio le proprie seconde occasioni. Sono temi importanti, fondanti verrebbe da dire per imbastire, costruire e poi ampliare discorsi su ipotetiche società (e mondi) migliori, discorsi che oggi più di ieri sappiamo essere utopistici; nonostante questo Clint getta il sasso, prova a farci riflettere, dice la sua, ancora una volta ci propone un film profondamente morale e tra l'altro compie l'operazione senza ricorrere a toni moralistici né tantomeno paternalistici in un'apertura di riflessioni che lasciano campo aperto a ben più di un'approfondimento. Per fare tutto questo Eastwood torna a Savannah, in Georgia, luogo dove il regista già ambientò nel 1997 Mezzanotte nel giardino del bene e del male.

Justin Kemp (Nicholas Hoult) è un marito amorevole in attesa di diventare padre per la prima volta, cerca in tutti i modi di alleviare lo stress della gravidanza dalle spalle della moglie Ally (Zoey Deutch), la ragazza è infatti molto preoccupata a causa di vicende passate e dal fatto che suo marito dovrà assentarsi per qualche tempo in quanto selezionato per far parte di una giuria in un processo per probabile omicidio, proprio come prevede il sistema giudiziario americano. La vittima è una giovane donna, Kendall Carter (Francesca Eastwood), ritrovata in fondo a un dirupo ai margini di una strada poco illuminata; la ragazza era stata vista da diversi testimoni litigare in un bar in maniera veemente con il suo ragazzo, tal James Sythe (Gabriel Basso), un tipo dal passato discutibile e incline alla collera che diventa in maniera naturale l'indiziato (il colpevole?) numero uno. Dopo gli interventi del difensore d'ufficio (Chris Messina) e quelli dell'avvocato dell'accusa Faith Killbrew (una fantastica Tony Colette), la giuria, della quale Kemp è il giurato numero due del titolo, dovrà riunirsi per tirare fuori un verdetto che di primo acchito sembra essere già scritto. All'interno di un gruppo di giurati pronto a condannare Sythe le uniche voci discordi sono in parte quella del giurato di nome Harold (J. K. Simmons), non troppo convinto del fatto che la polizia abbia indagato a dovere su un caso all'apparenza semplice, e proprio quella del nostro giurato n. 2 che dopo qualche dubbio si convince dell'innocenza dell'imputato in quanto, all'insaputa di tutti (anche di sé stesso fino a quel momento), protagonista involontario e diretto della morte della giovane Kendall (non è uno spoiler, si scopre nei primissimi minuti del film). Così Kemp inizierà ad adoperarsi affinché gli altri giurati convertano il loro verdetto da colpevole a innocente nella speranza di ottenere una buona soluzione per tutti, cosa che però alcuni dei compagni di giuria non sembrano disposti a fare.

Con Giurato numero 2 siamo all'interno del filone processuale e giudiziario protagonista di tanto cinema americano (e non solo, pensiamo al recente Anatomia di una caduta), più dalle parti de La parola ai giurati (Sidney Lumet, 1957) che non da quelle di opere più votate al dibattimento in aula o al ruolo da protagonisti di avvocati e testimoni, cose alla Perry Mason giusto per intenderci. La fase in aula è ovviamente presente ma ciò che interessa davvero a Eastwood è quel che succede nella sala e nelle teste (e nei cuori e nelle pance) dei giurati, uno dei quali affronta un dilemma di coscienza insostenibile, consapevole di poter essere stato lui stesso l'involontario artefice della morte della ragazza e al contempo impossibilitato alla confessione non solo dalla legittima paura di una punizione oltremodo pesante da parte del sistema giudiziario americano a fronte di quello che a conti fatti sarebbe da considerare come un incidente (da recuperare le parole di Kiefer Sutherland, avvocato amico di Kemp, che non lasciano speranza in caso di confessione) ma anche dalla responsabilità verso una famiglia nascente che verrebbe abbandonata a sé stessa e che perderebbe il perno emotivamente più stabile in un momento di evidente stress della consorte. Su queste basi sono tantissimi gli spunti di riflessione morale che vengono sollevati nel corso dello sviluppo del film, il primo dei quali è la sufficienza con cui a volte si giudicano gli attori di questi fatti delittuosi (il true crime oggi ci ha reso anche tutti criminologhi, almeno una volta ci si limitava ad essere allenatori di calcio) qui esemplificata dalla svogliatezza di alcuni giurati che "hanno da fare", hanno famiglie che li aspettano a casa e non hanno tempo da perdere, e allora colpevole sia! In fondo è facile, sembra tutto chiaro. Purtroppo non lo è e Kemp lo sa. Il giurato numero 2 è mosso da senso di colpa, sentimento che gli altri undici giurati non provano, è lui che spingerà per rivedere con calma tutte le possibilità e non affrettare una decisione che sì gli toglierebbe le castagne dal fuoco ma che pure condannerebbe un innocente. Inoltre, in un passato ormai lontano, c'è qualcosa che potrebbe, in caso di confessione, non deporre in suo favore e aumentare l'eventuale pena, si amplifica quindi un conflitto tremendo tra colpa e paura che inizia a pesare su Kemp in maniera pesante. Dopo alcune riflessioni entra in ballo il concetto di giustizia, in maniera simbolica, anche didascalica se vogliamo, richiamato da Eastwood già nei titoli di testa, in un caso come questo è possibile davvero ottenere un verdetto giusto che non rovini inevitabilmente (e ingiustamente) la vita di qualcuno? Altro nodo focale è quanto conti la propria felicità (e quella dei propri cari) a dispetto di quella di altri, dilemma qui non solo pertinente al giurato numero due ma anche alla stessa Killbrew (l'avvocato d'accusa) in procinto di ottenere un avanzamento di carriera legato proprio alla condanna dell'imputato. E in tutto questo bailamme etico e morale possiamo dire che il sistema funzioni davvero? Che non sia fatto anche di funzionari e poliziotti svogliati, faciloni, menefreghisti, autorità pronte a far condannare un sospettato senza aver nemmeno tentato di dirimere ogni ragionevole dubbio? Clint ci lascia con un'ipotesi di chiusura ma soprattutto con tanti moniti, riflessioni aperte su valori altissimi come giustizia, verità, etica, obbligo morale e piaghe come pregiudizio e opportunismo, fermo restando la presenza di un sistema molto fallibile e molto spesso iniquo.

venerdì 3 gennaio 2025

LA VALANGA AZZURRA

(di Giovanni Veronesi, 2024)

Pur non essendo un grande appassionato di sport (e in generale nemmeno di documentari a tema sportivo) devo ammettere il mio debole per lo sci, disciplina che seguo invece con continuità e con una certa passione pur non avendo mai inforcato un paio di sci in tutta la mia vita. Questa è la principale ragione, diciamo pure l'unica, che mi ha spinto a guardare il documentario di Veronesi insieme all'affetto nutrito per Paolo De Chiesa, qui tra i protagonisti e ormai presenza fissa in casa nostra da parecchi anni in veste di commentatore per la RAI delle gare di Coppa del Mondo di sci (e mondiali, gare olimpiche, etc...). Manca per chi scrive l'effetto nostalgia provato da Veronesi stesso e dal giornalista Lorenzo Fabiano che qui lo accompagna nella ricostruzione di un'epoca, due uomini che per meri motivi anagrafici hanno potuto vivere le emozioni e i trionfi che la valanga azzurra ha regalato a tanti italiani e al Paese, trionfi che, sempre per le solite ragioni anagrafiche, io non ho vissuto in prima persona (e poi a casa nostra, quando io ero piccolo, lo sci non si sapeva nemmeno cosa fosse, i più grandi esperti mondiali in materia per me erano Heidi e suo nonno). La storia della nazionale italiana di sci degli anni 70 è in ogni caso una di quelle che meritano di essere ricordate (tenendo sempre a mente che lo sci è uno sport individuale e non di squadra), per apprezzarla non è quindi necessario averla vissuta in diretta, anche per chi è arrivato con un poco di ritardo questo La valanga azzurra si rivelerà una bella visione, un modo per conoscere anche gli altri protagonisti di quell'epoca oltre agli ancor oggi notissimi Gros, Thöni e De Chiesa.

Giovanni Veronesi, nell'assemblare la storia della nostra valanga azzurra, si ritaglia un ruolo di co-protagonista all'interno del film in qualità di intervistatore onnipresente, attore di siparietti più o meno comici con i vari protagonisti, rievocazioni dei fatti dell'epoca insieme al sodale Fabiano e mettendoci addirittura alcuni filmini di gioventù che dimostrano la sua precoce passione per lo sci e di conseguenza per questo gruppo di uomini che fecero la storia di questo sport (di donne si parla poco, giusto un accenno) e raccontandoci anche il suo prematuro ritiro dalle piste causa infortunio e conseguenze calata della mamma a vietare questa pratica così pericolosa per i suoi pargoletti. Lo scenario che prende corpo dinnanzi agli spettatori ignari dei dettagli di quegli anni ormai lontani nel tempo, descritti con trasporto da Lorenzo Fabiano, tratteggiano un momento storico sportivo in cui la nazionale italiana di calcio non regalava grandi soddisfazioni, un elemento che contribuì in parte a far balzare alle stelle la popolarità delle imprese di questa squadra di grandi campioni (così come di quella del tennis di quel periodo) capaci di innalzare lo sci a livelli altissimi non solo di popolarità ma anche in termini di indotto economico trasformando uno sport per pochi eletti in una pratica decisamente più diffusa e alla portata di molti. E allora via con le imprese di Gustavo Thöni, vero cardine della squadra attorno al quale emersero e crebbero i vari Piero Gros, Paolo De Chiesa, Rolando Thöni, Franco Bieler, Fausto Radici e diversi altri ancora.

La narrazione corre sciolta e il registro leggero scelto da Veronesi rende piacevole la visione, ci si sofferma molto, ovviamente, sulle vittorie e su alcune delle imprese chiave del periodo, sulla rivalità tra Thöni e il grandissimo Ingemar Stenmark (che contribuì non poco alla fine del periodo d'oro della valanga), sulle dinamiche di squadra con focus particolari sul lavoro dell'allenatore Oreste Peccedi e su quello del commissario Mario Cotelli, personaggio non benvisto proprio da tutti, al contrario dello stimatissimo Peccedi. Ci si sofferma forse poco sugli aspetti negativi del periodo, sulle tragedie all'epoca non così inusuali (quelle immagini degli sciatori che si schiantano sulla casetta), sulla sicurezza da migliorare, sull'allontanamento degli sciatori "sindacalisti" e anche sulla vicenda per molti aspetti tragica (che per fortuna può raccontare lo stesso protagonista) accaduta a De Chiesa, vicenda che in molti ancora non conoscono, un momento forse arrivato un po' così nell'economia del documentario ma sicuramente sentito, doloroso e che ci fa amare ancora un po' di più il nostro Paolino. Alla fine ne esce un docufilm scorrevole, divertito, simpatico che inquadra per sommi capi periodo e campioni donando il giusto tributo a un gruppo di (ex) ragazzi che tanto hanno dato al loro sport e alla nostra nazione, in attesa che quei tempi, almeno al maschile, ritornino (le nostre donne in realtà già si difendono molto, molto bene).

mercoledì 1 gennaio 2025

STRANGE WORLD - UN MONDO MISTERIOSO

(Strange world di Don Hall e Qui Nguyen, 2022)

Durante le festività natalizie è sempre piacevole mettersi sul divano, infilarsi sotto una bella copertina e, bevanda calda alla mano, andarsi a recuperare qualche bel cartone animato; così, dopo aver visto il fallimentare Wish di casa Disney, abbiamo fatto un passo indietro recuperando anche il classico precedente uscito a fine 2022, Strange World - Un mondo misterioso che vede alla regia un quasi veterano Don Hall che all'attivo vanta già Winnie the Pooh - Nuove avventure nel bosco dei 100 acri, Big Hero 6, Oceania e Raya e l'ultimo drago; per questo Strange World Hall è coadiuvato alla regia dal collega Qui Nguyen già soggettista di Raya. Proprio quest'ultimo titolo, che vedeva già coinvolti i due artefici di Strange world, preoccupava un poco per l'esito di questo nuovo film; per ricordare di che cosa parlasse Raya (film anonimo come Wish ma meglio realizzato) sono dovuto andare a rileggere il commento al titolo in questione, cosa che dimostra come l'opera nulla abbia lasciato alla memoria. Allo stesso modo anche Wish, a pochi giorni dalla visione, sta iniziando a sgretolarsi nella mia mente, film più attento a non scontentare nessuno che non a costruire un qualcosa di seppur minimamente interessante o coinvolgente. Diciamo quindi che non si è partiti proprio con il piede giusto nell'affrontare questa visione e invece, sorpresa sorpresa, Strange world si è rivelato un prodotto ben confezionato, divertente e con diverse frecce al suo arco (temi) su cui costruire una bella storia; magari mai diventerà uno dei capisaldi di casa Disney ma almeno il film offre un intrattenimento ben più che piacevole anche se, dati alla mano, anch'esso al botteghino è andato maluccio, facendo così un bel buco nell'acqua (e non solo). C'è da dire che oggi Disney ha la possibilità di recuperare pubblico e soldi con gli abbonamenti su piattaforma, lì pare che Strange world abbia fatto faville, diventa più difficile quindi inquadrare se un film nel complessivo arco di fruizione possa considerarsi o meno un vero flop, diciamo che almeno in prima battuta Strange world (come altri prodotti della Disney più recente) non ha di certo "spaccato".

Avalonia è una ridente cittadina incastonata nel mezzo di montagne invalicabili, quindi un poco isolata e con qualche difficoltà in fatto di innovazione e progresso. Per fortuna tra i suoi abitanti ci sono i Clade; papà Jaeger è un intrepido avventuriero disposto a tutto pur di valicare le montagne e andare alla scoperta di nuovi mondi e nuove possibilità per Avalonia, suo figlio Searcher, più mite e riflessivo, è più il tipo dello studioso, uno che cerca di tirare fuori il meglio dalle risorse a disposizione, da ciò che offre la terra, e per questo poco apprezzato dal padre che vorrebbe un discendente coraggioso e scavezzacollo come lui, pronto a buttarsi a capofitto verso l'incognito. Durante una spedizione alla quale partecipano anche il sindaco Callisto Mal e altri avventurieri i Clade si separano: Jaeger andrà incontro all'incognito senza far più ritorno a casa, Searcher si fermerà a studiare una nuova pianta, il Pando, dalla quale riuscirà ad estrarre l'energia necessaria ad Avalonia per fare il balzo in avanti e ottenere così luce elettrica, mezzi tecnologici, sostentamento e una vita moderna ed equilibrata. Searcher diverrà così un vero eroe per Avalonia, si dedicherà alla coltivazione su vasta scala del Pando, si sposerà con la coltivatrice Meridian dalla quale avrà anche un figlio, un ragazzo in gamba di nome Ethan. Dopo alcuni anni il Pando inizia a perdere le sue capacità energetiche, il problema sembra arrivare direttamente dalle radici, dalle profondità della terra, insieme a Callisto il mite Searcher sarà costretto a imbarcarsi in una nuova e pericolosa avventura nel tentativo di salvare il Pando e Avalonia tutta, sarà seguito dalla sua famiglia in un viaggio in uno "strano mondo" sotterraneo dove ritroverà suo padre e dovrà fare i conti con una serie di "legami di famiglia" tutti da scoprire e imparare ad apprezzare.

Se Wish si apre tornando al classico librone delle fiabe con le pagine che si sfogliano da sole che caratterizzava i primi storici lunghi d'animazione Disney, Strange World - Un mondo misterioso, tenendo fede al suo genere d'elezione, offre una bellissima apertura che omaggia i fumetti d'avventura vintage, i pulp magazines alla Doc Savage, i libri di genere per ragazzi, sfoggiando inoltre un logo che non può non riportare alla mente uno dei più grandi eroi d'avventura moderni, l'intramontabile Indiana Jones di Steven Spielberg. E in fondo questo è Strange World, un bel film d'animazione di genere avventuroso, magari non troppo innovativo ma ben realizzato, ben saldo nel suo genere e con delle cose da dire, magari non tutte inserite al meglio nel contesto generale ma che garantiscono più livelli di lettura e un intrattenimento più interessante di quel che l'anno successivo la Disney realizzerà con Wish. Al centro della narrazione ci sono i legami familiari padre/figlio e lo scontro tra generazioni. Hall e Nguyen ci presentano due padri, di diversa fattura, che cercano di forzare i loro figli a seguire le loro stesse orme e a forgiarli secondo la propria natura: Jaeger vede in suo figlio un animo troppo mite, poco avventuroso e non accetta i suoi interessi per il mondo circostante, quello più a portata di mano; allo stesso modo Searcher non accetta che suo figlio Ethan abbia una grande ammirazione per il ritrovato nonno e che nei suoi desideri sia più simile a lui che al suo stesso padre. A differenziarlo da entrambi, questione che apre un bel discorso, anche incoraggiante sulle nuove generazioni, il fatto che il ragazzo sia più attento all'ambiente, alla vita e al rispetto per l'altro dei componenti più anziani della sua famiglia. C'è un concetto di famiglia ampio e moderno nel film, anche esageratamente inclusivo (papà bianco, mamma nera, figlio gay, cane disabile, donna macho e super affermata, etc..) come ora sembra essere d'obbligo, unico punto gestito con superficialità, non ci sono temi e approfondimenti a riguardo, alcune scelte sono ingenue, il nonno ad esempio è un uomo d'altri tempi che rompe le scatole su tutto ma accetta di buon grado le relazioni omosessuali del nipote, un po' un controsenso per il personaggio, diciamo che questo potrebbe essere l'ideale punto d'arrivo in una società dove l'inclusività sarà la prassi, il tutto andrebbe però gestito con un poco di senso e non solo tanto per fare. Il film (no spoiler) si avvia alla fine con una bella nota ecologica che chiude il cerchio di una narrazione nel complesso ben realizzata e divertente, visivamente colorata e strutturata con la giusta dovizia di particolari e attenzione. Magari Strange world sarà stato un flop al botteghino ma dal punto di vista qualitativo in fondo non ci si può lamentare.

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