giovedì 25 dicembre 2025

M – IL MOSTRO DI DÜSSELDORF

(M – Eine Stadt sucht einen Mörder, di Fritz Lang 1931)

Da diverse settimane, come avranno notato i lettori più attenti, abbiamo iniziato un viaggio all’interno della Storia del cinema rispolverando pellicole che, per un motivo o per l’altro, hanno lasciato un segno indelebile nel percorso che la Settima arte, anno dopo anno, ha tracciato per arrivare fino ai giorni nostri. Tra gli ultimi anni dei Venti del secolo scorso e i primi anni Trenta dello stesso, avviene in maniera graduale ma abbastanza rapida il passaggio dal cinema muto a quello sonoro, innovazione rivoluzionaria per un’arte giovane nata poco più di una trentina d’anni prima. I primi tentativi di registrare il suono direttamente su pellicola, in modo da garantire una perfetta sincronia tra le tracce audio e video, vengono effettuati già nella prima metà degli anni Venti, grazie al sistema Phonofilm di Lee De Forest che ebbe però poco successo a causa della volontà d’indipendenza del suo creatore. Negli anni successivi i sistemi della Western Electric (Vitaphone), con audio registrato su disco che comportava maggiori problemi di sincronizzazione, e quello Movietone adottato dalla Fox (traccia audio su pellicola), permisero una più ampia diffusione dei film sonori, che già a partire dal 1932, tranne rare eccezioni, sostituirono in pratica il cinema muto che andò gradualmente a scomparire. È in questo contesto che Fritz Lang realizza il suo primo film sonoro, una pellicola che proprio per l’uso magistrale della nuova tecnologia viene consegnata alla Storia del cinema da un regista che lavora molto bene anche con la gestione della tensione e con lo scavo psicologico del suo protagonista principale. La storia si ispira ai delitti avvenuti nella città di Düsseldorf; in realtà il film è ambientato a Berlino ed è solo la traduzione italiana del titolo che allude alla città di Düsseldorf, non presente nella versione originale.

Tra le strade di Berlino si aggira un assassino (Peter Lorre) che prende di mira giovani bambine, abusando di loro e uccidendole. Quando giunge l’ora dell’uscita da scuola delle fanciulle, la signora Beckmann (Ellen Widmann) attende con un poco di ansia il ritorno a casa della piccola Elsie (Inge Landgut). Purtroppo questa si imbatte proprio nel mostro, il quale, con le lusinghe di un regalo, di un palloncino, riesce a guadagnarsi la fiducia della bambina che ovviamente non farà più ritorno a casa. Di fronte all’ennesima tragedia l’opinione pubblica mette in croce le forze di polizia che, sotto una grande pressione, mettono a soqquadro il mondo della malavita per ottenere indizi e informazioni sull’assassino. Infastiditi e danneggiati dalle continue ingerenze della polizia, gli esponenti della malavita si coalizzano per mettere per primi le mani sul mostro, in modo da poter riprendere le loro attività illegali senza il continuo fiato sul collo di commissari e agenti di polizia. Saranno proprio loro a dar vita a una sorta di processo sommario nei confronti di Hans Beckert, l’uomo che verrà identificato come M – Il mostro.

Sono diversi gli aspetti per cui M – Il mostro di Düsseldorf ha lasciato il segno nella Storia del cinema, il più significativo dei quali è proprio il geniale uso del sonoro agli albori di questa nuova tecnologia. Il sonoro è nato veramente da pochissimo, e Fritz Lang riesce a usarlo come chiave di volta all’interno di un film che presenta anche alcuni elementi del thriller. È proprio grazie a un motivetto fischiato dal protagonista che l’assassino verrà riconosciuto da un venditore di palloncini cieco (altro tocco di genio). Altro segno di stile fondamentale è l’uso del suono nel fuoricampo; con i rumori, gli effetti sonori, Lang anticipa ciò che sta per succedere in scena (i rumori del traffico, la filastrocca cantata dalle bambine), cose che oggi possono sembrarci scontate, ma che all’epoca erano chiara dimostrazione di un autore moderno capace di avvalersi al meglio delle novità che gli offrivano le nuove tecnologie. Passando dal suono all’immagine, Lang attinge soluzioni visive dall’espressionismo tedesco (l’ombra per la prima apparizione di M, inquadrature dal basso) unendo così la potenza visiva del cinema muto alle potenzialità del sonoro. Ricorre inoltre all’utilizzo del simbolismo con la sequenza della palla abbandonata in un campo (la bimba non c’è più), con il palloncino che vola via (Elsie è volata in cielo), la faccia del mostro incorniciata dalle lame nella vetrina del negozio. Dal punto di vista dei contenuti c’è un’interessante giustapposizione tra polizia e criminali che porta a una riflessione sulla relatività della giustizia, rafforzata dalle reazioni impulsive del popolo della strada in cerca di un facile colpevole. Non da ultimo, infine, l’approfondimento sulle motivazioni del mostro esplicitate dalla “tirata teatrale” di un ottimo Peter Lorre sul finale. Come è facile capire, sono quindi molti i motivi per cui, giustamente, M – Il mostro di Düsseldorf è considerato tra le tappe fondamentali del dipanarsi della Storia della settima arte.

domenica 14 dicembre 2025

LA PASSIONE DI GIOVANNA D’ARCO

(La passion de Jean D’Arc di Carl Theodor Dreyer, 1928)

Nel momento in cui arriva a dirigere La passione di Giovanna d’Arco, il regista danese Carl Theodor Dreyer ha già alle spalle poco meno di una decina di film all’attivo. Prodotto dalla francese Société Generale de Films, La passione di Giovanna d’Arco è una produzione internazionale in più di un senso: capitali francesi, regista danese, scenografo tedesco (Hermann Warm già artefice delle scenografie de Il gabinetto del Dottor Caligari), direttore della fotografia ungherese, ma soprattutto un’idea di messa in scena che va oltre gli stilemi nazionali dell’epoca (espressionismo tedesco, impressionismo francese, scuola del montaggio russo) per aderire a quello che nei tardi anni Venti dello scorso secolo viene definito “stile internazionale”, una sorta di contaminazione tra le avanguardie storiche provenienti dai vari Paesi sopra citati. La capacità di spesa della SGF è alta (andrà in crisi poco dopo per vicende legate al Napoleone di Abel Gance); per girare il film di Dreyer viene ricostruito un set che riproduce fedelmente molte parti del castello di Rouen dove si svolsero processo e rogo di Giovanna d’Arco. Un lavoro mastodontico che servirà solamente agli attori, calati in un contesto credibile e quindi portati a una maggiore immedesimazione all’interno di un set ricostruito con minuzia che il pubblico su schermo non vedrà praticamente mai. Carl Theodor Dreyer decide infatti di girare il film facendo ampio uso di riprese strettissime sui volti, primi piani iperrealistici sostenuti dall’uso delle pellicole pancromatiche che garantiscono un’ottima definizione e permettono di cogliere ogni sfumatura dei volti e delle interpretazioni degli attori senza che questi si dovessero sottoporre a lunghe sessioni di trucco. Del castello si vedono alcune stanze, muri, pavimenti, lasciando fuori campo tutto ciò che può essere stato l’impianto spettacolare costruito da Warm per il film. La struttura narrativa si basa sugli atti processuali della vicenda mettendo al centro del racconto il lato umano, il sopruso nei confronti di una ragazza giovanissima tiranneggiata e umiliata da uomini adulti, spietati e poco illuminati, ansiosi di perpetrare le peggiori nefandezze nel nome del Signore e della Chiesa.

Tutto ciò che riguarda la guerra tra Francia e Inghilterra, la missione di Giovanna d’Arco (Renée Falconetti), le visioni di San Michele Arcangelo, il campo di battaglia, viene lasciato da Dreyer fuori dalla sua narrazione. Il film è incentrato sul processo della pulzella d’Orleans dal momento in cui viene portata di fronte al vescovo di Beauvais Pierre Cauchon (Eugène Silvain) fino alla sua condanna al rogo tra lo sdegno dei paesani che invano tentano di salvarla e di impedire l’attuazione della decisione presa dal clero. Le varie fasi della storia vedono Giovanna sottoposta ad interrogatorio, minacciata, portata alla camera delle torture dove perderà i sensi. Umiliata nella negazione dell’eucaristia, Giovanna cede all’abiura, abiura subito ritrattata dopo il pentimento e il taglio dei capelli, una decisione che la fa condannare a morte senza possibilità di appello e che la porterà verso il tragico epilogo del rogo finale.

Considerato uno dei capolavori del cinema muto, La passione di Giovanna d’Arco affastella diversi segnali di stile che non per nulla sono rimasti a imperitura memoria anche nei manuali di storia del cinema. Innanzitutto paga la scelta di lavorare sui primissimi piani, soluzione per l’epoca innovativa, ancor più felice se si pensa all’interpretazione intensa di una Renée Falconetti protagonista assoluta che accetterà anche un ignobile taglio di capelli pur di contribuire alla riuscita di un film che valorizza grazie a una gamma espressiva di assoluto valore. A corredo anche un parterre di volti crudeli e truci degli ecclesiastici ai quali fa da contrappunto il solo volto del confessore gentile interpretato da Antonin Artaud, colui che formulò il manifesto del “Teatro della crudeltà”. Dreyer ricorre anche a stilemi propri dell’espressionismo tedesco che si intravedono in alcune costruzioni scenografiche, così come alla fascinazione per le macchine dei russi, ben esemplificata nella sequenza durante la quale vengono mostrati i vari strumenti di tortura che porteranno la giovane alla perdita dei sensi. La sofferenza e l’ingiustizia emergono senza bisogno di troppo contesto, in un film senza parole i volti riescono a parlare in maniera chiara e forte, merito di un regista capace di dirigere attori, ottimi, in modo da veicolare attraverso loro e verso gli spettatori un’ampia gamma di sentimenti che hanno consegnato questo film all’elenco degli indimenticabili.

martedì 9 dicembre 2025

OTTOBRE

(Oktjabr di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1928)

Si scrive Sergej Michajlovič Ėjzenštejn ma si legge “montaggio”. Questo, ovviamente, per semplificare l’introduzione a una “visione” di cinema che semplice non è per nulla, quella di uno dei cineasti più innovativi della sua epoca e dell’intera storia del cinema. Ottobre è un lavoro che Ėjzenštejn realizza su commissione in occasione del decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre con la quale i bolscevichi di Lenin presero il Palazzo d’Inverno e il potere destituendo il borghese Governo Provvisorio retto da Aleksandr Fëdorovič Kerenskij, a sua volta instauratosi dopo la caduta dello Zar Nicola II. Ottobre è una sorta di cronaca degli eventi dell’ultima fase della Rivoluzione Russa che il regista originario di Riga (e grande amante del cinema americano) decide di realizzare infondendo all’opera uno stile non sempre immediato ma che portasse lo spettatore non solo alla fruizione passiva di un’opera documento ma a una riflessione attiva capace di muovere e far nascere idee e sentimenti per associazione intellettuale. È quello che poi la Storia (del cinema) ha identificato appunto come “montaggio intellettuale”. L’operazione, seppur riuscita e consegnata alla Storia, non fu ben accolta dai vertici di partito che accusarono l’operazione di eccessivo sperimentalismo, troppo poco chiaro per assolvere a una funzione che si voleva come propagandistica e illustrativa. Infatti non c’è retorica in Ottobre, non c’è la possibilità nello spettatore di identificarsi con i protagonisti e con dei personaggi (qui completamente assenti); ci sono solo i concetti, le idee e le masse, scelte anche vicine all’ideologia del luogo e del momento ma forse all’epoca non troppo semplici da cogliere in un lavoro cinematografico.

Ottobre ricostruisce gli avvenimenti che, nel 1917, portarono alla caduta del Governo Provvisorio russo e all’ascesa al potere dei bolscevichi, in un clima per il popolo di disagio sociale crescente, con le classi proletarie letteralmente consegnate alla fame. A partire dalla caduta dello zar e mostrando come, nel corso dei mesi, si intensifichino le tensioni tra le diverse forze che cercano di controllare il paese, Ėjzenštejn ci mostra le giornate segnate dalle manifestazioni contro il governo, dalle decisioni contrastate sul corso della guerra e dalle ripetute dimostrazioni di sfiducia nei confronti di Kerenskij, mentre i bolscevichi rafforzano la propria posizione all’interno dei soviet e organizzano il passaggio all’insurrezione, coordinando comitati militari e sostenitori nelle varie aree della capitale. La narrazione segue poi la fase in cui il Governo Provvisorio tenta di difendere la propria sede e di mobilitare truppe fedeli, senza però riuscire a fermare l’avanzata degli insorti, che si preparano a prendere i centri strategici della città, fra cui le strutture di comunicazione e i punti di comando; la vicenda culmina nelle ore in cui i bolscevichi completano l’operazione contro il Palazzo d’Inverno, costringendo i ministri alla resa e proclamando la fine del governo esistente, aprendo così la fase in cui il nuovo potere rivoluzionario assume il controllo delle istituzioni statali.

Pur dinnanzi a un lavoro su commissione di Stato, Ėjzenštejn rifiuta la possibilità di realizzare il compitino schematico e didascalico verso il quale sarebbe facile indirizzarsi nel creare un’opera che se non proprio propagandistica si vorrebbe almeno apologetica dell’evento storico qui narrato. Invece il regista russo, pur non mancando di offrire una cronaca dell’evento, decide di sperimentare accostando ad alcuni elementi chiave del suo film e ad alcuni fotogrammi in particolare, immagini non diegetiche, avulse dal contesto del narrato, che però caricano di significato simbolico, spesso in maniera ironica, ciò che lo spettatore sta guardando sullo schermo. Così dopo la figura di un impettito Kerenski, Ėjzenštejn giustappone l’immagine di una statua di un altrettanto impettito Napoleone, in un’altra occasione sempre Kerenski è assimilato all’immagine di un pavone che fa la ruota. Il proclama borghese di “Dio e Patria” viene reso visivamente da una lunga sequenza degli idoli più vari, dal Buddha alle statuine di idoli primitivi, e da mostrine e gradi militari per quel che riguarda la Patria. È solo uno degli esempi che mettono in luce l’uso di quel linguaggio intellettuale che diversi problemi provocò al regista. Inoltre Ėjzenštejn rifiuta l’uso del personaggio; anche alcune delle figure chiave come Stalin o lo stesso Kerenski non hanno qui nessun approfondimento psicologico né umano, sono simboli di un’ideologia, di una fazione, non veniamo a sapere nulla qui di Stalin né di Kerenski, così come tutte le altre comparse del film non sono personaggi, sono la folla, la massa, il popolo, sono concetti non quantificabili, sono tipi, categorie, sono gli operai, i contadini. Nessun filmato d’archivio viene utilizzato per la ricostruzione che non lesina scene anche di un certo impatto visivo (celebre quella del cavallo appeso al ponte). Quella che poteva essere una facile compilazione diventa in mano ad Ėjzenštejn uno dei tasselli studiati ancora oggi per capire le potenzialità del cinema. Certo, dismessi i panni dello studioso o dell’appassionato di Storia del cinema, oggi la visione di un film come Ottobre può apparire difficoltosa, ma questa è più una questione di abitudine e di predisposizione a un tipo di cinema che non consola né intrattiene, e che proprio per questo continua a dirci qualcosa, persino quando sembra parlare da un momento storico ormai molto lontano.

giovedì 4 dicembre 2025

BERLINO – SINFONIA DI UNA GRANDE CITTÀ

(Berlin - Die Sinfonie der Großstadt di Walter Ruttman, 1927)

Quello che Walter Ruttman crea con Berlino – Sinfonia di una grande città è un lavoro sperimentale che oggi, a noi spettatori, permette di ammirare il futuro di un passato in forte sviluppo e il passato del nostro presente, che può così tornare a guardare uno scampolo di mondo che oggi non c'è più, fotografia di una città andata oltre. Ruttman ci racconta, ci mostra se preferite, una giornata nella Berlino di fine anni Venti, ce la mostra come se fosse un’entità brulicante di vita, operosa, indaffarata; lo fa con una sinfonia d’immagini che unisce l’astratto al concreto tramite l’utilizzo delle forme, dei segni, delle linee, della direzione. Il regista tedesco costruisce questa sorta di documentario cittadino sul ritmo, proprio come fosse una sinfonia composta dal montaggio, dall’accostamento di fotogrammi e segni che diventano racconto di un momento e di un luogo, con tutto ciò che comporta in termini di rapporto tra umano e sviluppo, tra individuo e massa, tra la pulsazione intima dei gesti quotidiani e il battito collettivo della metropoli. In questo intreccio di movimenti e contrasti, la città emerge come un organismo vivo, capace di assorbire e restituire le energie di chi la abita: una macchina moderna che affascina e inquieta, che attrae e sovrasta, ma che soprattutto testimonia la potenza trasformativa del progresso e l’inevitabile tensione che esso genera nello sguardo umano.

Non c’è trama, non c’è storia. C’è una città che pian piano si risveglia, prende vita, coinvolge la sua cittadinanza in una serie di compiti, lavori, incombenze ma anche in svaghi, momenti più lieti, con energia, in mezzo al caos di una Berlino in pieno fermento. Ruttman apre sul quieto movimento delle onde alle quali presto si sovrappongono linee che ne richiamano il fluttuare, poi forme geometriche a seguirne la direzione, sempre più veloci, un paio di linee che descrivono semicerchi diventano le due barre di un passaggio a livello che preannuncia l’arrivo del treno. Da qui il montaggio diventa a dir poco frenetico: gli stacchi si susseguono rapidissimi, dalla fiancata del treno alle barre parallele dei binari, da questi ai cavi elettrici e ancora sulle ruote del treno e poi cavi, binari, ruote, cavi, binari, ruote, fino a staccare su porzioni di paesaggio in rapida successione. È un gioco di linee e rimandi che guarda alla forma, agli accostamenti, alla continuità e alla discontinuità; il racconto non è narrativo, è formale, basato sull’associazione di fotogrammi che creano una continuità di ritmo, a volte davvero troppo elevato, tanto da faticare a stargli dietro. E ancora: alberi visti dal finestrino che schizzano davanti ai nostri occhi, i tralicci di un ponte, poi si rallenta gradualmente fino all’arrivo del treno alla stazione di Berlin Anhalter Bahnhof.

Ruttman, dopo questa concitata sequenza iniziale, usa diverse soluzioni per mostrarci una città nel momento del suo risveglio: quiete riprese dall’alto sui tetti di Berlino, strade deserte che si alternano grazie all’uso delle sovrimpressioni, il dettaglio sulla Torre dell’orologio ci mostra l’ora; la camera è per lo più fissa, l’incedere è dato dai raccordi, dal montaggio, dai vari particolari della città che si susseguono sullo schermo, dall’accostamento e contrasto di linee e forme. Pian piano Berlino si popola: un uomo che porta a spasso il cane, un gatto randagio, dei passanti, un attacchino, due gendarmi, i trasporti e poi finalmente i lavoratori, le macchine, le scuole, Berlino diventa la città operosa che era in quel periodo. Con Berlino – Sinfonia di una grande città, Ruttmann porta alle estreme conseguenze le possibilità del montaggio come principio ordinatore della realtà urbana: non più semplice strumento narrativo, ma dispositivo capace di generare significato attraverso ritmo, analogia e contrasto. È in questo rigore formale, quasi matematico, che il film rivela la sua modernità e la sua distanza da ogni tentazione documentaristica convenzionale.

mercoledì 3 dicembre 2025

OLD JOY

(di Kelly Reichardt, 2006)

Come già visto in occasione della nostra riflessione su First Cow di Kelly Reichardt, film più recente di questo Old joy, la regista di Miami lavora molto sul rapporto dei suoi protagonisti con lo spazio che li circonda, con la terra d’America, che sia quella dell’epoca di un west ancora tutto da colonizzare o la suburbia più recente di un Paese che sembra aver perso il suo centro, in fondo poco importa. Se in First cow si configurava l’ipotesi (e solo quella) di un Paese che avrebbe potuto essere diverso, probabilmente migliore di quello che poi è diventato, in Old joy contempliamo già quelle che sono le macerie interiori dei protagonisti che la società moderna (americana ma non solo) ha prodotto dopo tanti anni di “sviluppo civilizzato” (con First cow siamo a metà del 1800, in Old Joy l’epoca è quella contemporanea). L’approccio dei due protagonisti di questa breve storia porta con sé un fondo di malinconia, mista a disillusione, forse a rimpianto o, ancor peggio, a una cupa rassegnazione (da parte di uno dei due), magari trattenuta nel tentativo di agire una vita che, apparentemente, dovrebbe volgere all’appagante, alla felicità (Mark è in procinto di diventare padre per la prima volta). Eppure la provincia americana che scorre fuori dal finestrino dell’auto ha tutto il sapore, molto triste, di un grigio stato d’animo diffuso e ormai incancrenito. E se davvero c’è qualcosa che non va (e direi proprio che c’è), questo lo percepiamo tanto dal paesaggio quanto dalle interviste che passano alla radio nell’auto di Mark.

Nel giardino fiorito della sua casetta indipendente, Mark (Daniel London) medita. Riceve una chiamata; il suo vecchio amico Kurt (Will Oldham) è in città, gli propone una notte di campeggio, meta: le sorgenti d’acqua calda vicino Estacada. La compagna di Mark, Tanya (Tanya Smith) è incinta, si crea una di quelle situazioni in cui, all’apparenza, lui non avrebbe bisogno di chiedere il permesso a lei per fare qualcosa, ma in realtà – forse – la dinamica non è proprio così semplice. Caricata la cagnetta Lucy in macchina, Mark parte per andare a prendere Kurt, la radio passa i malumori di cittadini americani delusi dalla politica, il paesaggio scorre triste, monotono, lugubre. Insieme i due si dirigono verso le montagne, prima i convenevoli, le chiacchiere sulla famiglia, poi i ricordi sui vecchi amici. Molti di loro sono finiti male, Syd, quello che aveva il negozio di dischi, ha dovuto chiudere. Ora al suo posto c’è un locale fighetto dove servono succhi di frutta. “Fine di un’era”, dice Kurt. Forse è proprio in quel “fine di un’era” che sta tutto il punto di Old Joy. Su questa affermazione parte una mesta Leaving home degli Yo La Tengo su un’insistita panoramica, una sequenza piuttosto lunga, nella quale la periferia americana sembra non avere davvero nulla di allegro da offrire.

Old joy. Una vecchia gioia. È facile leggere queste tre parole come “una gioia che una volta c’era e che oggi non c’è più”. Il road movie è da sempre veicolo di cambiamento e maturazione per i protagonisti inseriti all’interno di questo genere narrativo. E se proprio di cambiamento qui non possiamo parlare, nel film della Reichardt si prospetta almeno un breve periodo di riflessione. Una riflessione che passa anche attraverso il silenzio, dal riappropriarsi dei propri tempi, dei propri momenti, dal fare i conti con i propri desideri o, ancor meglio, con i propri bisogni più profondi. Quella gioia forse è persa, è andata perduta per sempre, ma dove sono da ricercare i motivi di tanto doloroso e forse ineluttabile furto? La Reichardt non vuole indirizzare in maniera chiara lo spettatore verso una soluzione, al limite lascia alcuni suggerimenti: il disfacimento di una politica scollata dalle necessità reali delle persone, l’inevitabile perdita delle antiche amicizie dovuta al sorgere di nuove forme di legami, affettivi, familiari. O forse questa “perdita della gioia” (leggi anche “infelicità”) è data dalla vergogna per il poco che siamo diventati, dal confronto di ciò che avremmo voluto o avevamo sognato con quello che realmente (non) abbiamo ottenuto. Il personaggio di Mark, all’apparenza risolto, giunto a un approdo, non sembra realmente più felice del suo compagno Kurt (interpretato da colui che altri non è se non il songwriter e cantante Bonnie “Prince” Billy), uno che ha scelto il movimento costante, la vita senza legami. Forse il destino è una perenne insoddisfazione. Il tratteggio della Reichardt sui personaggi è delicato, le interpretazioni di London e Oldham inappuntabili. Old joy è un film piccolo, breve, naturalista nell’accezione letteraria del termine, che in meno di un’ora e mezza di durata riesce a stimolare più d’una interessante riflessione, quello che alla fine il cinema indipendente sembra essere chiamato a fare.

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