giovedì 4 dicembre 2025

BERLINO – SINFONIA DI UNA GRANDE CITTÀ

(Berlin - Die Sinfonie der Großstadt di Walter Ruttman, 1927)

Quello che Walter Ruttman crea con Berlino – Sinfonia di una grande città è un lavoro sperimentale che oggi, a noi spettatori, permette di ammirare il futuro di un passato in forte sviluppo e il passato del nostro presente, che può così tornare a guardare uno scampolo di mondo che oggi non c'è più, fotografia di una città andata oltre. Ruttman ci racconta, ci mostra se preferite, una giornata nella Berlino di fine anni Venti, ce la mostra come se fosse un’entità brulicante di vita, operosa, indaffarata; lo fa con una sinfonia d’immagini che unisce l’astratto al concreto tramite l’utilizzo delle forme, dei segni, delle linee, della direzione. Il regista tedesco costruisce questa sorta di documentario cittadino sul ritmo, proprio come fosse una sinfonia composta dal montaggio, dall’accostamento di fotogrammi e segni che diventano racconto di un momento e di un luogo, con tutto ciò che comporta in termini di rapporto tra umano e sviluppo, tra individuo e massa, tra la pulsazione intima dei gesti quotidiani e il battito collettivo della metropoli. In questo intreccio di movimenti e contrasti, la città emerge come un organismo vivo, capace di assorbire e restituire le energie di chi la abita: una macchina moderna che affascina e inquieta, che attrae e sovrasta, ma che soprattutto testimonia la potenza trasformativa del progresso e l’inevitabile tensione che esso genera nello sguardo umano.

Non c’è trama, non c’è storia. C’è una città che pian piano si risveglia, prende vita, coinvolge la sua cittadinanza in una serie di compiti, lavori, incombenze ma anche in svaghi, momenti più lieti, con energia, in mezzo al caos di una Berlino in pieno fermento. Ruttman apre sul quieto movimento delle onde alle quali presto si sovrappongono linee che ne richiamano il fluttuare, poi forme geometriche a seguirne la direzione, sempre più veloci, un paio di linee che descrivono semicerchi diventano le due barre di un passaggio a livello che preannuncia l’arrivo del treno. Da qui il montaggio diventa a dir poco frenetico: gli stacchi si susseguono rapidissimi, dalla fiancata del treno alle barre parallele dei binari, da questi ai cavi elettrici e ancora sulle ruote del treno e poi cavi, binari, ruote, cavi, binari, ruote, fino a staccare su porzioni di paesaggio in rapida successione. È un gioco di linee e rimandi che guarda alla forma, agli accostamenti, alla continuità e alla discontinuità; il racconto non è narrativo, è formale, basato sull’associazione di fotogrammi che creano una continuità di ritmo, a volte davvero troppo elevato, tanto da faticare a stargli dietro. E ancora: alberi visti dal finestrino che schizzano davanti ai nostri occhi, i tralicci di un ponte, poi si rallenta gradualmente fino all’arrivo del treno alla stazione di Berlin Anhalter Bahnhof.

Ruttman, dopo questa concitata sequenza iniziale, usa diverse soluzioni per mostrarci una città nel momento del suo risveglio: quiete riprese dall’alto sui tetti di Berlino, strade deserte che si alternano grazie all’uso delle sovrimpressioni, il dettaglio sulla Torre dell’orologio ci mostra l’ora; la camera è per lo più fissa, l’incedere è dato dai raccordi, dal montaggio, dai vari particolari della città che si susseguono sullo schermo, dall’accostamento e contrasto di linee e forme. Pian piano Berlino si popola: un uomo che porta a spasso il cane, un gatto randagio, dei passanti, un attacchino, due gendarmi, i trasporti e poi finalmente i lavoratori, le macchine, le scuole, Berlino diventa la città operosa che era in quel periodo. Con Berlino – Sinfonia di una grande città, Ruttmann porta alle estreme conseguenze le possibilità del montaggio come principio ordinatore della realtà urbana: non più semplice strumento narrativo, ma dispositivo capace di generare significato attraverso ritmo, analogia e contrasto. È in questo rigore formale, quasi matematico, che il film rivela la sua modernità e la sua distanza da ogni tentazione documentaristica convenzionale.

mercoledì 3 dicembre 2025

OLD JOY

(di Kelly Reichardt, 2006)

Come già visto in occasione della nostra riflessione su First Cow di Kelly Reichardt, film più recente di questo Old joy, la regista di Miami lavora molto sul rapporto dei suoi protagonisti con lo spazio che li circonda, con la terra d’America, che sia quella dell’epoca di un west ancora tutto da colonizzare o la suburbia più recente di un Paese che sembra aver perso il suo centro, in fondo poco importa. Se in First cow si configurava l’ipotesi (e solo quella) di un Paese che avrebbe potuto essere diverso, probabilmente migliore di quello che poi è diventato, in Old joy contempliamo già quelle che sono le macerie interiori dei protagonisti che la società moderna (americana ma non solo) ha prodotto dopo tanti anni di “sviluppo civilizzato” (con First cow siamo a metà del 1800, in Old Joy l’epoca è quella contemporanea). L’approccio dei due protagonisti di questa breve storia porta con sé un fondo di malinconia, mista a disillusione, forse a rimpianto o, ancor peggio, a una cupa rassegnazione (da parte di uno dei due), magari trattenuta nel tentativo di agire una vita che, apparentemente, dovrebbe volgere all’appagante, alla felicità (Mark è in procinto di diventare padre per la prima volta). Eppure la provincia americana che scorre fuori dal finestrino dell’auto ha tutto il sapore, molto triste, di un grigio stato d’animo diffuso e ormai incancrenito. E se davvero c’è qualcosa che non va (e direi proprio che c’è), questo lo percepiamo tanto dal paesaggio quanto dalle interviste che passano alla radio nell’auto di Mark.

Nel giardino fiorito della sua casetta indipendente, Mark (Daniel London) medita. Riceve una chiamata; il suo vecchio amico Kurt (Will Oldham) è in città, gli propone una notte di campeggio, meta: le sorgenti d’acqua calda vicino Estacada. La compagna di Mark, Tanya (Tanya Smith) è incinta, si crea una di quelle situazioni in cui, all’apparenza, lui non avrebbe bisogno di chiedere il permesso a lei per fare qualcosa, ma in realtà – forse – la dinamica non è proprio così semplice. Caricata la cagnetta Lucy in macchina, Mark parte per andare a prendere Kurt, la radio passa i malumori di cittadini americani delusi dalla politica, il paesaggio scorre triste, monotono, lugubre. Insieme i due si dirigono verso le montagne, prima i convenevoli, le chiacchiere sulla famiglia, poi i ricordi sui vecchi amici. Molti di loro sono finiti male, Syd, quello che aveva il negozio di dischi, ha dovuto chiudere. Ora al suo posto c’è un locale fighetto dove servono succhi di frutta. “Fine di un’era”, dice Kurt. Forse è proprio in quel “fine di un’era” che sta tutto il punto di Old Joy. Su questa affermazione parte una mesta Leaving home degli Yo La Tengo su un’insistita panoramica, una sequenza piuttosto lunga, nella quale la periferia americana sembra non avere davvero nulla di allegro da offrire.

Old joy. Una vecchia gioia. È facile leggere queste tre parole come “una gioia che una volta c’era e che oggi non c’è più”. Il road movie è da sempre veicolo di cambiamento e maturazione per i protagonisti inseriti all’interno di questo genere narrativo. E se proprio di cambiamento qui non possiamo parlare, nel film della Reichardt si prospetta almeno un breve periodo di riflessione. Una riflessione che passa anche attraverso il silenzio, dal riappropriarsi dei propri tempi, dei propri momenti, dal fare i conti con i propri desideri o, ancor meglio, con i propri bisogni più profondi. Quella gioia forse è persa, è andata perduta per sempre, ma dove sono da ricercare i motivi di tanto doloroso e forse ineluttabile furto? La Reichardt non vuole indirizzare in maniera chiara lo spettatore verso una soluzione, al limite lascia alcuni suggerimenti: il disfacimento di una politica scollata dalle necessità reali delle persone, l’inevitabile perdita delle antiche amicizie dovuta al sorgere di nuove forme di legami, affettivi, familiari. O forse questa “perdita della gioia” (leggi anche “infelicità”) è data dalla vergogna per il poco che siamo diventati, dal confronto di ciò che avremmo voluto o avevamo sognato con quello che realmente (non) abbiamo ottenuto. Il personaggio di Mark, all’apparenza risolto, giunto a un approdo, non sembra realmente più felice del suo compagno Kurt (interpretato da colui che altri non è se non il songwriter e cantante Bonnie “Prince” Billy), uno che ha scelto il movimento costante, la vita senza legami. Forse il destino è una perenne insoddisfazione. Il tratteggio della Reichardt sui personaggi è delicato, le interpretazioni di London e Oldham inappuntabili. Old joy è un film piccolo, breve, naturalista nell’accezione letteraria del termine, che in meno di un’ora e mezza di durata riesce a stimolare più d’una interessante riflessione, quello che alla fine il cinema indipendente sembra essere chiamato a fare.

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